XT v^J .•u Presented to the LIBRARY e/ r/z^ UNIVERSITY OF TORONTO from the estate of GIORGIO BANDINI CAVOUR. n DOMENICO ZANICHELLI. CAVOUR. FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. 1905. FIRENZE, 919-1904-5. — Tipografia Barbèra Alfani e Venturi proprietari. Compiute le formalità prescritte dalla Legge, i diritti di riproduzione e traduzione sono riservati. Capitolo I. I. Introduzione. — IL Le idee politiche predominanti in Piemonte dalla conquista francese in poi. — Forma- zione e aspetto del sentimento nazionale italiano nella borghesia e nelV aristocrazia. — / regni di Vittorio Emanuele /, di Carlo Felice , di Carlo Alberto fino al 1847. — III. La famìglia Cavour. — Caratteristi- che dell'aristocrazia piemontese di cui questa faceva parte. — Le persone che componevano la famiglia Cavour. — / D' Auzers. — / Clermont-Tonnerre . — / De Sellon. — Augusto e William De La Rive. I. Quando nacque il Conte di Cavour in Torino, il IO agosto del 1810, questa città era capitale non già d'uno Stato indipendente, ma d'una provincia francese, e in essa risiedeva una corte, quasi si direbbe, vice-regale attorno a Paolina Bonaparte e al suo paziente e tolle- rante marito Camillo Borg'nese. Alla corte di Paolina aveva un'alta carica il padre del Conte, il marchese Mi- chele, e il nome imposto al suo secondogenito indica appunto l'ossequio e la devozione che il futuro vicario del Re di Sardegna nella città di Torino, in quel tempo professava per i rappresentanti e i parenti dell' Impe- ratore che aveva cacciato e perseguitava e insidiava, allora, fin nell'isola dove s'era rifugiato, il legittimo Cavour. i CAPITOLO I. sovrano del Piemonte, che a lui onnipotente signore d'Europa mai aveva voluto inchinarsi. Non abbiamo molte notizie intorno al marchese Michele, il quale da vicario di Torino non lasciò presso i liberali buona me- moria di sé; anzi la ripugnanza che gli uomini nuovi sentivano per lui, non fu l'ultima causa dell'antipatia che nei primordii della sua carriera politica perseguitò il futuro grande Ministro. Pur tuttavia è certo che il marchese Michele era uomo di svegliato ingegno e di molto accorgimento ; e aver potuto godere di molta re- putazione alla corte della monarchia restaurata, nono- stante che avesse vissuto presso Paolina Borghese, non essere stato sospettato, benché tenuto lontano da ogni ufficio pubblico, aver infine avuto per molti anni sotto il regno di Carlo Alberto una carica, se non eminente, certo di fiducia, quasi si direbbe, poliziesca, come quella di Vicario del Re per la città di Torino, sono fatti che at- testano come egli non fosse uomo del quale si potessero tenere in non cale i servigi e sopratutto i consigli. Il Conte di Cavour era ancora nella prima infanzia quando cadde l'impero napoleonico e fu restaurata la monarchia di Savoia; fanciullo assistette ai moti del 1821 ; giovane sentì tutto il peso di quel legittimismo assoluto e insipiente, sebbene non privo di dignità, che informò il regno di Carlo Felice ; non partecipò alle speranze che negli animi liberali e progressivi destò al suo principio il regno di Carlo Alberto, ma provò un fiero dolore e nacque nel suo animo una profonda irritazione quando vide questo principe persistere nell'assolutismo bigotto; la sua condizione sociale e, sopratutto, la naturale di- rittura della sua mente essenzialmente ragionatrice e tratta a considerare in modo pratico e positivo ogni CAPITOLO I. questione, ogni problema che le si presentasse, gli im- pedirono di confondersi coi rivoluzionarli, ma nello stesso tempo gli fecero sentire tutto il peso insoffribile dell'as- solutismo, mentre la sua cultura, allargandosi coi viaggi all' estero e cogli studii, questa insofferenza del regime sabaudo in casa aiutava a combinare col sentimento dell' italianità e colla ripugnanza verso ogni dominio straniero nella penisola, più o meno esistenti in ogni animo piemontese e specialmente nell'aristocrazia e nella classe borghese. Così che quando parvero matu- rare nel 1846 i fati d'Italia, il Conte di Cavour era perfettamente preparato a partecipare alla rivoluzione che cominciava, a darsi alla vita pubblica, nel giorna- lismo, nel parlamento e nel governo, senza esitazione e senza incertezze. Nel 1846 egli è già statista e uomo politico; ha una nozione netta e precisa di ciò che deve fare, ha piena coscienza del suo valore, vede, sa e vuole meglio degli uomini politici che lo circondano e che sembrano e si credono da più di lui, meglio degli av- versarli che lo temono, dei nemici che lo combattono e che egli sferza senza pietà. Perciò noi che vogliamo non farne una biografìa, nel senso ampio e completo della parola, ma esporne la vita nei suoi tratti più salienti e sopratutto illustrarne e determinarne l'opera di statista nel risorgimento della patria, dobbiamo soffermarci a considerare gli anni della giovinezza del gran Conte, l'ambiente nel quale visse, gli elementi della sua cultura, i tratti caratteristici di formazione delle sue idee, perchè in questo studio pre- liminare troveremo la ragione della sua azione futura di deputato, di ministro, di diplomatico; di statista, insomma, nel più ampio e nobile senso della parola. CAPITOLO I. IL Non è una frase retorica, né un' esagerazione elo- giativa dire che il Piemonte negli ultimi anni del se- colo XYIII, e poi sempre dopo, fu la regione d'Italia dove si sentiva più italianamente, dove pii!i forte era la ripugnanza per il dominio straniero e più determinato e preciso il desiderio di rendere indipendente tutta la penisola. Indubbiamente Vittorio Alfieri fu il primo tra gì' italiani moderni ad avere una chiara nozione del- l' Italia come entità politica, come Stato ; ora, sia che ci vogliamo ascrivere alla scuola storica e filosofica che glorifica come eroi i grandi uomini che, secondo essa, sono i suscitatori dei popoli, i creatori dei grandi pro- gressi civili, sia che accettiamo i postulati dell' altra scuola che li considera unicamente come un prodotto dell'ambiente, che essi non formano, ma dal quale sono formati e inspirati, arriveremo sempre alla conclusione che il Piemonte, o per opera dell'Alfieri o per altre cause delle quali l'Alfieri ci prova l' esistenza, era la regione d'Italia dove gli elementi della vita politica ita- liana crescevano più gagliardi, dove più forte e deter- minato era il sentimento nazionale. La formazione e l'assodamento dei grandi Stati, an- che prima della rivoluzione aveva spinto l'ambizione dinastica dei Sabaudi verso l'Italia, e la cosidetta po- litica del carciofo era quella che, consciamente o incon- sciamente, con varia fortuna tutti seguivano, destreg- giandosi tra i grandi Stati che circondavano il Piemonte, mirando ad allargare, colle armi e colla astuzia, non sempre scrupolosa, il proprio dominio nella valle del Po. CAPITOLO I. Non era certo questa dei Sabaudi una politica nazio- nale, nel vero senso della parola, e molto meno era una politica unitaria; ma dell'una e dell'altra formava il sostrato necessario, e all'una e all'altra avrebbe dato, quando i tempi fossero maturi, la forza per concretarsi nei fatti. Questo sentì Vittorio Alfieri, non in modo preciso e netto, ma si direbbe inconsciamente; il no- bile piemontese, d'una famiglia di statisti e di soldati legati da una fedeltà secolare a Casa Savoia, dall'am- biente stesso in cui era nato e aveva vissuto i primi anni, ricavò quegli elementi di ideale politico nazionale che, uscito egli poi dal Piemonte, fruttificarono splendi- damente e di lui fecero il vate profeta dell'Italia futura. Questa trasformazione che nell'Alfieri precursore, preparata dai suoi viaggi fuori del Piemonte e dalla sua cultura letteraria e storica, si svolge rapidamente nella prima tormenta della rivoluzione, nel popolo del Piemonte, o, per meglio dire, nella classe aristocratica e nella borghese, si svolse durante le lotte colla Francia e la conquista e l'occupazione francese. La borghesia, impregnata delle idee della rivoluzione, avversa all'as- solutismo e più che a questo, all'oligarchia aristocra- tica che lo circondava, sperò che la Francia, rigenera- trice del mondo, avrebbe, nel distruggere l'uno e l'altra, instaurato un governo di libertà e d'eguaglianza, senza nulla pretendere in compenso, senza attentare all' indi- pendenza secolare del Piemonte da ogni dominio stra- niero, anzi piuttosto unendolo alla Lombardia e alle altre regioni d'Italia, che diceva di volere successiva- mente afìrancare, per costituire nella penisola uno .Stato nazionale. Con questa speranza la borghesia subalpina in parte aiutò la caduta, in parte lasciò con piacere, o 6 CAPITOLO I. almeno senza rammarico, cadere il principato assoluto ; ma quando, invece della libertà ebbe solo l' eguaglianza, e vide la propria terra congiunta, come conquista, alla Francia, la vecchia e inveterata fedeltà verso Casa Sa- voia in essa risorse e si fortificò, perchè nel ritorno dei principi legittimi vedeva ognuno restaurata, almeno, l'in- dipendenza dallo straniero e la dignità di Stato ridata al Piemonte. E poiché gli uomini apprezzano sempre meno ciò che hanno di ciò che non hanno e deside- rano avere, i benefizii nella convivenza civile derivanti dal dominio francese alle classi medie erano tenuti in non cale : solo si sentiva la vergogna della soggezione allo straniero, lo strazio delle continue guerre e il peso delle imposte. Inoltre ognuno anche credeva che non fosse possibile il ritorno al vecchio governo assoluto, e, quindi, era incoraggiato a desiderai'e la cessazione del- l'occupazione francese dalla fiducia che nulla si sarebbe perduto dei progressi ottenuti e molto si sarebbe acqui- stato col ritorno dei principi sabaudi. Indubbiamente se Napoleone avesse unito il Piemonte al Regno italico, la fedeltà tradizionale verso i principi sabaudi non sa- rebbe così facilmente risorta nelle classi medie della so- cietà subalpina, ma, indubbiamente anche, con quella unione il regno italico avrebbe acquistata una consi- stenza, una forza politica tale da renderlo molto meno docile strumento, di quello che non sia stato, nelle mani della Francia. Colla ripugnanza e coli' odio verso i dominatori stra- nieri, nella borghesia subalpina si fortificò l' idea nazio- nale italiana, non nel senso unitario, ma nel senso del- l' affrancamento di tutta la penisola da ogni esterno dominio, fosse francese o austriaco, e questa idea na- CAPITOLO I. zionale si radicò profondamente in modo speciale nella parte colta del ceto medio. Per queste ragioni, quando cadde l' impero napoleonico, la borghesia piemontese acclamò il ritorno del re legittimo, perchè in lui vide il simbolo e l' afìermazione vivente della riacquistata indipendenza; da lui sperò, non solo la conservazione dell' eguaglianza civile, ma la garanzia d' un' onesta li- bertà, e l'attuazione di quegl' ideali italiani che s'agi- tavano nella sua mente e nel suo cuore. Dell'aristocrazia, alcuni pochi, spaventati dalla rivo- luzione, erano divenuti ferocemente reazionarii, nulla sperando che dall'Austria, cui tutte le aspirazioni e le ambizioni erano disposti a sacrificare e sacrificavano, meno l' indipendenza dello Stato sabaudo. All' infuori di questi pochi, che avevano però molte aderenze alla corte, specialmente attorno al fratello minore del re, Carlo Felice duca del Genevese, la nobiltà del Piemonte si divideva in due categorie : 1' una, assolutista e legit- timista, che parteggiava per la politica del carciofo e odiava ugualmente la Francia e l'Austria, come avrebbe odiato la Spagna e l' Inghilterra se avessero preteso di dominare in Italia; l'altra, costituzionale e liberale, che, leale verso il re e la dinastia di Savoia, pensava che fosse compito preciso dello Stato piemontese liberare l'Italia da ogni dominio straniero e adottare, e fare adot- tare agli altri Stati italiani, istituzioni consultive che permettessero ogni moderato progresso, e anche, i più avanzati in essa, desideravano le istituzioni rappresen- tative modellate, secondo la dottrina francese, su quelle dell' Inghilterra. Tra la borghesia e l'aristocrazia, sorti dall'una e dall' altra, vi erano poi quelli, o ufficiali o funzionarli CAPITOLO I. dell' impero, di nazionalità piemontese, che nelle guerre e nella agitata e splendida vita sociale del tempo ave- vano preso il gusto delle grandi cose, adottate quelle idee della rivoluzione che l' imperatore rendeva preva- lenti e assicurava, e appreso l'odio all'Austria. Questi, a cui aderivano i più accesi della borghesia e dell' aristo- crazia, si piegarono volentieri alla restaurazione, ma, insofferenti dell'ambiente piccolo e ristretto in cui erano forzati a vivere, ben presto l' odio all'Austria e i ri- cordi imperiali trasformarono nel sentimento nazionale, sognando di fare del re di Sardegna il re, se non di tutta r Italia, almeno della parte settentrionale e cen- trale della penisola, rifacendo, cioè, a profitto dei sa- baudi, il regno italico di Napoleone. Questa, in brevi e somniarii tratti, la condizione de- gli animi in Piemonte subito dopo avvenuta la restau- razione. La quale, accettata, come abbiamo detto, da tutti, disilluse ben presto tutti. Gli assolutisti retrogradi, austriacanti per paura d' un ritorno della rivoluzione, non la trovavano, durante il regno di Vittorio Ema- nuele I, abbastanza reazionaria, gli altri, a seconda degli umori, o la ritenevano soltanto troppo debole verso l'Au- stria, oppure erano disgustati e offesi dalla grettezza, l'insipienza, l'ignoranza di cui faceva prova continua- mente. Nel fatto era quella della restaurazione sabauda una mascherata, la quale, durante il regno di Vittorio Emanuele I, avrebbe meritato d' essere riguardata come ridicola se non avessero persuaso un certo rispetto, la buona fede, l'onestà e la rettitudine di intenzioni del re e di molti tra i suoi ministri e uomini di fiducia. / miei ricordi di Massimo D'Azeglio ci mostrano con una evidenza somma ciò che era la vita sociale del CAPITOLO I. Piemonte in quel tempo ; basta ripensare a quel dialogo in casa della marchesa à^Crsentin per capire come que- gli assolutisti ignorassero completamente, o fingessero di ignorare, le condizioni nuove della Società e dello Stato. E si capisce, anche, come quell'edificio cadesse al primo soffio contrario che s' alzò, non avesse la forza di resi- stere ad un moto rivoluzionario come quello del 1821, che un governo bene assestato avrebbe represso senza grande difficoltà. Un mezzo vi sarebbe stato per do- mare immediatamente i rivoltosi, quello di invocare l'aiuto dell'Austria, ma ad esso ripugnava il re, il quale preferì abdicare, forse colia segreta speranza che il fratello suo Carlo Felice, erede legittimo, anch' egli rinunziasse al trono, e perciò, questo fosse occupato da Carlo Alberto, designato dalla legge salica a salirvi alla morte dell' ultimo dei Savoia del ramo primogenito. Carlo Alberto, nel quale si appuntavano tutte le spe- ranze degli avversi all'assolutismo ma devoti alla mo- narchia, avrebbe immediatamente calmata la rivolta, e, quindi forse, tolto ogni pretesto all'Austria d'intervenire. Invece, come è noto, nulla di tutto questo accadde; Carlo Felice salì al trono, coir aiuto d' un esercito austriaco vinse i rivoltosi che furono condannati da tribunali mi- litari a pene più o meno gravi, e in molta parte si salva- rono coir esilio. Era inevitabile, del resto, 1' occupazione austriaca, principalmente perchè all'Austria premeva di assicurarsi del Piemonte, dove i rivoluzionarii avevano annodato rapporti coi carbonari lombardi per un'azione comune, e, perciò, potevano ai lombardi porgere quel- l'aiuto che derivava da uno Stato piccolo per territorio, ma forte militarmente e, dalla sua tradizione, spinto ad allargarsi nella valle del Po, tendendo a Milano. CAPITOLO I. Quel governo che dal 1814 al 1821, durante il regno del buon Vittorio Emanuele, era stato più che altro una mascherata, durante il regno di Carlo Felice di- venne una realtà dura e opi^rimente, solo mitigata dalla saviezza amministrativa di cui spesso diedero prova i go- vernanti. E furono gli anni questi in cui gli spiriti pro- gressivi del Piemonte, gli stessi assolutisti illuminati, furono messi a più dura prova. Divenuto inviso e so- spetto ai liberali l'erede del trono Carlo Alberto, insi- diato questo anche dalla reazione europea, messa in forse l'indipendenza stessa dello Stato, trascurato l'esercito; tutto parve accennasse ad una decadenza irrimediabile della monarchia sabatida, e furono proprio questi gli anni in cui il Conte di Cavour passava dalla fanciul- lezza all'adolescenza e si affacciava alle soglie rilucenti di speranza della giovinezza. Quando venne a morte Carlo Felice e gli successe Carlo Alberto, parve per un momento s'aprisse una nuova èra per il Piemonte e infatti s' aprì, ma non in modo che potesse essere ve- duta da tutti. Il re, dopo la triste esperienza del 1821, sopratutto perchè irritato delle accuse, in buona parte ingiuste, che gli rivolgevano i rivoluzionarli di fuori e i liberali in casa, e perchè insidiato contemporaneamente dall'Austria e dai rivoluzionarli, costretto anche da un giuramento prestato e del quale egli si esagerava l' im- portanza, mosso dal misticismo che era al fondo del suo animo e dall'alta idea del suo diritto e del suo dovere di re, s' era composto, nella mente e neh' animo, un certo suo sistema d'assolutismo, s'era prefissa una certa linea di condotta politica all'interno e all'estero, da tenere tutti, reazionari! e liberali, continuamente in sospetto e agitati, perchè non riuscivano né gli uni, né gli altri, CAPITOLO I. a penetrare il suo segreto pensiero e la sua vera ten- denza. Carlo Alberto fu un vero principe riformatore, sul tipo di quelli del secolo XVIII, con in più un forte sen- timento religioso molto affine alla bigotteria che in quelli mancava. Egli volle svecchiare il suo Stato portandolo alla pari degli Stati assoluti più progrediti, principal- mente dell'Austria, e in molta parte vi riuscì, non in tutto perchè gli scrupoli bigotti lo impedivano, ed anche perchè, essendo i tempi più propizii alle istituzioni li- berali che alle riforme principesche, non poteva giovarsi degli uomini migliori e più progressivi, i quali o erano in un campo avverso all'assolutismo o se ne stavano inerti. Inoltre egli, come tutti gli uomini che hanno molto sofferto, hanno corso gravi pericoli e sono stati obbli- gati a impiegare, per salvarsi, più l'astuzia che l'au- dacia, si era fatto, come abbiamo visto, una natura in- certa, indecisa, ma anche capace di eccessi quando qualcuno gli si levasse contro, come si vide nel 1833. Per tutte queste cause, Carlo Alberto non fu capito dai liberali, ebbe nemici i rivoluzionarli, e ostili tutti quelli che sognavano l' impresa italiana capitanata e guidata contro l'Austria da un principe sabaudo. Né ebbe amici sinceri e devoti i reazionarii, che di lui erano e rima- sero sempre diflidenti. Quindi sotto il suo regno, fino al 1847, la opinione pubblica in Piemonte rimase pres- s'a poco come abbiamo visto che era subito dopo la re- staurazione, con questo solo di più e di meglio che le riforme dal re operate, per quanto timide e incomplete, migliorarono gli ordini amministrativi e politici dello Stato, e perciò rinvigorirono le energie naturali del pò- 12 CAPITOLO I. polo, abilitando, quasi inconsciamente, le classi dell'ari- stocrazia e della borghesia a bene usare delle istituzioni libere quando furono concesse. In questo ambiente, il Conte di Cavour visse fino a quando le istituzioni rappresentative, instaurandosi nel suo Piemonte per l'Ita- lia, lo chiamarono alla vita pubblica, a reggere le sorti del suo paese, facendolo moderatore e incitatore di quella rivoluzione, dalla quale doveva formarsi la unità, l'indipendenza e la libertà della patria. III. La famiglia dalla quale uscì il Conte di Cavour ap- parteneva a quella nobiltà piemontese che il principato sabaudo aveva saputo trasformare da feudale o com- merciante in militare e diplomatica, e sulla quale il prin- cipato stesso sapeva di poter fare, in ogni circostanza, sicuro assegnamento. Questa nobiltà, attorno al re, era il ceto dominante nello Stato e nella Società, ed era pri- vilegiata nel senso che a lei erano riserbate le alte cariche pubbliche, godeva di distinzioni speciali sotto l'aspetto giuridico, ma non nel senso di essere esente dai doveri verso lo Stato e il principe, che anzi questi incombevano e pesavano più su di lei che sulle altre classi sociali. Quando lo Stato era in guerra e le casse del tesoro pubblico erano vuote, il re dava l'esempio e i nobili lo seguivano : si vuotavano i forzieri e si im- pegnavano o si vendevano le gioie, le argenterie, gli oggetti d'arte, e persino le decorazioni, per far denaro, e tutto si versava nelle casse pubbliche; le altre classi, mosse da questo esempio, pagavano fin l'ultimo soldo senza troppo lagnarsi. E come cogli averi, la nobiltà CAPITOLO I. 13 pagava colla persona nelle guerre, negli ufncii pubblici mal retribuiti e che servivano più a diminuire che a ingrassare i patrimonii. Così che mentre i privilegii della nobiltà erano enormi, essendo questi accompagnati da doveri penosi e difficili, la nobiltà non si corruppe come la francese prima della rivoluzione; e per quanto, a causa appunto dei privilegii, fosse guardata con astio ed invidia dalla borghesia, mai però quest' astio e que- st' invidia poterono prorompere ad eccessi come alla fine del secolo XVIII in Francia. E quando questi pri- vilegii furono nuovamente instaurati nel 1814, parvero, come abbiamo accennato sopra, una mascherata e ur- tarono r opinione pubblica, per ciò destando rancori e risentimenti; ma, conviene pur dirlo, i privilegii furono se non tolti, diminuiti dal fatto che la nobiltà stessa, al- meno nella sua parte migliore, mostrò ben presto di non farne gran conto, anzi si chiarì disposta a farne getto quando fosse necessario pel bene dello Stato e per abilitarlo a compiere i suoi destini italiani. La famiglia Cavour, in sé stessa e nella sua vasta parentela, quando Camillo vi nacque e crebbe, aveva un carattere complesso. Il padre, marchese Michele, dopo aver servito, come abbiamo già detto, l' impero, vi faceva pompa d' un legittimismo troppo assoluto per essere in tutto sincero; per natura e per gli avveni- menti che gli erano passati sotto gli occhi e ai quali aveva, più o meno volontariamente, partecipato, egli era scettico e, come tale, piuttosto incline a quegli or- dini liberi che non ponessero ostacolo al prevalere delle alte classi ; m.a questa sua propensione non palesava, e solo qualcuno dei più intimi di casa poteva supporla. La moglie, una De Sellon di Ginevra, di famiglia prò- 14 CAPITOLO I. testante e solo alla nascita di Camillo convertita al cattolicismo, era un'ottima madre, colta, amorosa coi figli e col marito, d'idee larghe e aperte, senza molti dei pregiudizii del suo tempo e della sua classe. In casa v' era, e visse fino al 1849, la madre del marchese Michele, Francesca Filippina di Sales, figlia del marchese di Duingt di Sales, della famiglia di san Francesco, che fu donna di alto ingegno e di raro buon senso. Essa esercitò finché visse un ascen- dente su tutta la famiglia, e non è certo contrario al vero dire che a lei si deve se, nella tormenta della rivoluzione, questa non andò dispersa e infranta. Ne salvò e ricostruì il patrimonio, la tenne unita; per non lasciarla colpire dai fulmini dell' imperatore accettò di entrare come dama d'onore nella corte di Paolina Borghese e coprì il posto difficile, massime dato il ca- rattere capriccioso e i costumi non troppo rigidi della principessa, con tanta dignità e avvedutezza da conci- liarsi il rispetto di tutti; sotto la restaurazione si re- strinse nella famiglia che attorno a lei cresceva vene- randola, non partecipò ai pregiudizii vecchi e rinnovati del suo ceto; senza darsi aria di politicante, vide l'ina- nità dell'assolutismo, e manifestò sempre le sue ten- denze verso gli ordini liberi, tanto che quando fu dato lo statuto, Camillo le diceva : tious nous enteìidons à nicì~veille vous et moi, car vous avez toujours été un peu jacobine. Morì nel 1849 dopo avere incitato alla guerra d'in- dipendenza tutti quelli della sua famiglia che potevano portar le armi, e morì col cuore infranto dal dolore per la perdita del pronipote Augusto Cavour, caduto eroi- camente a Coito. Di tutta la famiglia la marchesa Fi- CAPITOLO I. 15 lippina è la persona che forse fu più teneramente amata da Camillo, certamente fu quella che gì' inspirava più confidenza perchè più ne capiva e portecipava le aspi- razioni e le idee. Il fratello maggiore di Camillo, Gu- stavo, cui spettava, per diritto di maggiorascato, il ti- tolo marchionale e la maggior parte del patrimonio, aveva ingegno forte, più propenso agli studii che al- l'azione, e negli studii filosofici infatti si distinse tanto che avrebbe lasciato di sé maggior nome se la fama del fratello cadetto non l'avesse, come spesso accade, oscurato; fu amico devoto e affettuoso di questo, per quanto non ne partecipasse tutte le idee troppo per lui larghe e spregiudicate cosi in politica come in reli- gione, e per quanto anche, nella loro prima gioventù, non mancassero tra i due dissensi abbastanza gravi, derivanti dal fatto che Gustavo, come primogenito nella famiglia, era trattato con maggiori riguardi, cosa questa che a Camillo, conscio del suo valore e insofferente d' ogni superiorità che non derivasse dall'ingegno e dal sapere, riusciva sommamente incresciosa. La moglie di Gustavo, Adele Lascaris di Ventimiglia, fu amata da Camillo con afì'etto fraterno, e quando morì il 31 di- cembre 1833 in ancor giovane età, fu da questo since- ramente pianta, e del suo dolore rimane testimonianza, oltre che nelle lettere di lui, nel cenno necrologico che ne scrisse nella Gazzetta Piemontese. Affezionatissimo era il Conte al figliuolo maggiore di Gustavo, Augusto, che, come abbiamo visto, morì combattendo a Coito, sebbene, quando questo era ancora fanciullo, lo zio in- sorgesse spesso contro quelli di casa che si mostravano soverchiamente deboli nell' educarlo, e non avesse rite- gno anche di somministrargli qualche severa correzione. l6 CAPITOLO I. Tralasciando dì parlare di due fratelli del marchese Michele, il conte Mattia Benso e il cavalier Obertino conviventi in casa e che non lasciarono grande traccia di sé, né ebbero una notevole influenza sul gran Conte, verremo a dire qualche parola delle due famiglie im- parentate colla famiglia Cavour, cioè i D'Auzers e i Clermont-Tonnerre. Il Conte D'Auzers, marito ad una sorella della madre di Camillo, dopo avere sotto l' im- pero napoleonico coperto importanti ufficii amministra- tivi, era entrato in grande dimestichezza con Carlo Al- berto e fu suo fido consigliere e suo sostenitore, sempre prima e dopo la rivoluzione del 1821 ; anzi quando il prin- cipe fu mandato comiC in esilio in Toscana, il D'Auzers in tutti i modi cercò di difenderlo e di farlo tornare in grazia presso la corte di Torino e quella di Parigi, e scrisse anche articoli in varii giornali a questo scopo. La moglie di lui partecipava pienamente alle idee del marito; e l'uno e l'altra in politica avevano idee tut- t' altro che liberali e progressive, sicché spesso erano in dissenso col nipote Camillo, senza che per questo diminuissero i vincoli di affetto che reciprocamente li stringevano. La famiglia di Clermont-Tonnerre si componeva del duca e della moglie sua, sorella anch'essa della madre di Camillo. Il duca era uomo di non comune valore, e Ca- millo aveva per lui una grande stima, oltre che un sincero affetto, sebbene non partecipasse alle sue idee legitti- miste, e sopratutto non approvasse che, con quelle idee, continuasse nella carica di pari di Francia dopo la ca- duta di Carlo decimo, senza prender parte ai lavori par- lamentari, ma percependo l'onorario di L. 12,000 annue che alla paria era annesso. Vivace d' ingegno, colta, CAPITOLO I. 17 brillante nella conversazione, ma altrettanto legittimista che il marito, era la duchessa, e per lei Camillo aveva un profondo affetto e una grandissima confidenza. Non andavano d' accordo in politica, anzi spesso si bistic- ciavano, ma la zia sopportava con pazienza le scap- pate, forse alle volte troppo brusche, del nipote, com- piacendosi del suo ingegno e del suo spirito. Quando morì il duca, Camillo s'assunse l'incarico di assestare gli affari di lui tutt' altro che in buono stato, e vi riusci spiegando molta avvedutezza e molta prudenza. Come si vede da questi brevi cenni, le tre famiglie che vivevano insieme erano composte di persone che non avevano tutte sentimenti e idee perfettamente eguali, ma tutte erano fornite di ingegno svegliato, di abitudine e attitudine alla discussione delle questioni politiche e sociali e, per tradizione, esperte della vita pubblica, e queste qualità mantenevano e rafforzavano con estese conoscenze nel ceto degli statisti e degli uomini che anda- vano per la maggiore ; perciò essere nella loro intimità, sentirne i discorsi, potervi partecipare doveva neces- sariamente stimolare V ingegno pronto, vivace ed acuto di Camillo, e costituire per lui una preparazione non comune a quella carriera che doveva percorrere tanto gloriosamente. Ma, più anche che queste tre famiglie, una grande ginnastica intellettuale e un meraviglioso addestramento alla vita sociale e alla comprensione della complessità dei suoi problemi, tanto politici quanto economici, erano date dalle parentele ginevrine della famiglia Cavour. Ginevra era allora retta da un governo che ora si di- rebbe aristocratico, ma nel quale le libertà civili e po- litiche erano ammesse e garantite, ed era un luogo di Cavour. 2 l8 CAPITOLO I. rifugio di molti stranieri fuggenti la tirannia o l'oppres- sione ; per questo chi veniva dal Piemonte nella Roma calvinista si trovava in un ambiente perfettamente nuovo, e, per poco che avesse ripugnanza per 1' assolutismo, gli sembrava di respirare più a suo agio, di sentirsi ve- ramente libero. Per ciò che riguarda il Conte di Cavour, poi, si può dire che tutto ciò era accresciuto dal fatto che la famiglia De Sellon, quella della madre di lui, era posta in una posizione sociale eminente, e il suo capo, il conte Gian Giacomo, godeva in patria e fuori fama di grande filantropo, e certamente era caldo fau- tore di tutte le istituzioni e di tutti i progressi che fa- vorivano le classi inferiori, specialmente poi caldeg- giava la pace universale e l'abolizione della pena di morte; le sue idee egli diffondeva e propugnava con libri, opuscoli e in tutti i modi legali usati nei paesi liberi. Il conte De Sellon esponeva e discuteva le sue idee con Camillo, del quale aveva ben presto intuito la in- telligenza superiore, mentre la moglie sua, Cecilia di Bude, calvinista fervente, con questo s'intratteneva di argomenti religiosi, senza però mai riuscire a convin- cerlo della superiorità del protestantesimo sul cattoli- cismo. Ma la persona che a Ginevra era maggiormente pregiata da Camillo, e la cui famiglia questo riguardava come propria, era Augusto De La Rive. Certamente que- sto uomo illustre e buono ebbe una grandissima in- fluenza neUa formazione del carattere e della mente di Camillo, che, anche da ministro, non cessò mai di gio- varsi dei suoi consigli e di ricorrere a lui con piena confidenza. Il figlio di Augusto, William, anche fu ami- cissimo del Conte di Cavour, e di lui scrisse una delle migliori biografie che si conoscano. CAPITOLO I. 19 Come abbiamo accennato, per mezzo dei De Sellon e dei De La Rive, il Conte di Cavour entrò nella mi- gliore società indigena e straniera di Ginevra, e vi si fece molto apprezzare, nel mentre molto si giovò di quelle conversazioni piacevoli e veramicnte intellettuali. Ma, come ben nota Domenico Berti, se ritrasse molto giovamento da questi influssi e con essi temprò la mente e r animo, non si può dire che ne fosse veramente for- mato, perchè egli, come accade di tutti quelli che si chiamano genii, fu uomo di grande autonoìuia. Capitolo IL Z' infanrda del Conte di Cavour. — Suo carattere. — L'abate Frézet precettore di casa. — IL // Conte di Cavour allievo delV Accadeiìiia ìiiilitarc. — Sua no- mina e sua dimissione da paggio del Pri'ncipe di Ca- rignano. — III. È nominato ufficiale del Genio. — Suoi studii e sue idee politiche. — Dissensi colla famiglia. — Discussioni collo zio Conte De Sellon. — IV. È man- dato a Ventimiglia. — Come si determina in lui la ripugnaìiza per la vita militare. — Suo soggiorno a Exillcs e a Lesseillon. — Meditazioni e studii religiosi e politici. — N . È inandato a Genova. — Carattere di questa città. — La rivoluzione del 1830. — Opinioni che apertamente manifesta il Conte di Cavour. — È sospettato d^ essere rivohizionario . — Suo trasloco a Torino e poi a Bard. — Risoluzione di abbandonare V esercito. — VI. Lettera colla quale dimanda a suo padre il permesso di dimettersi da ufficiale. I. Il Conte di Cavour ebbe i primi rudimenti dell'istru- zione dalla nonna e dalla mamma, e imparava facilmente, ma confessava che lo studio gli riusciva noioso; aveva da bimbo carattere piuttosto difficile e riottoso ; sentiva molto, fin dai primi anni, la sua dignità, e s irritava fortemente quando gli veniva ordinata qualche cosa con modi bruschi e imperativi. CAPITOLO II. Nota Domenico Berti che egli, come accade spesso dei fanciulli intellettualmente precoci, s'accese d'un sentimento molto sim.ile all' amore, fin dall' età di sei anni, e di lui riporta una lettera à via chere Fanchoneite in data dell' it maggio 1816 che è molto graziosa, mas- sime considerando l'età di chi l'ha scritta. Grande amica di Camillo, ancora fanciullo, era anche la marchesa Giulia Di Barolo, ed egli ne era entusiasta ammiratore, benché troppo rilevante fosse la difterenza tra i due. Senza volere qui esagerare, si può dire che egli fu, sotto ogni rispetto, un fanciullo precoce, e infatti le sue lettere scritte nella prima età destano anche ora ammirazione come la destavano nei parenti tutti e nel maestro, l'abate Frézet, che se le passavano l'un l'altro e presagivano alti destini per lui. Questo abate Frézet, che fu il primo precettore di Camillo, pare fosse veramente una brava persona; prescindendo dagli elogi ufficiali che gli fu- rono tributati dopo niorto e dagli scritti suoi che sono quasi del tutto dimenticati, gli scolari che ebbe all'Ac- cademia militare, di cui era insegnante esterno, serba- rono tutti di lui grata memoria, e lo stesso Camillo lo ricorda spesso con affetto; segno questo che il buon abate non aveva nulla di comune con quei preti di casa che infestavano e ammorbavano le famiglie nobili del Piemonte, e di cui, per non risalire all'autobiografia di Vittorio Alfieri, ci lasciò una vivacissima descrizione Massimo D'Azeglio nei Miei ricordi. Né è da dire che il Cavour attenuasse il vero o mentisse, quando par- lava del suo precettore o lo ricordava nelle sue lettere; perché egli era molto franco, netto, preciso ed anche •piuttosto avventato nei giudizii, tanto da meritare, giu- stamente spesso, rimproveri dai parenti ; e questa fran- CAPITOLO II. chezza, che è per sé stessa una qualità e solo se esa- gerata diventa un difetto, fu attenuata in lui, ma non sempre abbastanza, neppure dall' età matura. IL Destinato, come cadetto, alla carriera militare, fu all'età di dieci anni messo nell'Accademia di Torino, e vi rimase quasi per forza, perchè la vita del collegio non era di suo gusto. Essa era troppo ristretta, troppo pedantesca la disciplina, troppo monotona, si direbbe quasi monacale, l'istruzione per piacere ad un fanciullo così sveglio d'ingegno, così vivace e pronto come lui. Era però uno dei primi negli studii e le ore d'ozio impiegava, oltre che neh' imparare a suonare il violino, nella lettura di quei libri di storia e di letteratura che poteva procacciarsi. Le sue lettere dei primi anni d'ac- cademia dimostrano come, sotto quella disciplina di studii, per quanto non certo sempre adeguati alla po- tenza della sua mente, questa si aprì e svolse in modo meraviglioso. Domenico Berti e gli altri biografi osser- vano che non appare dalle sue lettere che risentisse una grande ed immediata impressione dagli avvenimenti del 1S21 ; egli era troppo fanciullo quando accaddero per potersene occupare, ma non crediamo si possa esclu- dere in modo assoluto che egli ne fosse impressionato. Il generale Della Rocca, nelle sue memorie, narra che gli allievi dell'Accademia furono in subbuglio in quei giorni, e non è verosimile che il Cavour, per quanto fanciullo e da poco entrato nell'Istituto, non parteci- passe a quelle agitazioni, sia pure in misura molto ri- CAPITOLO II. 23 stretta. È certo poi che, negli anni successivi, di quegli avvenimenti molto si occupò, lesse il libro del Santa Rosa e ne fece degli estratti, e non crediamo di errare dicendo che forse da ciò fu determinato quel senso di sfiducia e di avversione che non riuscì mai a dissimu- lare contro Carlo Alberto. Quando questo principe rien- trò in Piemonte nel 1824, Camillo ne fu nominato paggio, forse perchè in tal modo Carlo Alberto volle dimostrare la sua gratitudine alle famiglie Cavour e D'Auzers che gli si erano dimostrate fedeli sempre, cosi nella pro- spera come neir avversa fortuna. Non pare che questa carica di corte, che giovava alla famiglia, perchè la retta dei paggi allievi dell'Accademia era pagata dalla Casa Reale e procurava qualche maggiore vantaggio a chi ne era investito, tornasse molto gradita a Camillo ; il fatto è che dopo poco più d'un anno ne fu esone- rato per una mancanza commessa contro il principe di Carignano. Molto si è parlato di questa mancanza, e si sono fatte molte supposizioni in proposito, noi cre- diamo si trattasse, più che d'una vera mancanza, di qualche atto d' impazienza o di qualche manifestata in- sofferenza per l'etichetta di corte, allora servile e pe- dantesca e perciò, come abbiamo già osservato, ripu- gnante ad un animo fiero e indipendente come quello di Camillo. Il 17 settembre del 1826 egli uscì dall'Acca- demia col grado di luogotenente del Genio, primo del suo corso, e procacciandosi le lodi del comandante per l'aiuto dato ai compagni nello studio della matematica. Nei sei anni di studio passati in quel glorioso isti- tuto, dal quale uscirono tanti illustri piemontesi, il Conte di Cavour divenne eccellente nelle matematiche e nelle scienze esatte, che erano bene insegnate, ma non al- 24 CAPITOLO li. trettanto eccellente divenne nelle discipline letterarie e storiche, che nell'Accademia, perchè considerate d'im- portanza secondaria, erano troppo trascurate. Egli com- pletò la sua istruzione dopo nella storia e nelle scienze sociali, ma non ebbe agio di farlo nella lingua e lette- ratura italiana, in parte per l'abitudine di parlare e scrivere in francese, in parte anche perchè non aveva attitudine agli studii letterarii, sebbene non gli man- cassero certamente le principali qualità dello scrittore e neppure un certo naturale buon gusto. Di questa sua deficienza egli poi molto si dolse più tardi, e cercò di correggerla, riuscendovi parzialmente, come attestano le sue lettere e più anche i suoi discorsi. III. Benché ancora molto giovane, quando Camillo uscì dall'Accademia ufficiale del Genio, era già maturo di senno e disposto, dall' istruzione ricevuta e dallo svi- luppo dell'ingegno, a considerare seriamente la vita e a guidarsi da sé in ogni contingenza. Il grado stesso che rivestiva nell' esercito gli prometteva e consentiva una certa libertà d'azione, della quale, egli, che mal volentieri e riluttante, si era piegato all' austera disci- plina dell'Accademia, intendeva usare largamente. Cadde malato poco dopo essere stato applicato alla direzione del Genio militare in Torino; ottenne, per rimettersi, un lungo congedo e, appena guarito, assunse l'ufficio assegnatogli. Il quale ben poco lo teneva occupato; sotto il regno di Carlo Felice, l'unico, si può dire, sovrano della sua stirpe che trascurasse l'esercito, gli CAPITOLO II. 25 uffici! militari erano sinecure, ed egli approfittò dei lun- ghi ozii per studiare la lingua inglese, esercitarsi nelle matematiche, approfondirsi nella storia e occuparsi di scienze sociali, specialmente di economia. Le sue idee già allora erano così disformi da quelle dominanti, da indurlo nella persuasione che mai avrebbe potuto di- ventare uomo di governo, come era la sua segreta e profonda e indomabile aspirazione. Perciò, mentre il suo genio lo traeva a quegli studii che preparano alla vita pubblica, egli si tuffava, è la parola vera, nelle ma- tematiche e nelle scienze esatte, le sole che gli pareva potessero dargli modo di impiegare utilmente le sue facoltà intellettuali. — « Se io mi trovassi in altre cir- costanze e se credessi che in un giorno anche lontano io potessi impiegarmi utilmente in ufficii governativi, senza tradire la mia maniera di pensare, abbandonerei lo studio arido e faticoso del calcolo per dedicarmi con ardore ad altro genere di lavoro. Io non posso né debbo però trastullarmi con illusioni, e quindi, se non voglio che diventino improduttive le facoltà che Dio mi ha dato, o che si affievoliscano, bisogna che mi volga tutto intiero alle scienze esatte, le quali almeno potrò colti- vare e applicare in tutti i tempi e in tutti i luoghi. » — Così egli scriveva in un momento di sconforto ancora, si può dire, adolescente, ma mentre le sue idee libe- rali si radicavano e si svolgevano arm.onicamente e splen- didamente in lui col passare degli anni, egli gradata- mente, seguendo il suo genio, abbandonava gii studii matematici e, pur colla convinzione che mai avrebbe potuto darsi alla vita pubblica, cominciò ad attendere con passione alle scienze sociali, preparandosi cosi pre- cisamente a quella carriera che credeva gli fosse per 26 CAPITOLO II. sempre preclusa. Ad aumentare in lui, e anche in una certa misura a indirizzare, la sua propensione per gli studii di importanza sociale in quei primi anni, molto con- tribuì lo zio conte G. G. De Sellon, cui abbiamo già accennato, che, con ardore di apostolo, studiava le prin- cipali questioni cosidette sociali e ne scriveva al ni- pote, del quale apprezzava l'ingegno acuto ed equili- brato, eccitandolo alla risposta e alla discussione. Il Conte de Sellon, calvinista, era un entusiasta, un teorico o un ideologo, il Conte di Cavour, fin d' allora, era un posi- tivista vero, uno statista, se non già formato, in for- mazione. Quindi i due non andavano sempre d'accordo, anche che convenissero nelle idee fondamentali, e le lettere del Cavour allo zio mostrano già quella logica potente, nutrita di buon senso, quell'equilibrato adat- tamento dei concetti dottrinali o morali o filosofici alle esigenze della vita sociale che resero irresistibile la sua eloquenza in Parlamento, e gli permisero di guidare con tanta fortuna il corso meraviglioso della rivoluzione ita- liana. Mentre lo zio spazia nei campi sterminati della morale e della filosofia e crede che le sue idee, perchè buone, debbano, per questo solo, essere da tutti accet- tate, Cavour, sia che si tratti della propaganda contro il giuoco o contro il duello, dell' abolizione della pena di morte o dell'instaurazione d'un sistema di pace per- petua per mezzo di arbitrati internazionali, pone la que- stione nei suoi termini precisi, la studia nei limiti suoi attuali, piega, tempera il principio alle esigenze della pratica ; senza per questo sformarlo o negarlo ; è in- somma l'uomo politico, idealista, ma non dottrinario, pratico, ma non empirico, lo statista vero e forte. CAriTOLO II. 27 IV. Neil' ottobre del 1828 fu inviato a compiere gli studii per le fortificazioni di Ventimiglia, insieme ad altri uf- ficiali del Genio, e dimorò per parecchio tempo in que- sta città, abitando una villa Biancheri, dove dopo qual- che anno doveva trovare ricovero Giovanni Ruffini, perseguitato e cercato a morte come cospiratore contro l'assolutismo, e fu Andrea Biancheri, l'ospite di Cavour, che salvò e conservò all'Italia il futuro autore del DoUor Antonio e del Lorenzo Benoni. In Ventimiglia comin- ciò Cavour a frequentare le principali famiglie del paese e a manifestare apertamente le sue idee contrarie al governo e anche alla prevalenza del clero. Proseguì i suoi studii specialmente di scienze sociali, e con essi sentì crescere in se la ripugnanza per la vita di soldato e di impiegato che conduceva, e anche crebbe in lui il disgusto per quelle convenzioni d' ossequio famigliare che allora erano in uso, e contrastavano apertamente col suo carattere franco, forse un po' rude, ma inter- namente affettuoso, sopratutto, in quella specie di crisi morale che attraversava, bisognoso di espansione e di confidenza. Ed è a Ventimiglia che mentre si matura il suo ingegno e la sua mente, nutrita di cultura solida e sana, si apre, si determina anche un profondo dis- senso tra lui e la sua famiglia circa alle opinioni poli- tiche. Gli si rimprovera di criticare aspramente il go- verno, più che non convenga ad un ufficiale dell' esercito, ad un nobile piemontese e al figlio del vicario di S. M. in Torino. Ed egli risponde : « Voi sapete la mia maniera di pensare. Essa si potrà modificare, ma mutare mai. » 28 CAPITOLO II. E aggiunge che dovrà abbandonare la carriera militare : « Capirete che è impossibile che io possa stare per molto tempo in una carica che mostra col fatto a quali tristi conseguenze si giunga quando non si pensa ad altro che ad essere graditi od accetti a chi comanda, e che perseveri in quella sotto un governo che giudica come titolo di sfavore e quasi di delitto il mio modo di pensare. » Quasi per dimenticare le amarezze, si im- merge sempre più negli studii, trascrive i brani degli autori che piìx lo colpiscono, mescolando gli storici, i politici, gli economisti e perfino i poeti, e quasi tutti questi brani, nota acutamente Domenico Berti, hanno un'unità d'indirizzo, mirano a provare 1' efficacia della libertà pohtica e civile, la necessità di curare il pro- gresso delle idee di giustizia e di introdurre riforme sociali e politiche, senza violenza ; insomma mentre la pressione dell'ambiente nel quale è costretto a vivere gli diventa sempre più insoffribile, egli (e qui si mo- stra la potenza della sua mente) invece di darsi, per reazione, in braccio alle idee radicali e aprioristiche, si mostra partigiano del metodo sperimentale e delle dot- trine larghe e conciliative. La violenza è solamente nel suo carattere, non nelle sue idee, e queste appaiono nette e precise, eguali in forza ed in efficacia alle ra- dicali, ma non nebulose e inattuabili come quelle. Nel febbraio del 1829 da Ventimiglia fu mandato ad Exilles, in mezzo alle Alpi, e vi si trovò isolato da ogni con- sorzio umano, unico suo conforto i giornali e i libri nuovi che gì' inviava il fratello. Dopo quattro mesi è mandato a Lesseillon, presso Modane, dove la malin- conia lo assale, ed egli cerca di cacciarla immergendosi sempre più nella lettura e nelle meditazioni, le quali si CAPITOLO II. 29 aggirano principalmente in quel tempo sopra i problemi religiosi ; forse anche per l' influenza dei parenti calvi- nisti, la sua fede si scuote, egli dubita di molte delle dottrine e delle cose che gli sono state insegnate come vere, e poiché già aveva avuto occasione di deplorare i tristi effetti della superstizione e della corruzione del clero, si convince sempre più che alle riforme politiche e sociali avrebbe dovuto aggiungersi una riforma mo- rale e religiosa. Però non diventa perciò né ateo, né miscredente nel senso comune della parola, e neppure aderisce alle dottrine protestanti ; egli ha un ingegno troppo positivo ed equilibrato per perdersi nella meta- fìsica, o materialista o religiosa, per non capire la forza del cattolicismo e anche l' importanza storica e morale sua. Da questi esilii nelle Alpi, dalle pene che gli ca- gionavano i suoi dissensi colla famiglia, da quel senso di disgusto che lo assaliva confrontando la condizione politica e sociale del Piemonte con quella degli altri paesi civili, sopratutto con quella che aveva nella mente dovesse essere, egli non trova conforto che nelle sue gite in Svizzera presso i suoi parenti : « Con i miei parenti di Svizzera posso mostrarmi quale sono.... Essi parteci- pano a tutti i miei sentimenti. » E si capisce il perché : sono uomini liberi, colti, intelligenti, che vivono in un paese libero, non soffrono alcun impaccio nella manife- stazione dei loro pensieri e sentimenti, quindi hanno l'abitudine e l'attitudine a usare della libertà e ne usano largamente. CAPITOLO II. V. Da Lesseillon è di nuovo chiamato a Torino, e nel marzo del 1830 è inviato a Genova presso la direzione del Genio militare ; in questa città contrasse amicizie nel più alto strato sociale e nelle persone più colte. Genova allora era dominata da uno spirito di ostilità contro il governo; i ricordi dell'autonomia repubbli- cana erano molto vivaci anche nelle classi sociali più naturalmente conservatrici e devote a chi regge lo Stato, qualunque esso sia, mentre nella borghesia e nelle classi popolari serpeggiavano le società segrete e comincia- vano a mostrarsi i primi segni di quella che diverrà la propaganda mazziniana. Per Cavour il soggiorno di Ge- nova è più piacevole che non quello di Torino, anche perchè, essendo questa una città commerciale, di pas- saggio di forestieri, di vita sociale intensa, stimolava il suo spirito osservatore dei fatti principalmente economici. A Genova apprende la notizia della rivoluzione di luglio in Francia e ne esulta come i liberali di tutta Italia ; mani- festa, secondo il suo solito, francamente il suo pensiero più di quello che convenisse a un ufficiale in attività di servizio, e quella franchezza ingenerò sospetti su di lui, dei quali ben presto si accorse. Alcuni si sono fatti il quesito se il Cavour a Genova fosse o no entrato in qualche società segreta o avesse preso parte a qualche conciliabolo rivoluzionario. Non crediamo, per quanto il suo modo di pensare lo accostasse certo più ai rivo- luzionarli che ai sostenitori dell' assolutismo ; egli era troppo leale per mescolarsi in trame contro il Re del cui esercito vestiva l'uniforme, e aveva troppo senno CAPITOLO II. 31 per credere all' utilità pratica delle rivoluzioni violente, massime in Italia e dopo che la monarchia orleanese aveva chiaramente dichiarata l' intenzione di rassicurare le grandi potenze europee, mostrandosi partigiana dello statu quo con un' interpretazione negativa e farisaica del principio di non intervento. Inoltre anche fin d'allora il Cavour era un liberale, nel più ampio senso della parola, amava e desiderava le battaglie parlamentari, la lotta politica nelle assemblee e nei giornali, e quindi naturalmente ripugnava da ogni avvolgimento o rag- giro segreto o di carattere settario. Ma se egli non ap- parteneva ad alcuna società segreta, la polizia lo rite- neva tale, o almeno un soggetto, come dicono, molto pericoloso, e glielo fece capire in modo così offensivo che fin d'allora prese la deliberazione di abbandonare, appena potesse, la vita militare per dedicarsi all'agri- coltura. Peggio fu quando venne richiamato da Genova a Torino, dove ebbe contro, non solo i sospetti della polizia ma le ire di tutti i retrivi, di tutti i partigiani dell'assolutismo, spaventati e irritati dal suo aperto e franco parlare. Forse le sue esplicite dichiarazioni di liberalismo avrebbero attirato su di lui qualche severa punizione dell'autorità militare, senza l'intervento del padre che lo fece destinare in servizio al forte di Bard. Avrebbe egli voluto dare le dimissioni, subito dopo la rivoluzione di luglio, ma lo trattenne il pensiero che l'abbandono dell'esercito, mentre vi era sospetto di in- vasione straniera e il re Carlo Felice era già attaccato dalla malattia che doveva condurlo a morte, potesse essere interpretato come atto poco conveniente da parte d'un nobile piemontese, la cui famiglia, per tradizione secolare, non aveva mai rifiutato l'aiuto della sua spada 32 CAPITOLO II. al Re, massime nei momenti di pericolo. Alla fine del 1831, cioè dopo circa otto mesi di residenza a Bard, dove occupò gli ozii della noiosa guarnigione studiando la lingua inglese e mantenendo un'attiva corrispondenza coir amico suo Brokedon, pittore inamorato delle Alpi, ottenuto il consenso del padre abbandonò il servizio. VI. La lettera colla quale Cavour chiede al padre il per- messo di lasciare il servizio militare, scritta coli' appro- vazione della madre, è molto eloquente e precisa nei suoi termini. Egli rammenta che fin da quando lasciò Torino per andare al forte di Bard, suo padre convenne con lui che non era possibile continuasse più a lungo nel servizio, e solo il padre si riserbò di pensare ai modi coi quali potesse mettere in atto la risoluzione di abbando- nare l'esercito, senza mancare né al dovere, né all'onore. Tale abbandono non era possibile nel momento in cui Carlo Alberto, alla cui persona era stato addetto, sa- liva al trono e in cui una guerra straniera minacciava la patria, perchè contro di lui sarebbero state scagliate accuse d'ingratitudine e anche piìi gravi imputazioni; « ora invece le cose sono cambiate ed è giunto il mo- mento di porre fine ad uno stato di cose incompatibile col rispetto che debbo al mio nome, e col sentimento d' onore che è primo movente del soldato e del gentil- uomo. » D' altra parte suo padre sa che da molti anni aveva espresso il desiderio di lasciare la vita militare, non confacente né ai suoi studii, né alle sue inclina- zioni, e neppure alla debolezza della sua vista. Per que- sto da lungo tempo aveva dedicato le sue ore d'ozio a CAPITOLO II. 33 Studiare molti rami della scienza amministrativa, confi- dando così di rendersi atto un giorno ad occupare un posto più confacente alle sue cognizioni. Mentre pro- seguiva tranquillamente la sua carriera, furono lanciati contro di lui spiacevoli ed errati giudizii che, fondan- dosi su apparenze speciose, vennero facilmente accolti. E questo perchè egli aveva creduto di non dover mai celare le sue opinioni, non essendo in esse nulla che un uomo d' onore non potesse palesare. — « Per effetto delle medesime, talune azioni innocenti e talune parole imprudenti vennero ad apparire colpevoli, tanto che r anno scorso, av^endo io vivamente disapprovato in Ge- nova i famosi decreti di Carlo X, la polizia mi segnalò come pei-sona sospetta e pericolosa, e non è da ascri- versi a colpa del suo capo, il colonnello Cassio, se non fui fin d' allora mandato in un forte come carbonaro. » A Torino fu peggio, fu additato come clubista e anar- chico, come persona da evitarsi, capace del più nero e del più turpe delitto, il tradimento. « Dopo ciò po- trei io continuare a servire? Potrei io tornare onore- volmente tra i miei compagni? No, quando si ha un nome come il mio, quando i sentimenti di nobiltà e di delicatezza fervono nell'animo e sono eredità preziosa di una lunga serie di avi, non si transige con 1' onore, non si continua a vestire una divisa della quale per poco siete reputato indegno. » È con grande ramma- rico che si distacca dai suoi capi e dai suoi compagni, dai quali ha avuto tante prove di stima e amicizia. La risoluzione presa di abbandonare il servizio non è im- provvisa : egli ha lungamente ponderato i sacrificii che gì' impone, e sa che, attuandola, svanisce la sua più cara speranza, quella di consacrare utilmente al servizio Cavour. 3 34 CAPITOLO II. del Re e del paese le deboli forze che il Cielo gli ha largite. « Mi è però di conforto il pensiero che tor- nando alla vita privata persevererò con uguale ardore negli studii intrapresi. Benché lontano dagli affari mi sforzerò tuttavia di pormi in grado di servire la patria procurando, nella cerchia della vita privata, di mettere a profitto le cognizioni che avrò acquistato. Non voglio nemmeno rinunciare alla speranza di una occasione pro- pizia la quale, dileguando i sospetti, mi consenta un giorno di applicare le miecognizioni all' accennato scopo in modo più diretto e più efficace. » A questa lettera seguì 1' assenso del padre per la domanda di dimissione dal servizio militare ; la domanda fu accolta e le dimissioni furono accettate, ed essendo stato autorizzato, nonostante questo, a vestire l'uniforme, con grande consolazione sua e della sua famiglia, ap- parve a tutti che egli lasciava l'esercito volontariamente e senza demerito alcuno verso l'onore militare. 35 Capitolo III. // Conte di Cavour alV opposizione cofitro il governo assoluto. — Carattere legale di questa opposizione. — IL La rivoluzione di luglio in Francia. — Suo ca- rattere e sua importanza in Europa e specialmente in Italia. — La formazione della parte moderata. — III. // Conte di Cavour }\\.sX.q milieu. — Sue differenze dai dottrinarii francesi. — Carattere speciale della sua natura e dei suoi concetti politici. — Sua cono- scenza profonda della costituzione e della vita in- glese. — IV. Vita di lui dopo lasciato ^esercito. — Poca parte che vi ha l'amore. — Perchè si dedica all' agricoltura. — V. Condizioni dell'agricoltura in Piemonte quando Cavour vi si dedicò. — Parallelo colla Tosca7ia. — Perchè gli uoìnini politici si danno prevalentemente air agricoltura che ad altra occupa- zione. — VI. Cavour agricoltore. — Caratteristiche della stia attività. — Fine che si propone. — Qualità che dimostra. I. Nonostante che nell'offerta e nell'accettazione delle dimissioni fossero, come si dice, salvate completamente le forme, era noto che il Conte di_Cavour aveva abban- donato r esercito perchè gli era divenuto impossibile rimanervi; quindi fu sempre, nonostante le benemerenze del padre e dei parenti, guardato con sospetto alla Corte, dove, del resto, non comparve mai o quasi mai, e spe- 36 CAPITOLO IH. cialmente dal Re, che non amava gli spiriti fieri e i ca- ratteri che non si piegavano, almeno in apparenza, al suo assolutismo. Mentre molti democratici nemici, a parole, delle Corti e spregiatori dei Re, allora avevano, come poi si vide, anime di cortigiani, questo nobile piemontese, che non è rivoluzionario, ne repubblicano, ha una fibra forte e sdegnosa, che non sì curva né al Re, né ad altra autorità, se la sua ragione non lo per- suade e convince. Ma accade sempre così; molti che sì chiamano e proclamano democratici hanno imparato ad essere cortigiani piaggiando, adulando le plebi o ì gruppi popolari per ottenerne i favori; non cambiano, quindi, mestiere quando piaggiano e adulano il Re, e vi riescono meglio perchè hanno abdicato alla loro di- gnità personale e alla loro libertà di giudizio, curvando la schiena e la mente dinanzi a quel dispotico e capric- cioso padrone che è la massa popolare. Cavour è, d'ora in poi, all'opposizione contro il Governo e contro il Re, ma la sua opposizione non è né settaria, né rivoluzionaria, è legale; non può espli- carsi che nei discorsi e nelle lettere, ma si rafforza nello studio, nella meditazione, nell'osservazione dei paesi stranieri più progrediti, e, quando l'assolutismo sarà vinto, quella che fu opposizione sarà già preparata a divenire azione positiva di riforma e di governo. L'op- posizione legale, sotto i governi assoluti, è nello stesso tempo pii!i facile e più difficile che non sotto i governi liberi; più facile perché non implica nessuna responsa- bilità, neppure ipotetica, di potere, e lascia quindi ampia libertà di giudizio prescindendo da tutte le contingenze di fatto e da ogni azione positiva; più difficile perchè appunto r inazione pratica a cui costringe, spinge chi la CAPITOLO HI. 37 professa fuori dei limiti del possibile, nei campi del- l' utopia o del dottrinarismo, oppure, per mirare a con- cretarsi nei fatti, trascende i limiti legali che sono molto ristretti, diventando, quasi inconsciamente, rivoluziona- ria. Cavour seppe rimanere nei limiti ; il governo asso- luto sapeva di non averlo tra i suoi partigiani, era con- vinto anzi che fosse tra i suoi nemici, ma non potè mai colpirlo, perchè non ebbe mai un pretesto per farlo, né, trattandosi di un patrizio appartenente ad una grande fa- miglia, mai si arrischiò ad inventar quel pretesto. Questa sua rigida legalità non fu debolezza, perchè mai si curvò neppure a quegli atti che possono sempre giustificarsi e dai quali non si astenevano nemmeno coloro che nel 1S48 e dopo si atteggiarono a democratici, attaccando Cavour come aristocratico e cortigiano. Egli, ad esempio, non fu mai imprigionato come il Brofferio, ma neppure ebbe mai con Carlo Alberto, re assoluto, quei rapporti che ebbe e confessò, perchè del resto non c'era nulla di male, il Brofferio. II. Quando il Cavour lasciò l'esercito, come abbiamo visto, era già accaduta la rivoluzione di luglio in Francia ; al ramo primogenito dei Borboni sul trono francese s' era sostituito il ramo cadetto di Orléans, alla bandiera bianca la tricolore, e in quel paese si iniziava quel grande espe- rimento di acclimatazione, per così dire, delle istituzioni inglesi nel continente, che non poteva riuscire in Fran- cia, ma era destinato ad avere abbastanza prospera for- tuna nella rimanente Europa. Anche la monarchia le- gittima in Francia aveva voluto attuare le istituzioni 38 CAPITOLO ITI. rappresentative, o, per meglio dire, vi fu costretta al momento della sua restaurazione, ma l'esperimento non ebbe buon risultato perchè in esso fu sempre un equi- voco fondamentale. Da un lato si riteneva che si trat- tasse di conciliare la monarchia legittima tradizionale con istituti moderatamente liberali, riconducendo la Francia, nei limiti del possibile, alle istituzioni rappresentative medioevali, eccezion fatta per la finanza, più consultive che deliberative; dall'altro si riteneva che si trattasse di conciliare l'eguaglianza civile e la sovranità popolare, conquista della rivoluzione, colla libertà individuale e politica, adottando quella forma di governo che era tra- dizionale in Francia e alla quale si era sempre stretta- mente tenuta unita l'Inghilterra. Questo volevano gii elementi moderati del popolo francese, che gli altri, an- cora infiammati dei ricordi della rivoluzione e dell' im- pero, miravano ad altro scopo più grande, cioè a distruggere per sempre la monarchia e il sistema rap- presentativo all' inglese, ripristinando la repubblica o gli ordinamenti imperiali plebiscitarii. Questi due partiti che comprendevano gli uomini più intelligenti e colti e in- sieme quelli più audaci ed avventati della Francia, ed avevano una larga influenza nelle classi inferiori, appro- fittando degli errori di Carlo X, fecero la rivoluzione di luglio, la quale fu poi sfruttata a suo profitto esclusivo dal primo partito, che riuscì ad imporsi instaui-ando la monarchia orleanese, e proponendosi di assicurare alla Francia un sistema rappresentativo veramente all'inglese, in modo da avverare il detto attribuito al nuovo re Luigi Filippo: la charte sera désormais une ve'rite'. Pubblicando gli scritti del Conte di Cavour e in altri nostri lavori storici, abbiamo fatta osservare la grande CAPITOLO ni. 39 influenza esercitata in Europa dalla rivoluzione di luglio e dall' instaurarsi della monarchia orleanese. « Le bar- ricate di luglio non solo distrussero il trono del re le- gittimo in Francia, ma circoscrivendo il movimento alla Francia stessa, operarono nell'ambito d'una nazione, senza sovvertire 1' ordine sociale, la conciliazione tra i principii rivoluzionarli e le esigenze conservatrici. Che più? ^Mentre prima, forma politica propria dei tempi nuovi pareva essere la repubblica o un impero cesareo, apparve che i tempi nuovi potevano conciliarsi anche colla monarchia storica, purché questa si acconciasse a dividere il potere colle rappresentanze popolari. Fin la rimessa politica estera di Luigi Filippo, fin la crudezza delle ripulse ai polacchi e agl'italiani giovarono ad ot- tenere questo scopo importantissimo. Il desiderio dei migliori uomini del secolo XVIII, l' ideale dei veri li- berali che attraversarono, senza piegarsi ad altre esi- genze, le bufere della rivoluzione, dell'impero, della restaurazione, parve realizzarsi. Essi volevano che le istituzioni inglesi attecchissero sul continente ; il detto di Luigi Filippo li persuase che la Francia avrebbe d'ora in poi fruito di quelle libertà che avevano fatta grande e potente l'Inghilterra. Ora gli uomini naturalmente chia- mati a reggere il governo sorto da una rivoluzione così moderata come quella del 1S30, dovevano essere uo- mini e statisti moderati nelle idee e nei sentimenti, aborrenti dai disordini, amanti della legalità, illuminati, tolleranti, conciliativi ; uomini siffatti si trovavano in gran numero in ogni paese d'Europa, non meno, forse più che in Francia; e, com'è naturale, erano fuori del movimento politico, non partigiani e sospetti al di- spotismo, non amanti e timorosi delle rivoluzioni, non 40 CAPITOLO III. potevano essere accetti a nessuna delle due parti che dal 1815 al 1830 contendevano in Europa. La rivolu- zione del 1830 li chiamò bruscamente e repentinamente sulla scena politica, mostrando loro che era possibile abbattere i governi assoluti o tendenti all' assolutismo, senza per questo ripiombare la società nell'abisso da cui era appena uscita ; che era possibile fondare governi li- beri, senza che la libertà degenerasse in licenza, che si potevano padroneggiare e regolare le rivoluzioni, re- stringendone gli effetti immediati nei confini di ciascuno Stato, e facendo uscire le istituzioni rappresentative da quei commovimenti dai quali prima non era uscita che l'anarchia o la dittatura Il significato della rivolu- zione del 1830 era appunto quello di formare una classe, un ceto politico degli uomini temperati, chiamandoli a unirsi insieme da tutte le classi e da tutti i ceti so- ciali. Come è naturale, della rivoluzione francese del 1830 e dei suoi effetti immediati, risentì, più che altri po- poli, una grande influenza il popolo italiano, il quale si trovava a dover conquistare a un tempo la libertà e l'indipendenza; la libertà come esigeva la civiltà dei tempi, e la sua propria, l'indipendenza, come voleva il ridestato sentimento nazionale. » III. Il Conte di Cavour, per la cultura che s' era procu- rato, per la tempra dell'ingegno, per l'equilibrio del carattere e le sue attitudini innate di statista, era na- turalmente attratto verso questi uomini e questa scuola politica, e, come doveva capitanare le schiere di quelli che, seguendola, fecero la rivoluzione unitaria del 1S59, CAPITOLO III. 41 quando essa trionfò nel 1831 in Francia, partecipò, con tutta la forza dell'animo, a quel trionfo, si persuase del fondamento di realtà e verità che comprendeva e gli parve destinata a rigenerare, non solo l'Italia, ma anche l'Europa, fiaccando da per tutto l'assolutismo, impe- dendo 1' avvenimento della rivoluzione violenta ed anar- chica. Per questo egli, appena libero dalle pastoie del servizio militare, vi aderì pienamente, e mentre quando era ufficiale aveva qualche propensione, solo momen- tanea ma forte, per i partiti estremi, dopo il 1831 di- chiarò di appartenere ai partigiani del jiiste imlien, e quindi anche si rafforzò e determinò in lui maggior- mente quell'attitudine di opposizione legale che era nel suo carattere e nel suo animo. Qualcuno, da ciò che abbiamo fin qui detto, si sentirà autorizzato ad ascri- vere il Conte di Cavour alla scuola dei dottrinarli, che così appunto vennero, allora e poi, denominati i suoi seguaci in Francia e fuori. Ora se è vero che egli vi appartenne perchè in essa formò principalmente la sua cultura politica e da essa derivò parecchi aspetti della sua azione futura di scrittore e di statista, è anche vero che per più rispetti se ne discostò, rifiutando pareccliie volte, e pili spesso allargando, i suoi principii e le sue caratteristiche più salienti. La scuola dottrinaria, per amore di logica formale e sopratutto per una parziale, se non inesatta, comprensione della costituzione inglese, divenne nelle sue conseguenze essenzialmente borghese, cioè mirò a consolidare il po- tere politico nella classe media, considerando questa come composta del ceto dei possidenti, dei commercianti, degl'industriali e dei finanzieri, non come il punto cen- trale nel quale si trovavano e mescolavano insieme per 41 CAPITOLO HI. l'azione politica gli elementi più atti delle classi alte e delle classi inferiori, insieme a quelli che la borghesia naturalmente fornisce. Perciò i dottrinarli non videro e non sentirono che il potere politico concentrato in una classe sociale essenzialmente produttrice di ricchezza, suscitava l' avversione verso la forma dello Stato e del Governo tanto delle classi alte per nascita o per intelli- genza e cultura, quanto delle classi inferiori, per le quali l'esclusione assoluta dal potere politico si tramuta in servitù ed oppressione economica, m.entre poi la classe borghese, così predominante, fatalmente doveva corrom- persi come tutti gli enti o le persone investite d'un potere senza limite, e perciò doveva indebolirsi e di- ventare inetta a sostenere quel governo che su lei esclu- sivamente s'appoggiava. Il Conte di Cavour non cadde in questo errore : egli vide e sentì l'avvicinarsi inevita- bile della democrazia, e non aspettò, per accorgersene, d'essere al governo, ma fin dai primi anni se ne mostrò compreso, studiandone gli effetti così nel campo poli- tico come nel cam.po economico. II zwojuste milieu quindi non fu mai come quello dei dottrinarli francesi, immo- bilmente fissato sulla classe borghese, sebbene egli ca- pisse che sarebbe stato impossibile, o almeno molto imprudente, arrivare d'un balzo, e senza la necessaria preparazione, alle conseguenze ultime del suffragio uni- versale. Per lui, che aveva rifiutati tutti i pregiudizii della sua classe ancora privilegiata e aspirava unicamente ad essere cittadino libero d'un paese libero, era incom- prensibile qualunque privilegio, o politico o economico, che non si fondasse sulla capacità, sul merito e sul va- lore individuale, cioè che non cessasse di essere un pri- CAPITOLO III. 43 vilegio per diventare una distinzione fondata sulla realtà della vita. Per lui veramente il fondamento della sovra- nità dottrinaria, cristallizzato in Francia nella classe bor- ghese, doveva avverarsi in modo completo, perchè, per lui, tutti gli elementi migliori della società, qualunque fosse la loro origine, dovevano poter concorrere al reg- gimento dello Stato, comporre il ceto politico desti- nato al go\-erno. Inoltre egli, benché nato e cresciuto in mi paese dove l'apparato industriale era ancora ru- dimentale, sentì da prima, poi vide e imparò, che, al di sotto delle questioni politiche di libertà e d'indipen- denza, serpeggiavano, e sarebbero divenute prevalenti in un tempo più o meno lungo, le questioni sociali, e che lo Stato avrebbe dovuto impiegare gran parte della sua attività nel risolverle in modo equo, conciliando gli op- posti interessi, se non voleva correre il rischio di andare infranto sotto i colpi d' una nuova e più terribile tor- menta rivoluzionaria. A integrare, se non a formare, que- sta sua comprensione delle questioni sociali, contribuì molto certamente lo studio dell'economia politica, che egli fece con passione; ma questo, di per sé, non sarebbe bastato, perchè allora era nel suo fiore la cosi detta scuola ottimista, che dei problemi sociali, specialmente operai, poco si curava; piuttosto si può dire che le sue attitudini a vedere ogni questione nel suo aspetto posi- tivo, gli permise di passare dalle astrazioni scientifi- che nella pratica, studiando la legge economica nel suo svolgimento, nel suo atteggiarsi in mezzo al popolo, e nei rapporti colle varie classi sociali. Inoltre egli passò ben presto, dallo studio e dalla contemplazione della società, dello Stato e delle istituzioni di Francia, allo studio e alia contemplazione dell' Inghilterra, di cui 44 CAPITOLO ni. non solo imparò a conoscere la lingua e la letteratura scientifica, ma anche la storia intima e la vita nelle sue svariate e complesse manifestazioni. In Inghilterra la questione sociale, nei suoi varii atteggiamenti, allora si mostrava ; lo sviluppo industriale aveva suscitati eser- citi di operai, aveva invelenita la piaga del pauperismo; le dottrine socialiste, o almeno quelle contrarie all' in- dividualismo economico, si diffondevano; i problemi po- litici s'intrecciavano cogli economici e i sociali, e la stessa costituzione dell'isola britannica era in via di trasforma- zione. Si può dire che l'esatta cognizione dell'Inghil- terra, prima acquistata sui libri, poi di persona nei fre- quenti viaggi che fece in quel paese, molto lo aiutò a non incorrere negli eccessi della scuola dottrinaria, ad allargare il suo orizzonte intellettuale e politico, a farlo conscio e consapevole della complessa struttura di ogni questione che si agitasse nel mondo nel quale viveva. Se non fosse stato italiano, certamente, il Conte di Ca- vour avrebbe voluto esser inglese ; perchè in quel paese, dove r audacia riformatrice si alleava costantemente ad un senso squisito di misura, dove l'ordinamento e la compagine sociale e statuale erano, nello stesso tempo, così elastici da comprendere e ammettere qualunque cambiamento razionale, ma anche così forti da respin- gere qualunque attacco rivoluzionario, egli vedeva con- cretato ogni suo ideale. Ed anche sentiva che se egli fosse nato inglese, avrebbe potuto svolgere utilmente nel campo politico quelle attività e quelle attitudini che doveva lasciare inoperose in patria. L'amore entusia- stico per l'Inghilterra, formato e sorto fin dai primi anni in cui cominciò a darsi agli studii politici e sociali, crebbe poi sempre in lui, tanto che si può dire che egli era l' ita- CAPITOLO III. 45 liano che più conosceva la vita inglese, che più se l'era assimilata, ed era tanto pronunziata questa sua anglo- filia, che gli avversarli, e anche un po' gli amici, pre- sero a designarlo col nome di Blylord Camillo. La ve- rità è che, pur essendo entusiasta ammiratore ed avendo molto imparato dall'Inghilterra, egli rimase sempre pro- fondamente italiano ; anzi si può dire che la sua italia- nità, nell'ammirazione inglese, si affinò e perfezionò, forse perchè tra la natura anglo-sassone e l'italiana vi sono più rassomiglianze etniche e morali di quelle che un osservatore superficiale può trovare, quando l'italiana sia genuina, non imbastardita, cioè, ed inquinata da ele- menti stranieri, o da corruzione di governi tirannici o insipienti. IV. La vita del Conte di Cavour, dopo lasciato l'esercito, è tutta occupata nello studio, nei viaggi che erano, come egli li compiva, una forma di studio, nelle conversa- zioni e nella corrispondenza, le quali anche gli servivano per allargare e determinare le sue idee, e infine, nella cura della campagna, cioè nell' applicarsi all' agricoltura. Poca parte nella sua vita è dedicata all'amore; ebbe una forte passione per una dama che i suoi biografi desi- gnano come Vinconmie e della quale non è necessario fare qui il nome, cosa del resto poco importante, per- chè questa passione, per quanto violenta e anche no- bile, non lasciò traccie, quando fu passata, nell'animo di Camillo, che sentiva fortemente e quindi anche for- temente amò questa volta, ma non aveva un tempe- ramento sentimentale e romantico che lo traesse per 46 CAPITOLO III. molto tempo fuori dalla via retta che s' era segnata. Oltre a questa passione, non sappiamo che altre egli ne abbia provate egualmente intense, riteniamo di no; piut- tosto crediamo che abbia avuto, come tutti gli uomini in alta posizione sociale e dotati di facoltà intellettuali e morali attraenti, parecchie di quelle che nel linguag- gio comune si chiamano avventure, alcune più serie e durature, altre meno; ma nessuna che si possa ritenere abbia esercitato influenza sulla sua attività, indirizzandola in un senso piuttosto che in un altro. La donna nella vita del Conte di Cavour non ha quasi alcuna parte, se si prescinde, come è naturale, dagli affetti di famiglia che furono in lui fortissimi. Ebbe amicizie femminili sin- cere e affettuose, come quella della Contessa di Circourt, ma non ci pare che andasse mai al di là dei confini del- l'amicizia più intima, senza cioè che vi fosse indizio di passione vera e propria. All'agricoltura invece si dedica con fervore intenso, e amò la vita dei campi, la coltivazione razionale della terra, quasi come la politica. Anche quando era mini- stro, capo del governo, anche nei momenti di più in- tensa azione, non dimenticava di essere agricoltore, e alla terra ritornava, per trarne, quasi si direbbe, forza e vigore, nei casi in cui la politica pareva tradirlo. Il compianto Luigi Chiala, il dotto editore ed illustratore dell' epistolario cavouriano, stava preparando, quando fu sorpreso dalla morte, un volume su Cavour agricol- tore, che sarebbe certamente riuscito molto interessante, perchè avrebbe illustrato un aspetto della vita del grande ministro che gli altri biografi hanno dovuto trascurare e del quale noi stessi non possiamo ora occuparci di proposito, come pur sarebbe utile fare. A noi pare che, CAPITOLO III. 47 a darsi all'agricoltura, Cavour fosse mosso precipuamente dal bisogno di azione che sentiva in sé e che non po- teva in altro modo soddisfare. Alla sua attività non ba- stavano lo studio, i viaggi, le conversazioni dei salotti anche parigini; egli, appunto perchè statista nell'animo, aveva bisogno di concretarla in qualche cosa di visibile e di tangibile, per così dire, e, poiché la via che gli si apriva davanti più facile per riuscire a ciò era l'agri- coltura, a questa si diede, anche perchè poteva lavorare, diremo così, sul suo, portando la piena responsabilità delle conseguenze. Quando il Conte di Cavour si diede all'agricoltura, questa in Piemonte non aveva ancora fruito di quelle applicazioni scientifiche che allora si erano già difluse nella Svizzera e in Francia, ma più ancora in Inghil- terra, e in Italia erano solo parzialmente conosciute in Toscana. L' aristocrazia, padrona della terra in gran parte, la sfruttava patriarcalmente, tenendo in una con- dizione soggetta, ma buona, i contadini ; avendo pochi bisogni, non sentiva 1' urgenza di far rendere alla terra più di quanto naturalmente rendesse ; quindi il progresso agricolo era, se non sconosciuto, almeno molto arre- trato ; le novità guardate con diffidenza e rifiutate, quasi tutte, come arrischiate o pericolose. Non si aveva idea della funzione sociale della proprietà territoriale, solo se ne conosceva e ammetteva la funzione politica con- servatrice; i nobili e i contadini erano i più fidi so- stegni del trono e dell'altare, e tanto meglio adempie- 48 CAPITOLO III. vano questo ufficio quanto più erano alieni dalle novità e seguivano le norme della sapienza antica. La forma mo- narchica ed aristocratica dello Stato piemontese, con- giunta al suo carattere militare, avevano fino allora impe- dito che in Piemonte si formasse quello spirito, diremo così, georgofilo che era sorto e si era radicato nella Toscana per le abitudini popolane di tutte le classi, le non interrotte tradizioni di pace e anche le diverse condizioni di fertilità del suolo. Mentre in Toscana la principale occupazione dei possessori del suolo era ne- cessariamente quella di coltivarlo per renderlo il più possibile fruttifero, in Piemonte i possessori del suolo, continuamente affaccendati in guerre, in missioni diplo- matiche o amministrative, si contentavano che il suolo desse loro tanto da vivere, e fornisse il mezzo per go- dere nella stagione propizia un riposo meritato. Inoltre, anche questo bisogna dire, ad attuare un progresso agri- colo razionale nel Piemonte ostava la mancanza di ca- pitale circolante da impiegare nella terra, e questo dipendeva, oltre che dalla relativa povertà del paese, anche dalla sua arretrata legislazione economica. Quindi mentre, per non parlare che dell'Italia, in To- scana l'Accademia dei Georgofili fioriva fin dalla fine del secolo XVIII e in essa si trattavano le questioni econo- miche, giuridiche e anche scientifiche attinenti all' agri- coltura, e più tardi Bettino Ricasoli e Cosimo Ridolfi, per non nominare che i maggiori, proprio quando Cavour cominciò a darsi all' agricoltura, avevano già condotto molto avanti il progresso agricolo del loro paese, in Piemonte Cavour era quasi solo in quest'opera e, per riuscirvi, dovette vincere le ostilità e le diffidenze create- gli dall' ambiente ignorante e refrattario ad ogni novità. CAPITOLO III. 49 Sarebbe interessante studiare le ragioni psicologiche per le quali gli uomini d'azione sono generalmente tratti all'agricoltura. Qualche cosa a questo proposito abbiamo accennato, ma non basta. L' agricoltura, quando sia unita al possesso della terra, pare a noi sia l'occupazione nella quale l'attività individuale può mostrarsi piìi intensa; l'uomo, per così dire, in essa crea, più che nell'indu- stria o nell'esercizio delle professioni liberali, e, per creare, lotta colle insidie della natura, coli' ignavia degli uomini, e per lottare efficacemente ha bisogno di im- piegare tutte le sue facoltà fisiche e morali. È una gin- nastica, uno sforzo continuo che deve fare, e quando ha vinto sente in sé la gioia della vittoria che è dovuta principalmente a sé stesso. Nessuna attività umana ras- somiglia alla politica più dell' agricoltura, come nessuna, tra quelle che hanno uno scopo individuale, ha un rap- porto cosi immediato colla società e lo Stato, ha una ripercussione cosi diretta e tangibile sulla condizione di tutto il popolo. Il proprietario del suolo che lo cura e nel renderlo produttivo impiega tutto il suo ingegno, sente di non fare solo il proprio interesse, ma quello di tutti; quindi chi ha attitudine alla vita pubblica, ed è impedito dal dedicarvisi, trova nell'agricoltura l'im- piego più naturale e confacente della sua attività. VI. Il Conte di Cavour aveva già da tempo (e Io ab- biamo accennato sopra) maturato il pensiero di darsi all'agricoltura, ma cominciò a dedicarvisi di proposito alla fine del 1835 quando assunse la direzione della te- nuta dì Leri, concessagli dal padre, per intercessione Cavour. 4 50 CAPITOLO III. del fratello e della madre. Egli aveva già la prepara- zione teorica per ciò, aveva l'attitudine e la buona vo- lontà, quindi fu contentissimo quando potè incarnare quello che era in quel momento il suo ideale. Il patri- monio, prevalentemente in terre, della famiglia non era in buone condizioni, perchè il marchese Michele, già avanti negli anni e tutto assorto nella carica di vicario, lo trascu- rava, il fratello non aveva attitudini ad amministrarlo; quindi era necessario che qualcuno se ne occupasse e il più indicato per ciò era certamente Camillo. Ed egli ne fu contentissimo, aveva un campo d'azione dove im- piegare la sua attività; e ne scriveva esultante agli amici : « Voglio che sappiate subito che io sono divenuto ve- ramente agricoltore. E ora il mio stato, » così scriveva a Naville di Chàteauvieux e ad Augusto De la Rive: « Ho sulle braccia vaste terre da coltivare, da dirigere.... Ci metto tutto il mio tempo. » E divenne un ottimo agricoltore; viveva la maggior parte del suo tempo in campagna, alzandosi presto al mattino, sorvegliando le coltivazioni e i contadini, iniziando nuovi sistemi di sfruttamento della terra, prendendo accordi cogli altri possidenti per imprese comuni, insomma facendo il gen- tiluomo campagnuolo in tutta la migliore significazione della parola. Egli intendeva il suo compito in un senso molto largo, voleva, e in parte riuscì, che l'agricoltore, fosse, nella misura del possibile, anche industriale senza perdere le sue caratteristiche ; le cognizioni economiche che possedeva lo aiutarono molto in questo, e molto lo aiutarono i viaggi che ogni tanto faceva all'estero, nei quali non solo studiava le questioni sociali e politiche, ma anche visitava tenute, fattorie, poderi modello, par- lava coi principali agricoltori, discuteva con essi e, con CAPITOLO III, 51 raro buon senso giudicava le loro dottrine e la loro pratica, proporzionandole alle condizioni e alla poten- zialità del suo paese. Non aveva alcuno dei pregiudizii degli agricoltori, non fu mai, ad esempio, protezionista perchè capiva che l'agricoltura deve trovare in sé stessa le energie necessarie alla sua prosperità, non cercarle in artificiose protezioni legislative. In questa sua atti- vità era anche spronato dal suo vivissimo desiderio di costituirsi una posizione economica indipendente, per potere nell'avvenire fare a meno degli aiuti della fa- miglia. Per questo fece anche qualche speculazione sba- gliata, che seppe riparare raddoppiando di lavoro e impiegando tutte le risorse del suo ingegno duttile ed acuto. Questa sua attività acuì in lui il senso squisito, che aveva già da natura, delle cose possibili, ne temprò la fantasia e per di più lo abilitò a conoscere profonda- mente le condizioni reali del Piemonte, ad apprezzarne al suo giusto valore la potenzialità economica, cosa questa che gli servì quando fu al governo nella con- clusione dei trattati di commercio e nella riforma del sistema tributario, e gli permise di osare quella grande politica dalla quale fu formata l'Italia. Quando si esa- mina l'attività impiegata da Cavour nell'agricoltura si vedono in lui già quelle qualità che poi si svolgeranno meravigliosamente allorché sarà al governo: l'audacia nutrita di buon senso e di accortezza, la rapidità di per- cezione e di comprensione, l'arte finissima di saper co- gliere il momento opportuno, la conoscenza degli uomini e delle cose, l'ingegno vasto, potente e sapientemente equilibrato. 52 Capitolo IV. I. Studii sociali e politici del Conte di Cavotir. — Sua attività intellettuale spcciabiicnte nei viaggi alV este- ro. — II. Cavour e la questione sociale. — Studii sul pauperismo e la carità legale. — III. Cavour come scrittore. — Sue qualità prÌ7icipali. — Lo studio sul- V Irlanda. — IV. Lo studio sulla legislazione inglese intorno al commercio dei cereali. — Cavour e Peci. — V. Lo studio sulP influenza della politica ecotioniica inglese. — Come Cavour comprende il fenoìneno eco- nomico in rapporto alla vita politica degli Stati mo- derni. — VI. Giudizio riassuntivo su questi scritti e sulle qualità intellettuali del loro autore. I. Come abbiamo detto, il Contedi Cavour, fin da quando era nell'esercito e poi più intensamente dopo, studiava con passione, e non nella sola forma della lettura di libri e di periodici, ma anche in quella, meno didattica ma non meno efficace, dei viaggi, delle conversazioni, dei con- tatti cogli uomini eminenti stranieri, le questioni sociali e politiche, e si formava una cultura svariata e profonda nell'economia e nella storia principalmente. Datosi al- l' agricoltura, non interruppe questi suoi studii, piuttosto li rafforzò e determinò meglio, crescendo negli anni e maturando il suo ingegno potente ed acuto. Il suo diario autobiografico pubblicato da Domenico Berti e le sue CAPITOLO IV. 53 lettere ci mostrano il lavorio intenso della sua mente, la sua voglia di imparare, di conoscere intimamente gli uomini e le cose, di rendersi conto delle condizioni esatte dei popoli, dei paesi e dei governi stranieri; in questo lavorio il suo orizzonte mentale, per così dire, si allarga, e si perfeziona in lui quell'abitudine innata, naturale, di trattare le questioni da un punto di vista ampio, vedendone tutte le connessioni e i rapporti, senza mai però trascorrere nelle generalità o perdersi nell'uto- pia o nel dottrinarismo. A Parigi assiste alle sedute del Parlamento, visita gli statisti e gli uomini illustri, passa le serate nei sa- lotti dove quanto ha di meglio la Francia si affolla, parla con tutti, discute e giudica, va alla Sorbona e agli altri istituti superiori ad ascoltare le lezioni degli scien- ziati più in voga, e ne fa dei sunti, penetra negli sta- bilimenti industriali, nelle fattorie e nelle carceri ; in Inghilterra, in proporzioni minori per la minore cono- scenza che ha del paese e le maggiori difficoltà di pe- netrare in quell'ambiente sociale, fa lo stesso; in Isviz- zera pure, giovandosi delle molte e buone relazioni di parentela e d'amicizia che vi annovera. II. La principale questione o, per meglio dire, la prima di cui si occupa di proposito è quella del pauperismo. In Italia allora, e quindi anche in Piemonte, e fu la prima forma di agitazione riformatrice cui si diedero gli uomini moderatamente liberali, si cominciavano a studiare le condizioni delle classi disagiate, cercando di migliorarle, non per un sentimento di giustizia sociale, 54 CAPITOLO IV. ma per un sentimento di carità o beneficenza civile da opporre, nella mente di alcuni, a quella puramente re- ligiosa praticata fino allora dal clero. Di qui le società per la fondazione di asili infantili, di scuole d' istru- zione popolare, di ricoveri di mendicità, ecc., che sorsero, dove più dove meno, in tutt'Italia; di qui anche una contemporanea fioritura di studii pel miglioramento della condizione dei carcerati, delle abitazioni degli operai, pel miglioramento materiale delle classi agricole, che prelusero felicemente, dandogli una speciale caratteri- stica democratica, al risorgimento nazionale. Il Conte di Cavour entra in questo movimento e vi partecipa vi- vamente, ma da par suo, cioè con idee molto più lar- ghe e più alte degli altri. Benché in Italia non vi fosse allora quella piaga che si chiama pauperismo, frutto di condizioni sociali più evolute dal punto di vista econo- mico, egli studia precisamente il pauperismo, perchè vede e sa che questa piaga comprende e riassume tutte le altre, involgendo le più gravi questioni intorno alla beneficenza e all'assistenza pubblica; e la studia nel paese dove, accanto alla maggiore prosperità economica diffusa in tutte le classi sociali, infierisce maggiormente, e dove lo Stato maggiormente la cura, cioè in Inghil- terra. Gli atti della commissione d' inchiesta nominata dal Parlamento inglese per investigare il funzionamento della tassa dei poveri, sono da lui esaminati attentamente, e il suo esame è maggiormente proficuo perchè è inte- grato dalla sua grande cultura economica e dalla pro- fonda conoscenza della storia e della vita inglese che già possiede. Da questo esame egli ricava il principio della carità legale, che non deve sostituire, annullandolo, ma deve CAPITOLO IV. 55 integrare il principio religioso e morale della carità pri- vata. Ogni uomo ha diritto alla vita ; quando è impossibi- litato a guadagnarsi ciò che è necessario per vivere, gli abbienti, la Società e lo Stato hanno il dovere di soc- correrlo, e questo non deve essere considerato come un dovere morale, ma come un preciso dovere giuridico. Non v' è diritto al soccorso quando si può lavorare, ma quando non si può, sia per infermità, sia per sovrab- bondanza di offerta di lavoro in confronto al bisogno, sia per qualunque altra causa, v' è un diritto positivo, incontestabile, che deve essere ammesso e garantito da tutte le legislazioni civili. È il principio della carità le- gale che s'integra col diritto al lavoro, il quale diventa anche un dovere perchè l'uomo ha diritto alla vita, cioè a guadagnarsi tanto da vivere col lavoro, e solo, se a questo è impotente, gli è permesso l'ozio. Non è un principio scoperto da Cavour ; vigeva in Inghilterra e vi era applicato colla legge dei poveri da secoli ; non è nemmeno egli il primo ad accettarlo e a bandirlo nel continente europeo, certo nemmeno è il primo in Italia, ma è importante che egli l'abbia proclamato e vi si sia sempre mantenuto fedele. Il Cavour è, lo abbiamo detto, in economia un liberale, cioè nemico della ingerenza dello Stato; anche in politica combatte lo Stato-prov- videnza che si sostituisce alle energie individuali, è av- verso alle dottrine socialiste che allora si svolgevano in Francia e in Inghilterra e si mostravano in Germania, ma non esita ad accettare un principio che era combat- tuto fieramente allora dai liberali in economia e in po- litica, che è fondamentale, invece, nelle dottrine socialiste e dal quale queste cominciavano allora a trarre molte e più gravi conseguenze. Egli non esita, non ha pregiudizii 56 CAPITOLO IV. dottrinarli, non gli preme di apparire coerente, sente e capisce che il principio è buono, risponde alle condi- zioni, alle esigenze del suo tempo, lo accetta quindi e lo propugna apertamente, senza scrupoli. E questo il procedimento dell'uomo politico, dello statista nel senso vero della parola, non empirico, cioè, né dottrinario, ma che i principii scientifici proporziona e adatta alla realtà delle cose. Sul pauperismo, e principalmente sulla legge inglese dei poveri, il Cavour ha scritto uno studio riassuntivo della inchiesta ordinata dalla Camera dei Comuni, che gli fu commesso dal conte de l'Escarena, ministro del- l'interno di Carlo Alberto,* dove svolge ampiamente i principii, i modi di concretazione e le conseguenze della carità legale, e vi si dimostra pienamente favorevole. Farà meraviglia che un ministro di Carlo Alberto si rivol- gesse al Conte di Cavour, ma bisogna tener presente che egli non fu chiamato a far parte di alcuna commissione che avesse carattere prettamente governativo, ebbe un in- carico si direbbe privato, che non lo impegnava in nulla politicamente, e che inoltre, se il Governo piemontese vo- leva conoscere il funzionamento della legge dei poveri in Inghilterra, doveva necessariamente rivolgersi a una per- sona che avesse, come sì dice, competenza in materia, e in Piemonte certo non trovava nessuno più compe- tente del Conte di Cavour. Né questi poteva avere alcun ritegno a compiacere il Governo del suo paese in cosa che era d' utile generale e non lo impegnava politica- 1 Exlrait du Rapport àcs Commissaires de S. M. Britannique, qui onl exécuié une enqnéte gétiérale sur V adminùtration des fonds provenants de la taxe des pauvres en Angleterre . Turin, Iniprinierie de Joseph FodraUi. CAPITOLO IV. 57 mente, perchè, bisogna non dimenticarlo, egli non era un ribelle o un rivoluzionario, ma si era messo e voleva rimanere all' opposizione legale. III. Il Conte di Cavour, fra gli statisti e anche fra i pub- blicisti del suo tempo, è uno di quelli che più hanno capito la complessità dei fenomeni sociali e l'importanza del fattore economico anche nelle questioni di carattere più propriamente politico, e questo perchè la sua mente era nello stesso tempo analitica e sintetica, vedeva i rapporti tra le cose, ma scrutava anche queste profon- damente. Perciò nella considerazione dei fenomeni po- litici egli si poneva sempre da un punto di vista giusto, li proiettava, per così dire, nella storia e li esaminava nella loro realtà, ed applicava ad essi i principii scienti- fici che aveva appresi e assimilati, come il medico al letto d'un malato applica i dettami della scienza tenendo conto delle condizioni generali e speciali dell'infermo, e non procedendo con criterii generali e aprioristici. Egli, e lo abbiamo già visto, non è schiavo di alcun sistema, di alcuna dottrina, ma sistemi e dottrine diventano in sua mano mezzi, istrumenti dell'azione diretta ad ottenere uno scopo determinato. Questo carattere peculiare del suo ingegno, che si svolgerà magnificamente nell' opera sua di statista, ap- pare già chiaro nei suoi scritti, principalmente, a no- stro avviso, nel suo studio sull'Irlanda. La questione irlandese anche ora non è completamente risoluta, seb- bene non sia più così acuta e penosa per l'Inghilterra 58 CAPITOLO IV. come era un tempo. Quando Cavour scrisse l'articolo, che fu pubblicato nella Bibliothèque universelle di Ginevra (fase/ Gennaio e Febbraio del 1844), il gruppo irlandese cattolico capitanato da O'Connell aveva assunto nella Camera dei Comuni un'importanza grandissima. Senza spingersi, se non come ulthna ratio, fino a chiedere la in- dipendenza politica dell' Irlanda, cioè la sua separazione dall' Inghilterra, esso chiedeva l'autonomia e l'indipen- denza amministrativa più larga, la revoca, insomma, del- l'atto d' unione fatto votare da Pitt nel 1800. Per gli irlan- desi, perchè cattolici, parteggiavano tutti i legittimisti e i clericali d'Europa; per gl'irlandesi stessi, perchè op- pressi, parteggiavano pure i liberali, e gli uni e gli altri si univano nel maledire la perfida Albione, e nell' augurare che, magari colla rovina dell'Inghilterra, potessero gli sforzi di O'Connell e dei suoi seguaci incontrare pieno successo. La grande maggioranza della Camera dei Co- muni, la Camera dei Lords quasi unanime, l'opinione pubblica dell'isola britannica si pronunciavano contrarie alle richieste degl' irlandesi, ammettendo alcuni, altri escludendo del tutto, la necessità di riforme che miglio- rassero le condizioni del popolo dell' isola verde. Cavour, come lo portava a fare il suo genio, si mette in mezzo ai contendenti e attacca la questione nel suo punto principale. È utile o no all'Irlanda separarsi dal- l'Inghilterra? Che cosa guadagnerebbe in questa sepa- razione? E prova che, separandosi le due isole, l'Inghil- terra ne avrebbe certamente danno, ma non quanto l'Irlanda. Perciò l'atto di unione fatto votare da Pitt deve essere mantenuto perchè buono in sé stesso e nelle sue conseguenze, come fu buono nei suoi intendimenti. Anzi Cavour è così persuaso di ciò che arriva fino a CAPITOLO IV, 59 giustificare lo statista inglese, il quale, per riuscirvi, non si trattenne dal corrompere il Parlamento irlandese. Ma se non si deve revocare l'atto d'unione, si deve però far giustizia ai fondati reclami degl'irlandesi, pro- curare che nei limiti del possibile siano soddisfatti. Que- sto è il dovere dell'Inghilterra, che essa deve adempiere, non per paura di O'Connell e dei separatisti, ma per- chè, oltre che la giustizia, lo esige e lo impone il suo più stretto interesse. E qui Cavour esamina minutamente lo stato dell'Irlanda, le condizioni economiche, morali, politiche e religiose del popolo, nelle sue varie classi; espone le cause dei mali, ne attribuisce imparzialmente la responsabilità agl'inglesi invasori e occupatori, quando la meritano, agl'irlandesi stessi quando lo esiga la giu- stizia. Invoca una legislazione speciale, e ne determina i limiti e le condizioni, specialmente nella proprietà fon- diaria, fa notare, infine, gli sforzi fatti dal Parlamento inglese per migliorare le condizioni dell'Irlanda, senza tacerne le deficienze e gli errori. Conclude il suo studio osservando che l'agitazione promossa da O'Connell è destinata à étre et à deineicrer sterile. Les proinesses, la jactance du libératenr pcuvent à cet égard continuer à entretenir chez les catholiques irlandais de trompeuses il- lusions ; mais ces illusions se dissiperont tòt ou tard, et le parti populaire finirà par deniander compie à son chef des re'sultats de tant d'efforts et de tant de sacrificcs. Che farà in questo caso O'Connell? Farà appello all'in- surrezione, provocherà la guerra civile? Cavour non crede possibile questo, perchè l' agitatore è troppo abile e ac- corto, ha troppo buon senso per lanciarsi seriamente in una lotta a morte coll'Inghilterra. Qualcuno crede che il giorno in cui O'Connell inalzasse la bandiera dell' in- 6o CAPITOLO IV, dipendenza irlandese, facendo appello alle forze nazio- nali, scoppierebbe un movimento popolare irresistibile. Si dice : dans ce siede on ne soumet plus par la force huit millions (Vhotnnies décidés à vaincre oti à mourir. E risponde: e' est là encore une illusion quUme elude ap- profondie des cléinents doni se composcnl les populalioiis de V empire britatmique ne Iarde pas à dissiper. E qui osserva che l'Irlanda non sarebbe unanime nell'insurre- zione, che i protestanti abitatori dell' isola vi si oppor- rebbero, che le rivolte armate nelle isole inglesi non hanno probabilità di successo, che infine (e questa è la ragione più forte e che nello stesso tempo mostra il profondo acume dell' autore) la classe nioyenne et la classe supe'rieure constituent les forces vives de la nation bri- tamiigue. Elles soni bien autrement énergiques qne les inémes classes sur le co7itinent. Atictme revolution , auciine tcìitative d'insurrectioji n''est possible, si la viajorìic dcs personnes qui les composent ne se déclare contre le gou- vernentent Si la guerre civile y e'clatait, on verrait d'un coté des masses notnbreuses et confuses de paysans indi- sciplinables , et coìmnande's par un faible nombre de catho- liques sortis des rangs supe'rieurs de la socie'té, et de Vautre les classes supe'rieures, les classes tnoyennes ap- puye'es par toutes les forces doni dispose le goiivernement. En vérité la parile serait trop ine'gale . Le parti populaire, en recourant à la violence, courrait à une mine certainc. Quindi non insurrezione, non revoca dell' atto d'unione, perchè questa danneggerebbe più l'Irlanda che l'Inghil- terra, ma invece riforme ardite, radicali, che tolgano gli odiosi privilegii dei latifondisti, che migliorino le con- dizioni del popolo, ecco il rimedio. È di esito sicuro ? Cavour non ardisce asseverarlo, perchè nelle questioni pò* CAPITOLO IV. 6l litiche e sociali l'avvenire può sempre preparare qualche sorpresa, ma è l'unico rimedio razionale, possibile e quindi bisogna a questo appigliarsi. E l'Inghilterra vi si atterrà, nonostante che il contegno di ribellione assunto dal par- tito irlandese possa persuadere il contrario, perchè le gouvernement, habitué depuis longtemps aux conséqtcen- ces extrémes de la liberté politique, est peti susceptible. Il ne se laisse pas plus influencer par de vaines menaces qiie par la peur de paraìtre céder par faiblesse lorsque le tenips des concessions est venu. E conclude augurando che l'Irlanda in queste riforme possa trovare quei van- taggi che si riprometteva da quei sogni brillanti d' indi- pendenza qiCelle ne pourra janiais réaliser. Come si vede, Cavour nella questione irlandese assume una posizione sua speciale. Non è cogli irlandesi, non è cogli inglesi av- versi alle riforme, è più ardito ed avanzato di quegl' in- glesi stessi che vogliono le riforme in prò dell' Irlanda. Noi crediamo che fosse nel vero ; il suo studio stam- pato nel 1844 aveva previsto giusto; e quando un illustre uomo distato inglese, il Gladstone, riprese, attenuandolo, il progetto di O'ConnelI, non riuscì ad altro che a spez- zare la compagine del suo partito e a chiudere con una sconfitta la sua gloriosa carriera politica. L'Irlanda è con- giunta inseparabilmente all'Inghilterra, si deve trovare, e ora si è già molto avanti, la via di conciliare gl'in- teressi dell' una e dell' altra come aveva consigliato Ca- vour ; egli quindi era nel vero, appunto perchè le sue opinioni eran diverse da quelle di tutti i contendenti. Il suo studio sull'Irlanda fece una grande impressione e, come dice il Chiala, fu letto e lodato da molti statisti inglesi e francesi, perchè appariva pensato e scritto da un vero e geniale uomo politico. 62 CAPITOLO IV. IV. Un altro scritto suo di carattere piìi strettamente eco- nomico egli pubblicò l'anno dopo, nel 1845, sempre nella Bibliothèqiie nniverselle di Ginevra, studiando la legisla- zione inglese sul commercio dei cereali. Il Cavour, benché agricoltore, era un liberale convinto in economia poli- tica, avverso quindi a qualunque forma di protezionismo, pur senza trascorrere negli eccessi della scuola liberista. La questione della protezione agraria agitava allora l'In- ghilterra, la lega antiprotezionista capitanata da Riccardo Cobden aveva per sé le classi operaie e la borghesia industriale, ma si urtava contro la resistenza dello spi- rito conservatore e dei latifondisti inglesi. Egli studiò la questione, oltre che sui libri e sui periodici, nell'Inghil- terra stessa, e si persuase che la causa liberale era de- stinata a trionfare in un tempo più o meno lungo. Scrisse il suo studio, esponendo con molta chiarezza ed esat- tezza, la questione nel suo svolgimento storico, nella sua condizione attuale, nei suoi rapporti politici e sociali, nelle sue conseguenze non solo per rispetto all'Inghil- terra, ma al commercio mondiale, e venne ad una con- clusione si direbbe profetica, che, cioè, non solo l'In- ghilterra avrebbe abbandonato il protezionismo, ma che sarebbe stato proprio Roberto Peel, il leader dei con- servatori protezionisti, a iniziare lo sgravio delle materie prime che formano le basi della consumazione popolare. E infatti così avvenne; un anno dopo che era uscitolo studio di Cavour, Roberto Peel annunciava al Parlamento inglese la sua conversione ai principii della scuola di Manchester, aggiungendo che era giunto il tempo di ab- CAPITOLO IV. 63 bandonare per sempre quel sistema protettore che egli s'era impegnato a mantenere arrivando al potere. Questa profezia di Cavour si fondava su due elementi. 11 primo, soggettivo, derivava dalla sua tempra di sta- tista ; egli, convinto della bontà della causa liberale, sen- tendo che l'opinione pubblica era a questa favorevole, capì che un uomo di Stato non poteva non soddisfarla; l'altro derivava dalla sua conoscenza degli uomini; Ro- berto Peel, per lui, era l'uomo che per l'ingegno dut- tile e acuto, per lo squisito senso politico, poteva passar sopra al pregiudizio della coerenza formale, e vi sarebbe passato, quando si fosse convinto che la nuova via era la più utile al paese. Cavour, se fosse stato ministro della Regina, non avrebbe esitato un momento ; era naturale supponesse che Peel facesse ciò che egli stesso avrebbe fatto se fosse stato al suo posto. V. Quando era già iniziata e condotta a buon punto la riforma della legislazione inglese sul commercio dei ce- reali, e quindi l'Inghilterra entrava risolutamente nella via del libero scambio, e quando già stava per prorom- pere la rivoluzione del 1848 in Italia, il Cavour, in uno studio pubblicato a Torino n&W A7ttologia Italiana del Predari, si occupa della ripercussione che questa riforma era destinata ad avere sul moìido economico e sull'Ita- lia in particolare. Come abbiamo già detto, egli è un economista della scuola liberale, ma non è solo un economista, bensì an- che un uomo politico ; quindi il fenomeno economico non 64 CAPITOLO IV. è mai da lui studiato isolatamente, in sé e per se, invece sempre in rapporto colla vita sociale, intesa in senso largo, e quindi anche principalmente colla vita politica. Av- verso all'assolutismo, egli vede e capisce che combat- tendo contro il sistema protezionista, si combatte non solo per la libertà economica, ma anche per la libertà politica e civile dei popoli e per un migliore loro ag- gruppamento, conforme ai loro interessi, alla loro na- tura e alla loro storia, cioè alla loro nazionalità. Per lui la scienza economica diventa veramente politica ; per lui la facilità degli scambi commerciali tra popolo e popolo è destinata a promuovere la libertà civile interna ed è anche una spinta determinativa per i mutamenti politici necessarii ad abilitare ciascun popolo a tenere con onore e vantaggio il suo posto nel mercato internazionale. Come conseguenza della libertà commerciale, sorge la neces- sità d' una politica economica italiana, al disopra delle barriere artificiali dei singoli Stati. Ecco il concetto che anima lo studio del Cavour, nel quale, come si vede, l'idea politica, benché non svolta apertamente, è predo- minante, al disotto dei computi, dei raffronti, delle in- duzioni e delle deduzioni sui fenomeni economici degli scambii e sulle merci e le derrate che l'Italia deve por- tare nel mercato internazionale o ricevere dall' estero. Non egli subordina, come é divenuto vezzo di poi, al fenomeno economico ogni idea politica, ma del problema politico studia il lato economico dimostrandone l' impor- tanza, grandissima sempre, ma determinativa nel tempo in cui scriveva, nel quale si svolgeva una grande tra- sformazione industriale e il mercato europeo si allargava accennando a diventare mondiale. Egli vedeva più giusto e più lontano dei suoi contemporanei italiani, special- CAPITOLO IV. 6.^ mente dei democratici che avevano un concetto molto parziale, o, per meglio dire, unilaterale delle questioni del tempo e, poiché il Cavour non era dei loro, ne sprez- zavano la scienza economica, che essi fingevano di cre- dere unicamente diretta a permettergli di accumulare maggiori ricchezze. Il De-Boni nella Cronaca (Quel che vedo e quel che penso) che stampava a Losanna, nell'oc- casione che i due fratelli Cavour prendevano parte alle feste che in Torino si facevano a Riccardo Cobden, ri- volse ad essi, mirando specialmente a Camillo, volgari insolenze, accusandoli di aver accaparrato molto grano per rivenderlo a caro prezzo. Alcuni inclinano a credere che, appunto perchè offeso e irritato da questo attacco villano oltre che ingiusto, il Cavour non scrivesse il se- condo articolo sul medesimo argomento che aveva pro- messo; noi crediamo invece che non lo facesse perchè i tempi s' eran fatti grossi e, per vincere le ultime esi- tanze di Carlo Alberto, era necessaria im' azione più de- cisa e più propriamente politica. VI. Riassumendo quanto abbiamo fin qui detto intorno agli scritti del Conte di Cavour che abbiamo esaminati, diremo che in essi è evidente la potenza sintetica della sua mente e sopratutto l'acume col quale sa discernere I rapporti tra i fenomeni e le cose in apparenza più di- sparate. Benché studii di preferenza questioni economi- che, le approfondisce, le sviscera per così dire, ma non si smarrisce, né si perde in esse ; al contrario ben presto assurge ad una contemplazione più alta e più complessa; Cavour. S 66 CAPITOLO IV, si direbbe che quello della sua mente è come 1' occhio dell' aquila che penetra nell'abisso delle vallate, ma nello stesso tempo domina le cime dei monti ; il fenomeno, 'a legge, il fatto economico e sociale non sono mai iso- ati per lui, ma invece collocati al loro posto, in mezzo alla società, al popolo, allo Stato che più specialmente riguardano, e anche nei rapporti, che ai più, spesso, sfug- gono, colla società degli Stati eiu'opei e dell' intero mondo civile. Nulla egli trascura, nulla gli rimane ignoto ; non fa opere o scritti scientifici nello stretto senso della pa- rola, ma fa più e meglio : avviva, illumina l'argomento che tratta, lo rende a tutti interessante, perchè sa tro- vare ed esporre quella parte di esso che a ciascuno in- teressa. Non è uno scienziato, ma ha tutta l'acutezza, la serietà dello scienziato; non è uno scrittore politico, ma ha tutta la potenza suggestiva, afìascinatrice, larga- mente comprensiva dello scrittore politico eminente ; è l'uno e l'altro insieme: cioè, negli scritti come poi si mostrerà nell' azione, è lo statista vero e grande nel più nobile significato della parola. Perciò anche negli anni precedenti al 184S egli passa ignoto ai più, stimato da pochissimi, disprezzato e non curato da molti, da nessuno completamente conosciuto per quello che real- mente valeva. E cosi deve essere ; egli è diverso da tutti, non è rivoluzionario, ne conservatore, non cospira, non è contro i cospiratori, non è né agitatore, né quie- tista, non è uno scienziato, non è un uomo politico ; è, si direbbe, un solitario, benché viva nella società più alta e intellettuale del suo paese e dell'Europa; ma in questa solitudine egli tempra il suo genio e il suo ca- rattere, matura il suo pensiero, lo affina e completa, e di questo processo integrativo del suo pensiero sono CAPITOLO IV. 67 prova gli scritti che ogni tanto pubblica, i quali costi- tuiscono come la preparazione della sua grande azione futura. Ed è questa che noi dobbiamo ora esporre ed esa- minare, perchè è principalmente da essa che fu formata l'Italia, cioè fu concretato nel fatto politico l'ideale della sua costituzione nazionale. 68 Capitolo V. I. Le idee politiche del Conte dì Cavour. — Giudi zìi er- rati che sì fecero e si fanno su di esse. — Italianità perfetta del suo pensiero . — II. Complessità della que- stione italiana quale a luì si presentava. — Le rif or- lile. — La libertà. — V indipendenza. — III. Carat- tere delP opposizione legale di Cavour alV assolutismo piemontese. — Sita ripugnanza e diffidenza per Carlo Alberto. — Giudizi severi e anche ingiusti sul Re e sul suo governo. — La Società del Whist. — V Asso- ciazione agraria. — Primi ìirti coi democratici. — Cavour si schieì'a coi moderati riformisti. — IV. La questione delle strade ferrate. — Il libro del Conte Petìtti. — L'articolo di Cavour su questo libro. — Rapporto tra la costruzione delle strade ferrate e la questione italiana. — Appello a Carlo Alberto. — Pa- rallelo tra il pensiero di Cavour e quello di Balbo. — Cavour non è un neo-guelfo. Come abbiamo già detto, il Conte di Cavour, per le attitudini stesse della sua mente, per le caratteristiche più spiccate del suo genio, per la sua larga coltura integrata dalla conoscenza della vita sociale e politica delle due maggiori nazioni d'Europa, era portato necessariamente a considerare ogni questione politica o sociale in un modo molto più complesso e completo di quello che altri, an- che se uomini eminenti, facessero. Era naturale, quindi, CAPITOLO V. 69 che anche la questione dell' indipendenza italiana da ogni dominio straniero fosse da lui considerata in questo modo, e non solamente quando se ne occupò come sta- tista, ma fin da quando portò su di essa la sua atten- zione negli anni della sua prima giovinezza, e poi dopo, prima di entrare nel campo dell'azione politica vera e propria. Parecchi storici e tutti gli avversarli e denigratori che ebbe il Conte di Cavour da vivo e dopo morto, anche se riconoscono che fu un grande statista parlamentare e diplomatico, negano che egli avesse un'alta idealità politica, che mirasse, con animo veramente italiano, alla liberazione dell'Italia da! dominio straniero, alla sua costituzione a nazione indipendente. Si disse e da qual- cuno si dice ancora: « il Conte di Cavour fu un grande uomo politico ; come ministro del re di Sardegna, do- veva procurare l'ingrandimento dei doniinii del suo Si- gnore, e, poiché questo ingrandimento non poteva av- venire che verso l'Italia, sfruttò la rivoluzione italiana, e poiché anche questa conduceva fatalmente all'unità, accettò r unità, non per convincimento, ma per la forza delle cose. » Ora questo ed altri simili discorsi, oltre che contrad- dicono alla storia perché non tengono conto né del sen- timento nazionale prevalente in Piemonte, né della mis- sione storica della casa di Savoia e dello stato piemontese, per ciò che riguarda in modo speciale il Conte di Cavour, sono nettamente contrarli al vero. Perché, come abbiamo altra volta detto, « se vi fu in Italia uomo politico pret- tamente italiano, fu il Conte di Cavour. Quest'uomo che ha studiato quel tanto d' italiano necessario per parlarlo a stento, che solo dopo molti sforzi arriverà a parlarlo e 70 CAPITOLO V. scriverlo correntemente, non mai correttamente, que- st' uomo che forse non lia mai letto tutto Dante e che co- nosce certo più Montesquieu che Machiavelli, che studia le istituzioni inglesi e le francesi, e più le prime che le se- conde, quest'uomo ha l'animia altamente e serenamente italiana. E quando a lui il problema italiano si presenterà, lo comprenderà in tutta la sua estensione; la meta a cui in- consciamente ancora tende l'Italia, la vede chiaramente; la nuova Italia, quella pensata da Nicolò Machiavelli e da Vittorio Alfieri, quella sospirata dal Petrarca, appare a lui attraverso le nebbie, le illusioni del neo-guelfismo, le gonfiature iperboliche, le insidie, gli errori, le colpe dei moderati, dei progressisti, dei repubblicani, attra- verso i delitti, gli spergiuri, le insipienti crudeltà dei clericali, dei tiranni, degli stranieri. » Il Conte di Cavour è nello stesso tempo uno statista positivo e un grande idealista della politica; ha la per- cezione chiara, precisa della realtà delle cose, ha il senso, diremo così, del possibile, doti queste dello statista, ma ha l'animo ardente, entusiastico dell'agitatore; e queste qualità, che sono tra loro eminentemente discordanti e nella maggior parte degli uomini inconciliabili, in lui si fondono in modo mirabile, quasi si direbbe, per la for- tuna d'Italia, miracoloso. II. Come era conforme al sentimento della parte mi- gliore della classe cui apparteneva, il Conte di Cavour, fin dai primi anni, si sentì italiano e alla condizione d'Italia cominciò a pensare. Nel suo intimo egli era su- perbo d'essere italiano, e non avrebbe mai voluto essere CAPITOLO V. 71 altro, ma era anche umiliato d'appartenere ad una na- zione divisa, a capriccio dell'Europa, in piccoli Stati, de- boli, impotenti e per di più soggetta in buona parte del suo territorio al dominio straniero. Inoltre, mentre ve- deva negli altri paesi attuato ogni civile progresso e fiorire le istituzioni libere in tutti i loro svolgimenti più svariati, in Italia, invece, vedeva imperare l'assoluti- smo, compressa ogni aspirazione a miglioramenti sociali, riguardata come delitto di fellonia ogni speranza di miglioramenti politici. Perchè sola, o quasi, l'Italia in Europa deve essere in queste condizioni ? Perchè il po- polo italiano deve essere trattato come quasi più nessun altro popolo civile è trattato? Forse il popolo italiano non è preparato alla libertà, all' indipendenza? I\Ia come potrà divenirne degno se gli s' impedisce ogni progresso? E anche, perchè deve essere ritenuto da meno degli altri, inferiore intellettualmente, moralmente a questi? La pre- tesa inferiorità degli italiani è del resto smentita dalla loro storia antica e recente, è smentita dagli esuli stessi che, fuggendo la mala signoria e la prepotenza straniera, coir ingegno, colla vita intemerata, colla nobiltà delle opere, onorano il nome loro e la patria infelice in tutti i paesi d'Europa. L'Italia non merita la condizione che le è fatta, l'Italia è degna di essere nazione indipen- dente, il suo popolo è degno della libertà; ecco i pen- sieri che fin, si può dire, dalla fanciullezza, agitavano il Conte di Cavour. Il quale, pur provando la vergogna di appartenere ad una nazione divisa, calpestata ed av- vilita, era però fiero di appartenervi, né mai pensò ad abbandonarla, neppure quando, sentendo in sé un im- pulso quasi irresistibile alla vita pubblica, si persuase che mai in patria avrebbe potuto entrarvi ed emergervi. 72 CAPITOLO V. Col SUO nome, colle sue estese parentele in Svizzera e in Francia, non gli sarebbe stato difìfìcile conquistare all'estero quella posizione della quale si sentiva degno, purché avesse voluto farsi o francese o svizzero, ma alle profferte che gli venivano fatte egli rispondeva sempre negativamente. È noto il giudizio severo che egli fece di Pellegrino Rossi, del quale pure ammirava l'ingegno e il sapere. « Un italien seul, scriveva, s'est fait un noni à Paris, yagagné uneposition, c'est le criminaliste Rossi.... Cet homme qui a abjuré sa patrie, qui ne sera jamais plus rien pour nous, aurait pu, dans un avenir plus ou moins éloigné, jouer un ròle immense dans les destinées de son pays et aurait pu aspirer à guider ses compa- triotes dans les voies nouvelles que la civilisation fraye tous les jours, au lieu d'avoir à régenter des écoliers indociles. Non, non, ce n'est pas en fuyant sa patrie parce qu'elle est malheureuse qu'on peut atteindre un but glorieux. Malheur à celui qui abandonne avec mépris la terre qui l'a vu naitre, qui renie ses frères comme indignes de lui. >•> Questo giudizio su Pellegrino Rossi ha in sé qualche cosa di profetico; Cavour vide che l'uomo che si era fatto francese non avrebbe mai più potuto ridivenire ita- liano, non sarebbe più stato capito né avrebbe più po- tuto capire i concittadini che aveva abbandonato; i vani sforzi che l'illustre carrarese fece nel 1849 in prò del Papato e la sua fine miseranda provano abbastanza l'acu- tezza di percezione di Cavour. Ma, quello che è più no- tevole in queste parole che abbiamo citate e nelle altre molte consimili che si potrebbero aggiungere, é la net- tezza, la precisione e la forza del suo sentimento nazio- nale. Però mentre per gli altri questo sentimento mirava CAPITOLO V. 73 a concretarsi in poche idee semplici, per lui, quando si trattava di farlo passare nella realtà, diveniva somma- mente complesso. Anzitutto, i due problemi della libertà e dell'indipendenza nella sua mente erano strettamente, in modo inscindibile, congiunti. Un popolo non può es- sere, neir età moderna, indipendente se non è politica- mente e civilmente libero ; un popolo non può divenire e rimanere veramente libero, se non è politicamente in- dipendente. ]\Ia anche un popolo non può essere, o di- venire, in modo stabile libero e indipendente nell' età moderna, se non soddisfa nel suo ordinamento interno a quelle condizioni sociali che di quest'età sono carat- teristiche, cioè se non tien conto dell'elemento econo- mico, se non cura il miglioramento morale e materiale delle classi inferiori, se non attua, nei rapporti sociali, quella giustizia relativa che è voluta dai progressi della civiltà. Ed anche, un popolo, nell'età moderna, non può conquistare la libertà e l'indipendenza per impulso e forza esclusivamente propria, senza tener conto degli al- tri popoli, ma deve dimostrare e provare che la sua li- bertà e la sua indipendenza costituiscono, per cosi dire, un interesse generale del consorzio internazionale degli Stati. Questo, in brevi tratti e nelle sue linee più generali, il concetto che Cavour applicava all'Italia e al quale fu sempre fedele. Quindi, per lui, occorrono le riforme eco- nomiche, i progressi sociali che creino le condizioni della libertà e dell' indipendenza; occorre la proclamazione e l'attuazione della libertà per attuare l'indipendenza, oc- corre questa per assicurare quella. Perciò egli, sempre pensando all'Italia, studia le questioni sociali ed economiche, mettendole in rapporto 74 CAPITOLO V. speciale col suo paese, invoca le riforme e la libertà po- litica e civile concretata negl'istituti rappresentativi e, infine, la guerra sul campo e la lotta diplomatica per cacciare lo straniero e costituire la nazione. Naturalmente in questo processo logico del suo pensiero, cui s'informa la sua azione, egli non può soffermarsi su nessuna dot- trina, su nessun sistema particolare, non può accettare nessun principio assoluto; ma anche nessuna dottrina, nessun sistema, nessun principio egli esclude, se non quando e nella misura in cui contraddice al suo con- cetto fondamentale. III. Abbiamo detto che il Conte di Cavour, dopo abban- donato l'esercito, si mise e rimase all'opposizione le- gale contro il governo del Piemonte, ed è vero, ma bisogna anche aggiungere che egli fremeva d'indigna- zione e di rabbia di dover rimanere entro i limiti che s'era volontariamente imposti, e non lasciava passare occasione per mostrare il disprezzo e anche, in una certa misura, la ripugnanza pel governo del suo paese e pel re Carlo Alberto. Il De la Rive dice che se vi fu uomo pel quale egli provasse una vivissima antipatia e come un senso d'invincibile diffidenza questo era Carlo Al- berto, e noi crediamo che tali sentimenti fossero dal Re cordialmente ricambiati. Erano i ricordi della vita di paggio? Erano le memorie del 21? Era invece una pro- fonda diversità di natura e di carattere fra i due? Noi crediamo che fosse di tutto questo un po' e che l'an- tipatia, la diffidenza, la ripugnanza crescessero in lui per le repressioni, feroci veramente, del 1S33 e per il rigido e CAPITOLO V. 75 pedantesco assolutismo di cui il Re, pur operando riforme sane ed utili, si compiaceva. Quest'assolutismo rivestito di bigotteria e di etichetta cortigianesca riusciva insoffri- bile anche agli italiani degli altri Stati che erano costretti a dimorare in Piemonte o solo a passarvi qualche giorno e ai piemontesi che avevano vissuto fuori di patria qual- che anno : era naturale quindi che rivoltasse addirittura il Conte di Cavour, il quale era tutto infatuato ed entu- siasta della vita politica e sociale delle nazioni libere straniere, e desiderava ed augurava ardentemente al suo paese di conquistare istituzioni simili a quelle. Se, nella prima giovinezza, come abbiamo visto, il soggiorno della Svizzera gli piaceva sommamente e gli pareva di respi- rare meglio in quel paese, quanto piìi avanzava negli anni gli doveva naturalmente riuscire maggiormente in- soffribile la condizione del Piemonte. Il ineniorandnvi del Conte Solaro della INIargherita, libro scritto in buona fede da quello tra i ministri di Carlo Alberto che più incarnava ed esplicava il principio dell'assolutismo bigotto piemon- tese, e che contiene l'esposizione dei criterii che il no- bile Conte fece prevalere negli anni nei quali fu al go- verno, dice bene il Chiala, mostra chiaramente che non esagerava molto Cavour quando in una lettera al De la Rive parla del Piemonte come di una specie d' inferno: « depuis que je vous ai quitte, jc vis dans une espèce Cìenfer intellectuel, c'est-à-dire dans un pays où l'intel- ligence et la science sont réputées cìioses inferuales par qui a la bonté de nous gouverner. » Non esagerava molto, abbiamo detto, ma giustizia vuole si dica che in qualche parte esagerava, perchè non vedeva il lato buono di quel sistema di governo, le riforme, timide, incomplete finche si vuole, ma graduali che compieva, le quali, sia pure a 76 CAPITOLO V. piccolissimi passi, avviavano, preparavano il Piemonte a compiere la sua storica missione in Italia. Senonchè, bisogna anche dire, che allora non era possibile che chi aveva vissuto all'estero in paesi liberi vedesse quello che noi ora vediamo, oppresso, come do- veva sentirsi, da quel sistema compressivo d'ogni ma- nifestazione di idee nuove e diverse dalle dominanti, d'ogni discussione in materia politica e religiosa. Tutto al Cavour pareva piccolo, meschino, insipiente, igno- rante in Piemonte; anche le sedute e i lavori dell'Ac- cademia delle scienze, nelle quali pure si svolse tanta e così nobile parte dell'attività intellettuale piem.ontese, gli sembrano ridicole. Nel diario inedito suo pubblicato da Domenico Berti v'è il resoconto d'una seduta di que- st'Accademia alla quale intervenne il Re, nel quale l'iro- nia, mista a disprezzo, è predominante. Per tutti gl'in- tervenuti, e massime per gli accademici lettori, ha parole amare : non rispetta Prospero Balbo, mette in burletta il Marchese Lascaris, il Carena, lo Sclopis, il Manno, Deodata Saluzzo e conclude: « En un mot, le mérite de la séance a été parfaitement à l'unisson de l'honneur que peut conférer à un corps savant la présence d'un prince jouissant d'une réputation européenne aussi bien établie que Charles-Albert. » Pure in questo inferno intellettuale, in mezzo a questi cortigiani, a questi congregazionisti e oscurantisti, egli vive e vuol vivere; ricerca la compagnia e l'amicizia dei diplomatici stranieri (ebbe amici tra gli altri P. de Barante e il d' Haussonville, il primo ambasciatore, il secondo segretario dell'ambasciata di Francia), sebbene questo frequentare le legazioni estere, massime quelle dei paesi liberali, lo mettesse in cattiva vista presso il governo. CAPITOLO V. 77 Inoltre egli frequenta gli uomini che in Piemonte, pur aderendo all' assolutismo, godono fama di larghezza d'idee e sono conosciuti come desiderosi di riforme più audaci e decisive di quelle che opera Carlo Alberto ; non disdegna neppure quei ministri, quegli alti funzionarli che si mostrano abili e progressivi ; egli non serve il go- verno, lo disprezza nel suo complesso, non ha fiducia nel Re, ma, fermo nell' opposizione legale, ben deter- minato a non divenire un ribelle, comprime la sua in- dignazione, capisce e sente che bisogna incoraggiare quelli che vogliono il bene generale, che lo procurano servendo il re assoluto, nella misura che a loro, in con- formità alle loro idee e agli ostacoli che trovano e non possono superare, è possibile. Perciò egli si stringe con Cesare Alfieri, si duole quando il Pralormo abbandona il ministero, e applaude al libro che sulle strade ferrate italiane pubblica Ilarione Petitti. Quando poi pare che il governo o, per meglio dire, il Re entri con minore indecisione nella via delle riforme ed accenni a una po- litica più ferm.amente italiana, egli, senza rimuoversi dalla diffidenza verso Carlo Alberto, pur non uscendo dalla riserva che s' era imposta, lo incoraggia. Il suo istinto, o meglio il suo acuto ingegno di statista, lo fa sicuro che grandi avvenimenti si preparano e che essi costringeranno, volente o nolente, il governo piemon- tese a cambiare condotta; occorre quindi persuaderlo, prepararlo a questo cambiamento inevitabile, vincerne le resistenze e i pregiudizii, perchè tanto meglio sarà per la causa delle riforme e della libertà se, invece che nemico, si avrà amico il governo. Per questo, anche, il Conte di Cavour mira con ogni sforzo a raccogliere in fascio gli uomini migliori del Piemonte, a far si che 78 CAPITOLO V. s' affiatino tra loro in qualunque forma, sia pure a solo scopo apparente di divertimento. Cosi egli, d'accordo con altre persone della migliore società piemontese, in- spirate da lui, fonda nel 1841 a Torino un club, sul mo- dello dei clubs di Londra e di Parigi e gli dà, dice il Ghiaia, la denominazione inoffensiva di Société duWhisi ; è il giuoco lo scopo apparente, e forse per molti dei soci anche reale, del club, ma nella mente del Cavour que- sto è un mezzo per raccogliere i migliori elementi della società, per obbligarli a parlare insieme, a comunicarsi le loro idee, è un mezzo, debole, insufficiente finché si vuole, ma sempre utile, per creare un'opinione pubblica in un paese dove era proibito occuparsi di politica. Fu veramente una cosa seria la fondazione di questo club; se tra i soci ve n' erano alcuni non amici del governo, come Cavour, ve n'erano altri la cui fedeltà al Re e 1' ossequio alle leggi dello Stato assoluto non potevano essere messe in dubbio per quanto professassero noto- riamente idee riformatrici, come il Pralormo e l'Alfieri, e ve n'erano molti prettamente assolutisti; pur tuttavia era una novità e perciò solo appariva pericolosa perchè, dice il De la Rive, « e 'est dans la nature des gouver- nements despotiques de ne pas soufifrir que l'opinion, mérne celle qui leur est favorable, se forme en dehors de leur influence immediate et échappe, fùt-ce pour les mieux servir, à leur contróle. » Ed anche Cavour ètra i fondatori, gì' inspiratori prin- cipalissimi della famosa Associazione agraria, che aveva per fine l'incremento dell'agricoltura e delle arti e delle industrie ad essa attinenti, e nella mente di parecchi tra i suoi fondatori, principalmente del Cavour, era un mezzo d'unione, un nuovo congegno per creare un'opinione CAPITOLO V. 79 pubblica e renderla, nei limiti legali, capace di influire sul governo, incoraggiandolo nella via delle riforme e nella politica italiana. In quest' associazione il Cavour, che ne fu membro attivo, discusse di agricoltura libe- ramente, e nella Gazzetta, che ne era l'organo, si occupò della questione dei poderi-modello e di altri argomenti consimili. Fu anche in quest'associazione che egli ebbe i primi urti con quelli che saranno poi i capi e gii ora- tori della sinistra nel Parlamento subalpino, il Brofferio e il Valerio. Questi, appartenenti alla borghesia, porta- rono neir associazione l' invidia propria della loro classe contro l'aristocrazia e principalmente contro quella parte di essa che era conosciuta come liberale. E poiché di questa era il Conte di Cavour, le cui idee erano cono- sciute, contro di lui si appuntò 1" ira dei cosiddetti de- mocratici, i quali, inoltre, erano in buoni rapporti col Re, per mezzo del suo capo di gabinetto Conte di Ca- stagnetto ; e forse non è avventato pensare che, ad in- coraggiare gii attacchi di questi puritani della democra- zia dottrinaria entrasse, per non poco, il convincimento che in alto si sarebbe vista con piacere diminuita l'im- portanza di queir aristocratico liberale che era il Conte di Cavour. Intanto i tempi maturavano, i libri di Gioberti e di Cesare Balbo commuovevano l'opinione pubblica, il go- verno piemontese pareva, sebbene in mezzo a molti ten- tennamenti e contraddizioni che potevano essere inter- pretate come pentimenti, che volesse seguirne l' impulso. Cavour sente che non è più il tempo d' esitare, ma che bisogna decidersi; per quanto scarsa sia, allora e poi, la sua fiducia nel Re, per quanto non si veda ancora quando e come e in quale occasione scoppierà in Italia 8o CAPITOLO V, quel moto che dovrà render necessaria la trasformazione liberale dello Stato piemontese e lo spingerà a capo del- l'impresa dell'indipendenza italiana, egli capisce che deve prendere, come si dice, una posizione netta e la sceglie : si mette col Re, cioè con quei liberali moderati che confidano nel Re. Di qui l' articolo intorno al libro del conte Petitti sulle strade ferrate in Italia, pubblicato, per consiglio del duca di Broglie, il i-' maggio del 1S46 nella Revue Nouvelle di Parigi. IV. La questione delle strade ferrate, allora che comin- ciavano a diffondersi grandemente in Europa, aveva una immensa importanza economica, perchè il nuovo mezzo di comunicazione implicava un radicale cambiamento ne- gli scambi interni e internazionali, e assumeva una non minore importanza sociale, perchè destinata inevitabil- mente a produrre una specie di rivoluzione nei rapporti e nelle abitudini degli uomini. Guardate da prima con diffidenza e con scetticismo, tanto che uomini eminenti come Thiers e Guizot quasi ne ridevano, le ferrovie de- starono poi una febbre di speculazione bancaria che pro- dusse gravi disastri, e quando uscì il libro di Ilarione Petitti e scrisse il suo articolo il Conte di Cavour, ave- vano sostenitori più calmi e sicuri e avversarli meno fieri. In Italia poi la questione delle ferrovie cominciava allora ad agitarsi e, come segno dei tempi, si cer- cava dagli uomini più illuminati, oltre che di costruire quelle vie ferrate che avevano un interesse locale, di preparare la costruzione delle altre che, attraversando i territori! di più Stati, costituivano un interesse nazio- CAPITOLO V. naie e, spingendosi oltre le Alpi, dovevano aprire all'Italia il mercato internazionale. Degli Stati italiani i piìi avan- zati sotto questo rapporto erano l'Austria pel Lombardo- Veneto, la Toscana e il Piemonte. Anzi, e questo fu in- contestabilmente un grande merito di Carlo Alberto, il governo piemontese pensava già, oltre che a costruire le linee interne, a perforare le Alpi per aprire una co- municazione diretta colla Francia. Nel regno di Napoli la costruzione delle strade ferrate, prima considerate come una curiosità senza vera e propria importanza economica, cominciava ad essere presa più seriamente, mentre il go- verno pontifìcio rifiutava di permetterle, forse perchè considerava quella delle ferrovie un' invenzione diabolica. Nel libro del Petitti il concetto politico è forse adom- brato, non certo è predominante; nell'articolo di Cavour invece predomina in modo assoluto e determinativo, seb- bene il lato economico e commerciale della questione sia ampiamente, anzi esaurientemente, trattato. Cavour, lo abbiamo già detto e ripetuto più volte, vedeva tutti i rapporti nelle questioni che studiava, nulla gli sfuggiva, sapeva essere analitico e sintetico nello stesso tempo e perciò non era mai superficiale; qualunque questione trattasse, egli sapeva imprimere alla sua trattazione un carattere speciale sufficiente a distinguerla dalle altre tutte sul medesimo argomento. Questa originalità carat- teristica negli scritti cavouriani si rivelava sempre, ma a noi pare sia più saliente e spiccata nell'articolo del quale ora dobbiamo occuparci. Questo, pur avendo l'aspetto, diremo così, esterno d'uno studio bibliografico, è invece una vera e propria monografia, la cui importanza sor- passa quella stessa grandissima dell'argomento preso a esaminare, perchè è come l'esposizione per sommi Cavour. 6 82 CAPITOLO V. tratti delle idee politiche del Cavour. Noi queste idee le conosciamo già, sappiamo come si sono formate, quale è il loro aspetto e il loro valore, perchè le abbiamo de- sunte dalle memorie del tempo, dalle lettere cavouriane> dai documenti d'ogni genere che sono stati pubblicati, ma è la prima volta che il Cavour le espone apertamente, è la prima volta che egli si occupa di politica italiana e accenna chiaramente a prendere il suo posto nella vita pubblica con un programma determinato. Ricordiamo la data dell'articolo, i° maggio 1846, essa è significativa. L'Italia cominciava a commuoversi, Vincenzo Gioberti aveva esposto il suo magnifico programma neo-guelfo nel Primato, Cesare Balbo aveva scritto il famoso libro delle Speranze d' Italia, Carlo Alberto accennava, benché sempre un po' tentennante, a riforme più sostanziali e sopratutto a prepararsi per l'impresa italiana; per tutta la penisola correva come un fremito di speranza, si sen- tivano prossimi grandi avvenimenti che non si sapeva precisamente quali fossero per essere, ma dai quali cia- scuno aspettava con sicura fiducia un miglioramento nelle condizioni interne d'Italia e la conquista della sua indi- pendenza ; si abbandonavano i vecchi procedimenti set- tarli, si formava e prevaleva l'opinione liberale mode- rata e questa si diffondeva per tutta la penisola e nessuno riesciva a sottrarsi alla sua influenza, né i popoli, né i principi, neppure il collegio dei cardinali che, dopo po- chi mesi, appunto obbedendo ad essa, eleggerà Pio IX, il Papa destinato a fare uscire dal movimento moderato- riformista la rivoluzione che vi era insita e connaturata. In questo momento appunto Cavour pubblica l'arti- colo sulle strade ferrate in Italia che è, lo abbiamo già detto, il suo programma o, per meglio dire, la chiara CAPITOLO V. 83 indicazione di quale sarà, nel movimento che si prepara e si determina gradualmente, la sua condotta politica. Egli comincia col mostrare l'importanza del nuovo sistema di locomozione nello sviluppo economico di tutti i paesi, ma, più che gli effetti economici, saranno grandi gli efìetti morali, massime in quei paesi che sono in ri- tardo nella via della civiltà. Per queste nazioni le fer- rovie saranno, più che un mezzo per arricchire, un'arma potente per trionfare delle forze che le ritengono in uno stato d'inferiorità industriale e politica. Nella locomotiva, sotto questo aspetto, vi è qualche cosa di provvidenziale, e ciò spiega perchè il nuovo sistema è con tanto entu- siasmo adottato in certi paesi, trionfando di tutti gli osta- coli che mirano ad attraversarne il cammino. Per questo l'Italia deve fondare sullo sviluppo delle ferrovie le più grandi speranze. Dopo aver accennato alle crisi finan- ziarie che, ripercuotendosi in Italia dall'estero, indus- sero una forte diffidenza nei capitalisti e quindi ritar- darono lo sviluppo delle ferrovie, dice che, una volta queste crisi superate, in Italia si ricomincia a desiderare la costruzione di strade ferrate, e dei governi italiani, fatta eccezione del pontificio e di qualche altro piccolo Stato, alcuni imprendono la costruzione delle grandi linee e pensano di affidare all'industria privata la costruzione delle linee secondarie ; altri invece aiutano la formazione di potenti compagnie a cui affidare l'esecuzione di tutte le linee dello Stato. Quindi si può determinare il trac- ciato di quelle strade ferrate destinato in pochi anni a riunire tutte le parti d'Italia, dalle Alpi al golfo di Ta- ranto. Ed è appunto nel determinare questo tracciato, nel difenderlo da tutte le possibili obbiezioni di carattere pò- 84 CAPITOLO V. litico o municipale, che si svolge magnificamente il suo pensiero. Come abbiamo altra volta detto « egli si pone davanti la carta della penisola e traccia su di essa le linee ferroviarie senza tener conto dei confini dei singoli Stati e riguardando questi piuttosto come parte di un tutto che come organismi indipendenti gli uni dagli altri. Fin nella questione del raccordo delle linee lombardo-ve- nete colle austriache, parla come, direi quasi, un mi- nistro del regno d'Italia non come un italiano del 1846. Importa molto all'Italia aprire al suo commercio sboc- chi sicuri verso la Germania ; per questo interesse ge- nerale si può trascurare il pericolo parziale di agevolare all'Austria i modi di tenere nel suo dominio la Lom- bardia e la Venezia. Quando 1' ora suprema del dominio austriaco in Italia sarà scoccata, non saranno alcuni reg- gimenti portati con maggiore rapidità nella valle del Po, quelli che lo salveranno. E qui il concetto politico si fa maggiormente vivo attraverso le considerazioni econo- miche, anzi da queste acquista un maggiore valore; le ferrovie distruggeranno le barriere tra gli Stati italiani, ridesteranno il sentimento nazionale, lo acuiranno ; non è più questione di congiure, ma di fatti; la nazione sor- gerà dallo svolgimento degl' interessi materiali come dal- l'espansione delle idee, e le armi degli stranieri, come le arti dei tiranni, non la potranno impedire. » Questi concetti che noi abbiamo riuniti in poche righe, sono svolti, ampiamente ed esaurientemente, da Cavour al di- sotto delle considerazioni economiche e tecniche sulle strade ferrate da costruire e delle quali prova l'utilità; esse, oltre ad aumentare la ricchezza materiale del- l'Italia, debbono aiutare lo svolgimento della sua ci- viltà, e concorrere a produrre quella condizione morale CAPITOLO V. 85 dalla quale sorgerà fatalmente l' indipendenza nazionale. E qui Cavour statista, cioè uomo che ha un ideale nella mente e nel cuore, ma ha anche uno squisito senso della realtà, cioè il senso delle cose possibili, piega alla realtà ed entra risolutamente nel giro delle idee prevalenti in quel tempo. Mirabilmente a questo si presta l'argomento stesso che tratta. Perchè si possano costruire le ferrovie occorre il consenso, l'aiuto dei governi; bisogna con- quistarlo per esse come per ogni altro progresso. Non vi .sono in Italia elementi per una rivoluzione democra- tica, né l'Europa la sopporterebbe. Questo .sentono gl'ita- liani, e perciò è rinata, a poco a poco, la fiducia nei principi nazionali, si hanno le riforme e si cammina verso un migliore avvenire, che è la conquista dell'indipen- denza nazionale. Questo bene supremo non può essere conseguito dall'Italia che riunendo in uno slancio di con- cordia gli sforzi di tutti i suoi figli, e l'indipendenza è necessaria perchè, senza di essa, nessuna nazione può progredire, e soprattutto senza di essa le masse popo- lari non possono elevarsi moralmente. « Les classes noìu- breitses qui occupent les positiotis les plus huinbles de la sphère sociale ont besoin de se sentir grandies au point de vue national, pour acquérir la conscience de leur pro- pre dignité. Or celie conscience, notts n^hésitons pas à le dire, dussions-nous choquer quelque publiciste trop rigide, constitue pour les peuples, aiissi bien que pour Ics indi- vidus, un elémeiit essentiel de la nioralité. Ainsi donc, si noiis de'sirons avec tant d'ardeur V cviancipatioti de V Italie, sinous de'claronsque, devant celle grande question, toutes les questions qui pourraient notis diviser doivetit s^ef- facer et tous les ifite'réts particìdiers se taire, c^est non seulement afin de voir notre patrie glorieuse etpuissantc. 86 CAPITOLO V. mais surtotd poter qu^eHe piasse s^élever dans Véchelle de Vintelligcnce et du développcment inorai au niveait des naiions les plus civili sées. » La conquista dell' indipendenza non può essere ope- rata che coli' azione combinata di tutte le forze vive del paese, cioè dai principi nazionali francamente appog- giati da tutti i partiti. Quindi bisogna aggrupparsi in- torno ai troni, qui ont des racines profondes dans le sol nalional, e secondare senza impazienza les dispositions progressives gite manifesient les gotiveriiemenls italiens. Questo è ciò che ha predicato Cesare Balbo nelle Spe- ranze d' Italia cui aderisce pienamente Cavour. L'appello eloquente del Balbo aura fait vibrer plus datine poitrine recouverte des insignes des premières digtiite's de l' État, et il aura reveillé plus d^nn écho panni ceux , qui fidèles aux traditions de leurs ancétres, font du principe de la légitimité la base de leurs croyances politiques. Certa- mente tutti gli sforzi individuali rimarrebbero sterili senza il concorso dei governi nazionali. Ma questo si avrà, perchè nos souverains rassurés suivent leurs tendances naturelles, et chaqiie jour nous les voyons donner de nou- velles preuves de leurs dispositions paternelles et progres- sives. E qui il Cavour cita il Piemonte a prova di queste buone disposizioni dei principi e si fa forte delle riforme di Carlo Alberto: lo svolgimento dato all'istruzione pri- maria, lo stabilimento nell'Università di nuove cattedre per l'insegnamento delle scienze morali e politiche, l'aver permesso che sorgano associazioni per l'incremento delle arti e delle industrie, l'aver intrapreso la costruzione delle strade ferrate, attestent suffisamment que f illustre vionarque qui règne avec tant d^éclat sur ce 7-oyaume est décide à inainte?nr celle politique gloriettse qui, dans le CAPITOLO V. 87 passe, a fait de sa faìnille la première dynastie itah'eniie, et qui doit dans Vavenir V élever encore à de plus haiites destitie'es. E conclude che, più che le riforme amministra- tive, e forse quanto le più larghe concessioni politiche, gioverà la costruzione delle strade ferrate a consolidare la mutua fiducia tra principi e popoli, che è la base d'ogni speranza futura. I governi, costruendo le ferro- vie, mostreranno la loro benevolenza e la loro fiducia nei popoli, questi, grati per un così gran beneficio, sa- ranno persuasi a riporre nei loro sovrani una fede in- tiera, e docili, ma pieni d'ardore, si lasceranno da loro guidare alla conquista dell'indipendenza nazionale. In- somma i vantaggi morali derivanti per l'Italia dall'in- troduzione delle ferrovie, sono superiori ai materiali, pur grandissimi, sono promessa d' un migliore avvenire, e perciò, così chiude, éinpruntant le langage énergique de 31. de Balbo, nous aiinojis à les sìgnaler commc une des prtncipales espe'rances de notre patrie. Osserviamo un po' più da vicino questa esposizione di idee politiche del Cavour. Egli si mette risolutamente, lo abbiamo già detto, tra i riformisti moderati, e precisa- mente gli piace mettersi accanto a Cesare Balbo, l'uomo più stimato del Piemonte e quello che più tra i liberali piemontesi era conosciuto in Italia. Il Balbo è anche quello a cui verosimilmente dovrà ricorrere il Re, quando, rotti gli indugi, vorrà mettersi a capo dell' impresa ita- liana. Concordava in tutto egli col Balbo? No, ma era tra i piemontesi attivi il più vicino a lui nelle idee, o, per meglio dire, quello la cui probabile azione politica poteva eventualmente concordare più colla sua. I\Ia gli si mette accanto, pronto a passargli innanzi, non si col- loca al suo seguito. ss CAPITOLO V. È noto il pensiero del Balbo espresso nelle Speranze d'Italia. Dalla questione d'Oriente l'Italia deve aspettare il conseguimento della sua indipendenza. L'Austria deve essere costretta a cercare un compenso alle provincie italiane che abbandonerà, per forza o per amore, nei territorii balcanici, strappati al dominio turco; intanto i popoli d'Italia si stringano attorno ai principi in at- tesa di quel gran giorno, questi si affezionino con sa- pienti ed eque concessioni i popoli, i quali debbono essere discreti nelle loro richieste ; gli uni e gli altri subordinino i loro desideri!, le loro aspirazioni, le loro volontà e i loro interessi al conseguimento di quello che è il porro iimini necessarmm, l'indipendenza nazionale. E sia il re di Sardegna il capo dell'esercito italiano, la spada d'Italia; dopo ottenuta l' indipendenza, si penserà a ordinare su basi solide la confederazione dei popoli e de- gli Stati della penisola. E sta bene; tutto ciò non è di- scusso anzi è accettato da Cavour, che però non v' insiste troppo. L' indipendenza nazionale sarà ottenuta serven- dosi della questione d'Oriente o con altro mezzo, ciò poco importa, l'importante è di creare le condizioni che, non solo rendano più facile, ma facciano necessaria l'indipen- denza nazionale. La principale di queste condizioni è la comunanza degl'interessi : si rompano le barriere tra Stato e Stato per mezzo delle ferrovie e avremo, come conse- guenza inevitabile, l'unione dei principi e dei popoli per la conquista dell'indipendenza; le ferrovie mettano la parte d'Italia soggetta all'Austria in contatto col mercato internazionale e colle altre regioni della penisola e sarà impossibile allo straniero mantenerle sotto il suo dominio. E, si noti, il Cavour parla di comunanza d' interessi mate- riali e morali, quindi si rivolge più ai popoli che ai prin- CAPITOLO V. 89 cipi, anzi di questi parla in generale, facendo eccezione per uno solo, pel suo re, per Carlo Alberto. Qui sta la dif- ferenza più sostanziale tra il Cavour e il Balbo. Il secondo si rivolge ai principi, il primo ai popoli, questo spera in un'azione politica, quello in una azione popolare, il Balbo si fonda sugli Stati quali sono, fatta eccezione dei du- cati, il Cavour in un movimento dell'opinione pubblica. I seguaci del primo fatalmente dovranno arrestarsi alla confederazione, non potranno arrivare all'unità; il se- condo, invece, non trova ostacoli dinanzi a sé, può ar- rivare dove vuole, dove lo spinge il suo genio, può ap- profittare di tutte le circostanze, di tutte le eventualità favorevoli, non ha bisogno di rinunciare a realizzare quella che si chiama utopia, quando sia possibile con- cretarla nei fatti. L'uno e l'altro si accordano nel considerare Carlo Alberto come capo dell'impresa italiana, ma pel Balbo la monarchia piemontese nella sua espansione ha dei limiti che non potrà oltrepassare, pel Cavour, invece, può arrivare fin dove lo esigeranno i fati d'Italia. Cer- tamente il Cavour in questo studio non si mostra uni- tario, ma neppure le sue idee escludono l'unità, mentre il Balbo, invaso dallo spirito guelfo, la esclude implici- tamente ed esplicitamente. La verità è che Cavour pre- scinde dai postulati della scuola neo-guelfa, da cui invece prende le mosse il Balbo. Egli non parla del Gioberti, come se non esistesse, in un momento in cui il Primato era il vangelo di tutti i liberali italiani. E non ne parla perchè la sua natura positiva lo rende refrattario ad ogni misticismo, ad ogni costruzione ideologica o fan- tastica, per quanto nobile e seducente. Non è giober- tiano, quindi non avrà da fare rinunzie quando il neo- 90 • CAPITOLO V. guelfismo tramonterà nella bufera del 1848 : potrà rima- nere intero nei suoi convincimenti, e dal suo passato trarre gli auspicii sicuri per 1' avvenire. Perciò egli, men- tre gli uomini, che in questa bufera primeggiano, dopo dovranno reagire su sé stessi, mutarsi, rifare il loro credo politico, e perciò anche, almeno per un certo tempo, sentiranno nella loro attività civile e politica quella de- bolezza che deriva negli animi onesti da ogni contrad- dizione; egli, dico, si affermerà più sicuro in mezzo a loro, ben presto al disopra di loro, e apparirà il capo vero, desiderato, invocato, quasi provvidenziale della ri- voluzione liberale-monarchica che sta preparandosi, dopo i disastri e le disillusioni del 1848 e del 1849. 91 Capitolo VI. Cavour, Carlo Alberto e le riforme piemontesi. — IL La fofidazioiie del giornale il Risorgimento, suo programma e suoi collaboratori. — III. // Risorgi- mento e gli altri giornali torinesi. — IV. Cavour chiede le istituzioni 7-appresentative , sue lotte coi democra- tici. — Concessione dello Statuto. — V. Cavour afferma la necessità che lo Statuto sia svolto in senso liberale. — Importanza dei suoi articoli sulla legge elettorale. — Differenza che corre su questo punto tra Cavour e i dottriuarii francesi dai quali scicntificaìnente deriva. — VI. Cavour e le elezioni. — Proposte intorno al re- golamento della Camera. — Concetto politico che le inspira. — VII. Cavour e V indipendenza italiana. — L'ora suprema della Dinastia sabauda. — VIII. Quali sono le idee prificipali che inspirano l'opera di gior- nalista di Cavour. — IX. Proposte di mutametiti allo Statuto fatte da Cavour. — Iviportanza e carattere di queste proposte. — X. Le idee di Cavour intorno alla questione italiana durante la rivoluzioìie . — La que- stione della Savoia. — XI. Come egli giudica la politica delle grandi Potenze europee per rispetto all' Italia. — L' Italia e la Svizzera. — XII. Cavour e il ministero Balbo. — Giudizio intorno al progetto di costituente per V unione al Piemonte delle Provincie Lombardo- Ve- nete. — XIII. / mezzi rivobizionarii nella mente di Cavour. — Polemica col Brofferio. — Differenze tra Cavour e i moderati. — XIV. Riassunto degli argo- tnenti trattati da Cavour nel Risorgimento. — Come nel giornalista si formi e si mostri l'uomo di Stato. 92 CAPITOLO VI. I. Quando il Conte di Cavour scrìsse l'artìcolo, del quale nel precedente capitolo ci siamo occupati, Carlo Alberto aveva data qualche prova positiva di volere abbandonare il vecchio sistema di governo. A questo accenna il Cavour, e, coni' è naturale, dato lo scopo che voleva raggiungere, esagera l' importanza del nuovo in- dirizzo politico, come esagera la fiducia sua personale nel Re. Il fatto è che egli, e lo abbiamo già detto, non aveva ne simpatia, né stima per Carlo Alberto, sentiva per lui come un' istintiva ripugnanza e le tergiversazioni e le contraddizioni del Re erano da lui interpretate si- nistramente, cioè come indizio, non di incertezza di carattere aumentata dalle traversie della vita, ma di mala fede. E per le riforme trovava che si procedeva troppo a rilento e senza mostrare un proposito deter- minato. Anche dopo scritto quell'articolo, egli non na- scondeva la sua opinione, e le sue lettere la mostrano. Nonostante rimane al suo posto e si capisce il perchè. Egli non considera in Carlo Alberto la persona, ma il Re, come istituzione, e nella monarchia sabauda vede una grande forza politica, la quale è necessario aver favorevole perchè, se è contraria, può costituire un ostacolo quasi insuperabile. Il Conte di Cavour non è un legittimista, ma, appunto perchè appartiene a un ceto sociale legittimista, anche nella sua parte più liberale, appunto perchè conosce il Piemonte intima- mente, e conosce l'Italia e l'Europa, capisce che l'in- dipendenza nazionale non si può conquistare che man- CAPITOLO VI. 93 tenendo quell'istituzione che è di per sé una garanzia d'ordine, anzi mettendola a capo dell'impresa italiana. Inoltre egli è partigiano convinto delle riforme e crede necessaria l'introduzione di istituti di libertà, ma, poi- ché della libertà ha un concetto organico, positivo, non puramente formale o retorico, capisce che tanto meglio le istituzioni libere potranno attuarsi in modo più largo e completo, quanto meno allarmeranno i ceti e gli in- teressi conservatori, e perciò è, piìi che utile, necessario che la libertà si svolga in accordo non in contrasto colla monarchia, e precisamente con quella monarchia otto volte secolare che è di per sé, per le sue tradizioni po- litiche e militari, una affermazione vivente dei principii d'ordine e di conservazione sociale. A lui, mente lucida e acuta di statista, non sfugge la complessità del problema italiano, e perciò sente il bisogno d' un ubi consistam per risolverlo. Ciò che sfugge, ad esempio, a Mazzini, mente di filosofo e tem- pra di apostolo, è chiaro per Cavour. L'indipendenza nazionale e la libertà politica e civile sono, lo abbiamo già detto, per Cavour due questioni che debbono essere insieme risolute, anzi delle due la seconda deve prece- dere la prima. Ma questa libertà non si deve conquistare per mezzo d'una rivoluzione violenta, che sarebbe sof- focata dalla reazione interna degli interessi offesi e dalla forza straniera, ma deve sorgere dallo svolgimento pa- cifico delle istituzioni dello Stato, che la pressione legale dell'opinione pubblica deve accelerare e trarre a matu- rità. Principalmente questo svolgimento pacifico si deve avere negli Stati che hanno una ragione secolare di esi- stenza e che possiedono una forza intima loro propria. Quando questi Stati abbiano istituzioni libere, l'impresa 94 CAPITOLO VI. dell' indipendenza nazionale s' imporrà loro necessaria- mente ed essi la potranno compiere con maggiore spe- ranza di riuscita, perchè, non indeboliti da rivoluzioni interne, dagli istituti liberi ricaveranno una forza mag- giore da impiegare utilmente in quell'impresa. Perciò, nonostante l'irritazione che, nella sua anima ardente, producono le incertezze e le esitazioni del go- verno piemontese, nonostante la sua istintiva diflìdenza e ripugnanza per il Re, egli rimane fermo al suo posto; coi mezzi legali bisogna vincere le esitanze, bisogna so- spingere il governo e il Re nella via della libertà e del- l' indipendenza italiana, dimostrando in essi fiducia, rassicurandoli, ma, nello stesso tempo, persuadendoli che non è possibile tornar indietro, che è necessario andar avanti, perchè fermarsi quando tutti camminano equivale a fare appunto dei passi indietro. II. È noto che l' elezione del cardinale Mastai-Ferretti a sommo pontefice fu l'avvenimento che determinò la rivoluzione italiana del 1848, e che questa elezione av- venne, appunto, pochi mesi dopo la pubblicazione fatta da Cavour del suo articolo sulle strade ferrate italiane. Il Cavour, lo abbiamo già detto, non fu mai neo- guelfo e quindi, certamente, non partecipò agli entu- siasmi che quell'elezione, la quale parve avverare l'uto- pia del primato giobertiano, destò in tutta Italia. Ma, se non fu né mai divenne neo-guelfo, capì tutta l'impor- tanza politica di questo movimento, e che era necessario approfittarne, anche per impedire che l'entusiasmo irri- CAPITOLO VI. 95 flessivo lo fuorviasse. Quindi cresce la sua impazienza per le riforme, la sua irritazione per le lentezze del go- verno, e a questo suo stato d'animo si devono quei -momenti di sconforto che ci rivelano le sue lettere e ai quali si è forse data troppa importanza, perchè sono passeggieri e spiegabili in un uomo come Cavour, che vede, capisce quel che si dovrebbe fare, sente il suo valore, e si trova costretto all'inazione. Forse se egli si fosse messo avanti, se avesse profferita l' opera sua al governo, avrebbe potuto ottenere qualche ufficio pub- blico, ma, se questo era il suo desiderio, i suoi prece- denti praticamente ne impedivano l'attuazione. Monar- chico, partigiano delle più larghe riforme, convinto che bisognava stringersi, dimenticando tutto il passato, at- torno al trono, questo sì, ma non poteva andare più in là. Egli non poteva servire il Re assoluto, bensì, poteva, rimanendo libero da ogni vincolo, aiutarlo a migliorare, a riformare lo Stato, a dotarlo, infine, di istituzioni più conformi alla necessità dei tempi. In- vestito d' un ufficio pubblico avrebbe dovuto rinun- ciare a parte delle sue idee, incontrare responsabilità di governo che a lui effettivamente sarebbero sfuggite, e, infine, non avrebbe mai goduta la fiducia piena ed intera del Re ; quindi non avrebbe mai potuto fare ciò che avesse ritenuto utile di fare. Del resto egli vede chiaramente che il governo e il Re non possono più rimanere inerti e indecisi. Le riforme annunciate da Pio IX, quelle già attuate in Toscana, non possono non avere una ripercussione a Torino. E poiché il Re stesso ha mostrato chiaramente le sue intenzioni per rispetto all'Austria, poiché al congresso dell'associa- zione agraria in Casale aveva permesso si leggesse la 96 CAPITOLO VI. sua famosa lettera al Conte di Castagnetto/ invano poi smentita, è evidente che dovrà procedere avanti e non potrà più fermarsi, perchè l'opinione pubblica s'impa- zienta e ogni giorno che passa cresce le sue esigenze. Oh ne peni se re'signer (Cavour scrive nell'ottobre del 1847 al conte Leone Costa di Beauregard) à demeurer en arrière de Rome et de la Toscane, après les dénion- strations qui ont eu lieti à Casal et dans d''autres cir- constances. En effet, il est hnpossible de contimier pen- dant longtemps à faire dti libcralisvie au-delà du Tessin et de vouloir conipriìner toni mouveniefit en de^à de ce fleuve. La politique extérieiire est solidaire de la poli- tigne inte'rienre : un trop fori contraste enti'^elles ne saurait durer longtemps . Tous les hommes de sens, à quelque nuance d'opinioJis qu'ils appartiennent, le sen- tent. Le Rai, lui-méme, en est,je crois, convaincu ; aussi je ne doute pas qn'il travaille à des conce ssions. Mais que sero7it-elles? et comment les accorder-a-t-on? c^est ce que je 7te saurais vous dire. On parie d'une loi sur la presse ; de Vabolition des juridictioìis exceptionnelles et que sais-je e ne or e.... Finalmente il 29 ottobre del 1847, improvvisamente, nella Gazzetta Piemontese furono pubblicate le tanto aspettate riforme, che trasformavano il governo assoluto in governo consultativo e, se non stabilivano la vera e propria libertà di stampa, mutavano l' istituto della censura in modo da permettere, entro certi limiti, la manifestazione delle idee anche in materia politica. ' Ajoutez seulement que si jainais Dieu nous fìt la gràce de pou- voir entrepreiidre une guerre d'indépendance, gite e' est moi seni qui commandera l'artnée, et qu'alors je suis résolu à faire pour la cause Guelphe ce qiic Schaniil fall cantre V iiwnense Empire Russe, CAPITOLO VI. 97 Non era molto, non era nemmeno quanto esigevano i tempi, ma un passo decisivo si era fatto, e Cavour ne approfittò subito per fondare, d'accordo con alcuni amici, un o-iornale : il Risoro-imento. III. Pubblicando gli scritti del Conte di Cavour, noi osser- vavamo : che « una delle prove maggiori della maturità degl'italiani alla vita politica credo che lo storico la troverà nel rigoglioso e splendido svolgimento della loro attività nel campo giornalistico. Non che tutti i giornali del 1S48 siano buoni e attestino sane tendenze; vi sono tra essi i libelli, le sciagurate parodie dei fogliacci de- magoghi francesi, vi fanno capolino qua e là la verbosità insolente e pretensiosa, la leggerezza avventata che im- paccia e può da un momento all'altro creare pericoli scrii; ma nei giornali del 1S4S si manifesta, se li con- sideriamo nel loro complesso, una gran sapienza poli- tica, ed essi contengono tutte le idee buone, serie, al- tamente morali che sorsero e si affermarono in quel tempo in Italia. Tutti, si può dire, gl'italiani che po- poleranno le assemblee rappresentative, che reggeranno il governo della cosa pubblica, che inspireranno poi e modereranno la rivoluzione del 1S59, cominciano dallo scrivere nei giornali. L'allargamento dei freni posti alla stampa, precedette, in generale, le altre riforme più so- stanziali, e perciò quanti v'erano in Italia uomini che si sentissero attratti allo studio delle questioni politiche, non avendo altra via diretta innanzi a sé, prescelsero quella del giornalismo, e della stampa periodica si ser- Cavour. 7 98 CAPITOLO VI. virono come di leva per abbattere gli ultimi resti del- l'assolutismo. Era naturale che il Piemonte desse un largo contingente al giornalismo nel 1848, che in quella regione, più e meglio che nelle altre parti d' Italia, que- sta forma di partecipazione popolare alla vita politica assumesse un aspetto vivace e ben determinato. » Per fondare il giornale Cavour s'accordò con Cesare Balbo e si pose sotto i suoi auspicii. « Mi fo lecito di parteciparti che alcuni fra i più distinti scrittori politici di Torino (così scriveva a un amico), raccoltisi sotto il vessillo di Cesare Balbo, hanno determinato di fondare una società per la pubblicazione di un giornale politico quotidiano. Questo foglio avrà . per mira di propagare le idee esposte da C. Balbo nei molti suoi scritti, ed in particolare nelle Prime parole ai Liguri-Piemontesi , che avrai certamente lette. La di- rezione politica è affidata a Balbo, il quale farà i prin- cipali articoli. Reputo soverchio l'insistere sull'impor- tanza di questa impresa nelle circostanze attuali, nelle quali si hanno a temere le esagerazioni opposte, ove bisognerà combattere a destra e a sinistra. Il paese è moderato, moderatissimo, ma bisogna mantenerlo in queste, a mio senso, ottime disposizioni. » E a W. De la Rive, il 22 novembre : « Je me suis donne beaucoup de peine pour organiser un parti libéral-modéré, capable au besoin de contenir les exagérés, du reste peu nom- breux en Piémont. Nous allons faire paraitre un jour- nal dirige par Balbe, Sainte-Rose et quelques-autres de nos amis » Je tàcherai de modérer la politique étrangère. Ouant à la politique intérieure, je suis certain que je n'aurai aucun effort à faire pour rester dans une ligne sage, le CAPITOLO VI. 99 parti de l'ordre étant, pour le moment, le plus nom- breux. » Il primo numero del giornale conteneva il programma dettato e firmato da Cesare Balbo e si può riassumere in questi capi : I. Indipendenza; II. Unione tra principi e po- poli; III. Progresso nella via delle riforme; IV. Lega dei principi italiani fra se ; V. Forte e ordinata moderazione. Il Cavour ne divenne direttore, estensore in capo ed anche gerente, e ne furono collaboratori, col titolo di membri del comitato di direzione, Alichelangelo Castelli, Filippo Galvagno, Pietro di Santa Rosa, Edoardo Rignon e infine Cesare Balbo col titolo di presidente degli azio- nisti. Come è noto, il Balbo era allora il capo del par- tito liberale-moderato, riconosciuto per tale universal- mente, godeva di un'autorità morale e di un' importanza sociale allora molto superiore agli altri collaboratori ; il Castelli era conosciuto per avere pubblicato nel giugno un opuscolo col titolo : Saggio di un'' opinione moderata in Italia, e doveva divenire l' intimo amico del Cavour che per lai non aveva segreti. Fin d'allora la loro ami- cizia era salda perchè derivata da un nobilissimo atto del Castelli stesso pel quale il Conte gli conservò sempre un'immensa gratitudine;^ il Galvagno, avvocato illustre ' Abbiamo già accennato alle lotte che il Cavour dovette soste- nere neir associazione agraria contro i cosidetti democratici, capi il Valerio e il Brofierio. Ora, poco dopo la promulgazione delle riforme, in una seduta di questa associazione, quando egli cominciò a parlare, i soci presenti, quasi tutti di parte democratica, abbandonarono la sala. Il Castelli (narra il Chiala) arrossendo della condotta dei colleghi ri- mase nella sala, accostossi al derelitto, col quale non aveva avuto sin qui consuetudine, e gli porse !a mano. Il Conte di Cavour strinse com- mosso la mano del Castelli, dicendogli : « La ringrazio di aver fede in me ; col tempo farò vedere a questi signori eh' iti non sono quello che essi immaginano. » 100 CAPITOLO VI. allora, doveva poi divenire deputato, senatore e mini- stro, fido seguace del Conte di Cavour, sebbene non ne potesse sempre accettare tutte le idee, troppo, per lui moderatissimo, rivoluzionarie. Amico intimo a Cavour era Pietro di Santa Rosa, congiunto all' illustre martire del 1821, e che fu poi deputato e ministro e morì senza i conforti religiosi, perchè, avendo votato la legge abo- litiva del fòro ecclesiastico, l'intolleranza fanatica di monsignor Fransoni ne lo ritenne indegno. Ma, come era facile prevedere, ben presto il Conte di Cavour impersonò, per così dire, il giornale e i suoi collaboratori subirono il suo impulso e la sua inspira- zione. Appena avuta in mano 1' arma potente della stampa, egli l' indirizzò alla mèta che voleva raggiun- gere e che gli appariva chiara nella mente. Ascritto alla parte moderata, egli intendeva la moderazione in politica nel suo senso vero, cioè non come timidezza o repugnanza dalle innovazioni utili e buone, ma come retto giudizio nel chiederle e nell' attuarle. Modera- zione, secondo lui, era audacia sapiente, non avven- tata e temeraria. Chiedere, volere ciò che si poteva ottenere senza pericolo di perdere ciò che s'era gua- dagnato, ecco il suo programma. Perciò, principalmente per mezzo del suo giornale, egli indirizzò tutti gli sforzi a far uscire il paese dal cerchio delle riforme, per en- trare risolutamente in quello della libertà politica e ci- vile. Le riforme non lo appagano più, appena le ha ottenute, bisogna andare avanti, arrivare alle istituzioni rappresentative ; bisogna che il Re dia una costituzione al suo popolo e che questa abbia il più largo svolgi- mento, se si vuole padroneggiare la rivoluzione che minaccia e non esserne travolti. CAPITOLO VI. Fino alla costituzione rappresentativa arrivavano ab- bastanza volentieri i suoi amici, benché forse alcuni la ritenessero prematura, ma quando si tratterà di svol- gerla in tutte le sue conseguenze parecchi di essi si ar- resteranno paurosi, e allora Cavour li abbandonerà. Ma non anticipiamo gli avvenimenti. IV. Il Risorghìicnto, per i componenti la sua redazione, appariva organo dell'aristocrazia, cioè di quella parte dell'aristocrazia che era avversa all'assolutismo, e va- gheggiava istituzioni rappresentative. E in un certo senso questo era vero. Cavour, Balbo, D'Azeglio, Rignon, Santa Rosa e molti altri avevano un' idea chiara delle isti- tuzioni rappresentative che avevano studiate in Francia e alcuni, specialmente Cavour, anche in Inghilterra; e in questo sopravanzavano i così detti democratici, i quali, infatuati del vacuo dottrinarismo radicale francese, osten- tavano disprezzo pel sistema rappresentativo, temendo che esso mantenesse, sotto altra forma, quel predominio dell'aristocrazia contro cui la loro invidia borghese si scagliava da tanti anni. Questi democratici, di cui una parte aveva per organo la Concordia, fondata contem- poraneamente al Risorgimento dai fratelli Valerio, e l'al- tra parte più accesa aderiva al BrofFerio e aveva per organo il Dlessaggiero torinese, non capivano che le istituzioni rappresentative, comunque date e sotto qua- lunque forma, erano una conquista preziosa, della quale tutte le classi, e specialmente la classe borghese, si sa- rebbero giovate, e non capivano questo perchè la loro CAPITOLO VI. cultura era essenzialmente curiale, e in politica non usciva dalla vacua e tronfia verbosità dei radicali francesi del tempo di Luigi Filippo, e perciò su di loro molto potevano i rancori lungamente accumulati, le piccole am- bizioni sopite contro il ceto privilegiato, che considera- vano come formante un tutt' uno, animato dalle mede- sime idee e infatuato dei medesimi pregiudizii. Anzi contro gli aristocratici liberali erano maggiormente ir- ritati perchè ne avevano paura, temendo che, per la loro alta posizione sociale e la loro influenza sulle classi po- polari, impedissero alla classe media di prevalere nei futuri mutamenti dello Stato. Nel qual timore, per ciò che concerne il Cavour, non s' ingannavano, ma la su- periorità di questo non era dovuta all'essere egli nobile, ma ad una ragione più intima e più personale, cioè al- l'avere egli quel genio politico che ad essi mancava completamente. Questi democratici, inoltre, mostrandosi oppositori o tiepidi fautori delle istituzioni rappresentative, sape- vano, come si è già in un capitolo precedente accen- nato, di far cosa grata al Re, e ciò ai democratici non è mai dispiaciuto, e, per di più, allontanando l'attua- zione delle istituzioni stesse, potevano più facilmente rimanere nelle nuvole dell'ideologia politica, non erano obbligati a concretare le loro idee in modo positivo, e quindi era loro permesso di seguitare a parlare di ri- voluzione, di costituente, di democrazia, di rivendica- zioni popolari, ec, senza incontrare responsabilità di sorta. Ed era precisamente questo che non voleva Cavour ed, infiammati da lui, non volevano i suoi che mette- vano capo al Risor'giì)ieìito. Il Cavour capiva che il nio- CAPITOLO VI. 103 vimento liberale e nazionale era irresistibile, che, se non si voleva trascendesse in modo da mettere in pericolo la compagine dello Stato indebolendolo, o si perdesse mi- seramente nel retoricume dei partiti avanzati che avrebbe suscitata la reazione all'interno e all'estero e compro- messa miseramente l'impresa italiana, bisognava rego- larlo, indirizzarlo, dargli una forma determinata e legale; cioè concretarlo nelle forme rappresentative. Perciò, ap- pena gli si presenta l'occasione, egli nel Risorgimento comincia ad accennare in modo chiaro alle istituzioni libere. Scoppiano tumulti a Genova, si chiede 1' espul- sione dei Gesuiti, una deputazione di genovesi è inviata a Torino per presentare una supplica al Re chiedendo appunto quest'espulsione e l'istituzione d'una milizia cittadina per la garanzia dell'ordine pubblico, ed egli scrive un articolo per mostrare che non basta la stampa a mantenere la concordia tra governanti e governati, a impedire che sorgano malintesi e da questi nuove agi- tazioni. « L' opinione pubblica avendo per unico reggi- tore il giornalismo, non camminerà a lungo nella retta via, sarà tratta spesso in errore, traviata da illusioni, spinta a pericolose esagerazioni Le esagerazioni, gli errori, e, diciamolo pure, le ingiustizie stesse della stampa non possono essere combattute, rettificate, rijjarate, se non dalla voce potente degli uomini di Stato, degli uo- mini politici, che pongono in chiara luce i fatti e ogni loro appartenenza. » E, dopo aver detto che non dubita delle buone e rette intenzioni e del patriottismo dei giornali e dei gior- nalisti, aggiunge: « Nondimeno crediamo che né essi, né noi possiamo soli costituire una sana e in ogni parte il- luminata opinione pubblica; non ci teniamo da tanto da I04 CAPITOLO VI. fare noi soli 1' educazione politica dei nostri concittadini. A compierla è indispensabile che il pubblico conosca i dibattimenti delle grandi questioni politiche. » Si vede chiaramente dove mira il Cavour, né i lettori allora s'ingannarono, per quanto l'articolo concluda chie- dendo solamente, sull'esempio della Consulta di Stato convocata a Roma da Pio IX, la pubblicità delle discus- sioni del Consiglio di Stato « bastantemente allargato per esercitare sull'opinione pubblica e il sentimento del paese una benefica e potente influenza. » E questa con- clusione così modesta una concessione molto probabil- mente fatta alla censura, la quale, sebbene mitigata, vi- geva pur sempre, e, in ogni modo, è evidente il contrasto tra essa e il contenuto dell'articolo; inoltre sappiamo che non corrispondeva alle idee dell'autore e all'azione che egli proprio in quei giorni spiegava, come diremo più avanti. Il 4 di febbraio, appena giunto, cioè, l'an- nuncio che il Re delle due Sicilie aveva concesso una co- stituzione rappresentativa ai suoi popoli, Cavour torna a insistere sull'argomento. Egli dice che il Regno di Na- poli era la parte d'Italia che piìi aveva sofferto e soffriva di male signorie succedutesi nei secoli. « Epperciò ve- diamo senza invidia la Provvidenza concederle, qual giu- sto compenso, la gloria di essere il primo fra i nostri popoli a cui sia dato godere nella sua pienezza i be- nefizii d'un libero reggimento. Dopo i maggiori dolori le gioie maggiori. » E poiché molti allora dicevano che dalla concessione di istituzioni libere sarebbero nati tu- multi e discordie, sarebbe messa in pericolo l'esistenza delle monarchie stesse e si citavano gli esempii della rivoluzione inglese e della francese, il Cavour sente, da abile avvocato, il bisogno di combattere questi timori CAPITOLO VI. 105 chiarendoli infondati, con ragionamenti e deduzioni sto- riche, che in qualche parte rivelano la preoccupazione dell'autore. Egli dice che la rivoluzione inglese non sarebbe stata così violenta se a invelenirla non fosse intervenuto il sentimento religioso, cioè se Carlo I e i suoi successori Stuart avessero sinceramente abbracciato il protestantesimo. Ma in Italia, aggiunge, « la Dio mercè, non sono, non possono esistere, nonché guerra, contra- sti reali fra la religione, chi l'amministra e lo spirito di libertà.... Fra i più zelanti, fra i più sinceri fautori della causa italiana, noi possiamo con vanto annoverare la parte più numerosa, più influente della nobile schiera dei ministri dell' altare. Onde dobbiamo ascrivere ad im- mensa fortuna l'avere a collaboratrice ardente all'opera del nostro risorgimento quella classe poderosa che fu quasi dovunque più costantemente avversa ai progressi politici. » Se la rivoluzione francese è stata così sangui- nosa, ciò dipese dall'essere essa, più che politica, so- ciale. Doveva combattere nemici terribili e andò oltre il segno, riuscendo però sempre a « stabiHre sopra basi inconcusse, non solo in Francia, ma in molte parti d'Eu- ropa il gran principio delle società moderne, l'eguaglianza civile, le libertà costituzionali. » Le condizioni d'Italia sono diverse perchè quella « rivoluzione sociale operata dalla costituente francese è già fatta da noi da lungo tempo. » In Italia non si tratta « che di ottenere che quelle le quali, a torto forse, si chiamarono testé classi privile- giate, scambino i vecchi pregiudizii e le distinzioni im- maginarie di cui si credevano fregiate coi beneficii reali e stabili che gli ordini nuovi conferiscono a tutti i cit- tadini. Ad operare questo cambiamento non si richieg- Io6 CAPITOLO VI. gono misure violenti; basta l'azione regolare e benefica delle nuove istituzioni politiche. » E neppure contro que- ste istituzioni si può citare 1' esempio della Spagna, per- dio non vi è in Italia un partito come il carlista nemico d'ogni progresso, « non esiste da noi che un solo par- tito il quale possegga vera potenza, il partito nazionale, le cui mire tendono a conciliare la stabilità dei troni collo svolgimento delle costituzioni liberali. » Poi il po- polo italiano è ben più illuminato e colto, ben più pre- parato alla vita politica del popolo spagnolo. « Le idee di libertà hanno messo fra noi salde radici nel secolo passato; i principii d'eguaglianza civile, base degli or- dini nuovi, sono stati consacrati nei tempi della rivolu- zione francese e da oltre trent' anni noi ci educhiamo alla vita pubblica, collo studio assiduo degli eventi che succedono fra le nazioni le più inoltrate nelle vie della civiltà, col seguitare attenti le grandi lezioni che si ban- discono dalle tribune dell'Inghilterra e della Francia. Si dileguino adunque i vani timori dei sinceri, ma timidi amici del progresso; mettano essi, come noi, fede intera nei destini d'Italia. » E torna ad insistere su questi con- cetti, spiegandoli maggiormente, e, certo per diminuire o vincere gli scrupoli del Re, batte e ribatte suU' italia- nità del clero e sul liberalismo di Pio IX e conclude : « Se non che a dar valido fondamento a queste nostre speranze, a mutarle in certezza per tutti gli uomini di sano criterio e di buona fede, più d'ogni altra cosa con- tribuisce la illimitata fiducia che abbiamo nella virtù, nei lumi e nei generosi sensi dei nostri principi. L'Italia con- fida in essi. Roma, Firenze, Torino sono certe che Pio, Leopoldo e Carlo Alberto, magnanimi iniziatori del ri- sorgimento italiano, sapranno condurre a compimento CAPITOLO VI. 107 la gloriosa ed impareggiabile loro impresa, fondando su ferme e profonde basi il più splendido edificio dei tempi moderni, la libertà italiana. » Il 7 febbraio torna con maggiore forza e determina- tezza di concetti sul medesimo argomento ; tutti in Pie- monte, dopo che il Re di Napoli ha dato una costitu- zione rappresentativa, dopo che uguale costituzione ha promesso il Granduca di Toscana, pensano che non potrà rimanere addietro Carlo Alberto, ma, poiché si conosce la repugnanza del Re, apertamente molti si limitano a chiedere la guardia cittadina, come concessione da ag- giungere alle altre già ottenute. Cavour esprime netta- mente il suo parere in proposito. Carlo Alberto ha ope- rato saggiamente ad avanzare per gradi nelle riforme, ma il rapido incalzare degli avvenimenti esige che si proceda con maggiore speditezza e si percorra d'un tratto quella strada che in altre circostanze si sarebbe potuta percorrere più adagio : « noi non dubitiamo di pro- clamare che, se prima della promulgazione della costitu- zione napoletana, la sola istituzione della guardia citta- dina doveva considerarsi qual regolare svolgimento del sistema adottato dopo le riforme, epperciò qual atto di sovrana sapienza, ora, disgiunta dalle istituzioni delibe- rative, non sarebbe che una concessione inefficace e fors' anco pericolosa.... Il crearsi d'un parlamento a Na- poli, a Firenze, fra popoli, i quali, con più o meno di fondamento, sono riputati in Europa meno preparati di noi alla vita costituzionale, toglie agli argomenti che si mettevano in campo intorno alla necessità d'un' epoca di transizione, ogni specie di valore. E impossibile ora- mai sostenere, in buona fede e seriamente, che i liguri- piemontesi non sieno preparati a ricevere istituzioni che loS CAPITOLO VI. son giudicate opportune a Napoli e in Toscana. L' im- pulso, della Provvidenza rende necessariamente velocis- simo quel moto di progressivo svolgimento ideato dalla vigorosa e benefica mente che ci governa. Il sistema di transizione, ottimo in tempi tranquilli, torna nei procel- losi inopportuno quando non arreca impensati pericoli.» E, dopo aver detto che sarà impossibile frenare l'opinione pubblica quando siano aperti parlamenti a Napoli e a Firenze, ricorda quanto già disse a proposito della inef- ficacia della sola libertà di stampa, osserva che sbagliano coloro i quali credono che basterà a contenere l'effer- vescenza popolare la guardia cittadina ed esclama : « De- plorabile errore 1 Precisamente le classi che compongono le guardie cittadine saranno le prime a sentire l' influenza della libertà napoletana. » E perciò « noi non potremmo senza grave apprensione vedere il paese nostro privo d'istituzioni deliberative, essere armato al cospetto delle tribune italiane, di Napoli, Firenze e, forse fra non molto, di quelle di Roma se piaccia a Dio. » Conclude dicendo che nessun uomo di Stato può disconoscere i pericoli d'una tale condizione di cose, ed esprimendo la fiducia che il Re « dopo avere per tanti anni sapientemente gui- dati i suoi popoli nel procelloso mare del progresso, li condurrà sicuri nel porto da lungo tempo dalla sua sapienza apparecchiato, ove egli, trovando quell'alto, incomparabile godimento di aver ordinato a pacifiche, indestruttibili libertà i popoli suoi, terrà un posto emi- nente tra i più grandi monarchi d'Europa. » Ma, non solo nel Risorgimento , bensì anche coll'at- tività di cittadino il Cavour sollecitava la concessione delle istituzioni rappresentative. In una riunione tenuta quando la deputazione genovese giungeva per chiedere CAPITOLO VI. 109 al Re l'espulsione dei Gesuiti e la concessione di una guardia civica, Cavour, associandosi alla proposta di ap- poggiare la domanda dei genov^esi, dichiarò (narra il Santa Rosa in una lettera al Gioberti scritta proprio in quei giorni) « che si doveva volere di più e che, poiché si trattava di inoltrare una dimanda al Re in un modo che certo non era illegale, il pericolo della patria vo- leva che si ponesse in avvertenza il governo di contem- plare se non fosse il caso di dare una legge orgamca che appoggiando a forine parlamentari la propria auto- rità la rassodasse e la rendesse inallevadrice dei voti della nazione. » Lorenzo Valerio, uno dei capi democra- tici, combattè acerbamente la proposta, dimostrandola inopportuna, pericolosa, tale da indisporre il Re e, infine, cotrastante col fine speciale pel quale era stata convo- cata la riunione. La discussione si accese, i conservatori timorosi d'entrare nella via dove Cavour voleva spin- gerli e i democratici eccitati dai loro capi, meno il Brofiferio, si unirono; si votò, ciononostante, una riso- luzione analoga alla proposta fatta da Cavour, ma, poi- ché la maggioranza era debole, fu perduto l' effetto morale che se ne sperava. Il giorno dopo questa mag- gioranza si radunò in casa di Roberto D'Azeglio, e stava per deliberare d' inviare la proposta votata la sera pre- cedente al Re, nonostante che avesse rifiutato di ricevere la deputazione genovese, anzi l'avesse fatta invitare a lasciareTorino, quando, sopraggiunti alcuni democratici, tra cui il Valerio e il Sineo, sollevarono una cosi tem- pestosa discussione da render necessario lo scioglimento dell'adunanza. Di queste riunioni si fece un gran parlare in Torino, e Cavour, dagli assolutisti come dai demo- cratici, fu dipinto al Re come quello che vi aveva tenuto CAPITOLO VI. discorsi addirittura sediziosi, della qual cosa egli, appel- landosi alla buona fede degli adunati, riuscì a giustifi- carsi. La proposta da lui fatta naufragò nel modo che abbiamo detto, ma gli avvenimenti dovevano dargli ra- gione. Poco meno d'un mese dopo queste riunioni, il 5 febbraio, il corpo decurionale della città di Torino, su proposta del Santa Rosa, intimo amico del Cavour e redattore con lui del Risorginiento , invano oppugnante il Sineo redattore della Concordia e intimo del \'alerio, deliberò di chiedere al Re, oltre che la guardia civica, anche vere e proprie istituzioni rappresentative. L'8 feb- braio, finalmente, vinte le ultime esitanze e gli scrupoli specialmente religiosi che lo avevano fino allora tratte- nuto, Carlo Alberto autorizzava la pubblicazione del manifesto annunziante lo Statuto e le sue linee princi- pali. Cavour aveva vinto, Mylord Camillo, l'uomo più reazionario del Regno, come nella sua invidia boriosa di borghese curiale amava chiamarlo il Valerio, era riu- scito nello scopo che s'era prefisso, il Piemonte aveva quelle istituzioni rajopresentative, attorno alle quali e per le quali doveva farsi l'Italia. V. Tra le ragioni clie accampavano i democratici con- tro le insistenze di Cavour per ottenere una costituzione rappresentativa, era il timore che essa fosse (come dice il De la Rive riproducendo le parole del Valerio) « quel- que con.stitution à l'anglaise, avec un cens électoral, peut-étre avec une Chambre des pairs et tout un attirali aristocratique. » E aggiungevano, sempre secondo il CAPITOLO VI. De la Rive, « d'ailleurs, si libérale qu'elle fùt, une constitution aiijourd'hui nous serait non-seulement inu- tile, mais nuisible, elle limiterait nos droits, nos pro- grès; elle déplacerait le centre d'action, elle étoufìerait les aspirations du peuple et entraverait la marche de la revolution. » Era appunto per questo, o, per meglio dire, non per cntraver, ma per regolare la rivoluzione assicurandone i risultati che Cavour aveva voluto lo Statuto. Che poi, quando fu concesso, esso fosse tale da determinare e proteggere tutti i diritti del popolo e da stabilire legalmente, pel bene di tutti, non di una sola classe, la libertà politica e civile, egli prese a di- mostrarlo nel Risorghìiento. In un articolo pubblicato il IO marzo osserva che lo Statuto racchiude « tutti i più grandi principii delle libere costituzioni, ch'esso con- sacra fra noi tutti i diritti di cui godono le nazioni più incivilite. » Infatti lo Statuto introduce il principio elet- tivo in tutte le parti dell'edificio sociale, tutte le istitu- zioni politiche e amministrative «saranno d'ora in avanti figlie dell'elezione; » inoltre circoscrive l'azione del po- tere esecutivo «in giusti e severi limiti, in modo da non potersi più oltre restringere, senza indebolire soverchia- mente la forza governativa, ciò che sarebbe contrario all'indole delle società moderne europee, e funesto al nostro paese che si trova a formare l'avanguardia del- l' Italia al cospetto dello straniero. » Infine sono assicu- rate l'indipendenza del potere giudiziario, la libertà della stampa, la libertà individuale, il principio dell' egua- glianza civile; se non è pienamente riconosciuta la libertà dei culti, ciò è più questione di parole che di fatti. Si dice che fu male conservare i titoli nobiliari e gli ordini cavallereschi, anche che questo fosse stato un errore. 112 CAPITOLO VI. sarebbe minimo. « Che cosa sono alcuni vani titoli che non conferiscono né privilegi, né vantaggi in confronto dei diritti cittadini che abbiamo acquistati ? Oramai la qualità di deputato, che dico, di semplice elettore, ha un pregio assai maggiore agli occhi d'ogni uomo assennato, di qualunque distinzione gentilizia. » Si critica anche lo Statuto perchè non contiene minute disposizioni intorno ai diritti civili e politici e all' azione dello Stato. « È questo errore gravissimo. Uno Statuto organico deve racchiudere, a senso nostro, i principii fondamentali della costituzione e nulla più. » Attendano gli avver- sarli le leggi speciali, specialmente la legge elettorale, e vedranno come le loro critiche siano infondate. Da ultimo risponde a coloro che interpretano la frase che dichiara lo Statuto legge fondamentale e irrevocabile della monarchia, nel senso che impedisca nell'avvenire ogni mutamento, ogni progresso. Questa interpretazione è assurda e non poteva venire concepita da nessuno di coloro che elaborarono lo Statuto. « Una nazione non può spogliarsi della facoltà di mutare con mezzi legali le sue leggi politiche. Non può, menomamente, in alcun modo abdicare il potere costituente. Questo, nelle mo- narchie assolute, è riposto nel sovrano legittimo; nelle monarchie costituzionali il parlamento, cioè il Re e le due Camere, ne sono pienamente investiti. » E aggiunge con maggiore forza : « Sì, noi consideriamo il patto che sanziona lo Statuto come legge irrevocabile, che non potrebbe venir violata, senza farci spergiuri e colpevoli della più mostruosa ingratitudine. Ma ciò non vuol dire che le condizioni particolari del patto non siano suscet- tibili di progressivi miglioramenti operati di comun ac- cordo tra le parti contraenti. Il Re, col concorso della CAPITOLO VI. 113 nazione, potrà sempre nell' avvenire introdurre in uso tutti i cambiamenti che saranno indicati dalla esperienza e dalla ragione dei tempi. Ma se un tale potere sta nel parlamento da noi dichiarato onnipotente, il Re solo non lo possiede più. Un ministro che gli consigliasse di farne uso, senza consultare la nazione, violerebbe i principii costituzionali, incorrerebbe nella più grave responsabi- lità. » Da ciò si vede il modo netto e preciso ed anche eminentemente liberale nel quale egli considera lo Sta- tuto. È esso una legge fondamentale, che pone dei prin- cipii, ma presuppone degli svolgimenti secondo le con- dizioni dei tempi ; non vi può mai essere contrasto insanabile tra le esigenze progressive e il patto fonda- mentale, tra la monarchia, la Hbertà e l' interesse e il bene del popolo. Questo svolgimento dei principii statutari! egli per- segue assiduamente, da prima, coll'opera di giornalista; poi nel fatto dimostrerà coll'opera sua di statista, che la monarchia costituzionale non solo non contrasta, ma aiuta e garantisce ogni progresso, è capace d'ogni au- dacia rivoluzionaria. Nominato a far parte della commissione incaricata di preparare la legge elettorale, egli contribuisce poten- temente a che essa acquisti un carattere, compatibil- mente colle idee del tempo, democratico, e rappresenti, in confronto colle leggi dei principali Stati europei, un progresso in questo senso. Non conosciamo i verbali dei lavori di questa commissione, ma le opinioni di Ca- vour sono note, perchè egli stesso ebbe cura di esporle in cinque articoli del Risorgimento, quasi commentando e spiegando la legge. Egli comincia dal combattere dif- fusamente l'opinione di quelli che avrebbero voluto fare Cavour. 8 114 CAPITOLO VI. eleggere l'assemblea nazionale dai corpi municipali, so- stenendo che questo sistema corromperebbe i comuni e il parlamento, e sarebbe contrario insieme agi' interessi dei primi e a quelli dello Stato. Si diffonde in tutto il primo articolo sull'argomento, perchè sapeva che molti in Piemonte erano, tra i conservatori e gli uomini di Corte, i partigiani di questo sistema che pareva desse maggiori garanzie ai timorosi delle novità. Ed anche combatte l'opinione di coloro che vorrebbero confuso insieme il suffragio politico e l'amministrativo, ponendo come base al politico il censo che si paga per essere elettori nei comuni più piccoli; questo equivarrebbe, secondo lui, a stabilire nella pratica il suffragio univer- sale, sistema caro ai partiti estremi d'ogni colore. Per lui, così dice nel secondo articolo, il gran pro- blema che deve risolvere una legge elettorale « si è di costituire un'assemblea che rappresenti, quanto più esattamente e sinceramente sia possibile, gl'interessi veri, le opinioni e i sentimenti legittimi della nazione; e che perciò sia composta di cittadini atti al difficile in- carico e nello stesso tempo dotati di sufficiente scienza e moralità per cooperare utilmente alla confezione delle leggi e al governo del paese. » Questo di Cavour, come si vede, è un criterio posi- tivo, non dottrinario; egli mira allo scopo, alla finalità vera del sistema rappresentativo, come d'ogni altro si- stema di governo, quello di chiamare a reggere lo Stato i più idonei, i più capaci, intendendo per più idonei e più capaci quelli che, più e meglio in determinate con- dizioni sociali, danno garanzia di tutelare e far prevalere gl'interessi del paese. E, appunto seguendo questo cri- terio, dopo essersi per ragioni d'opportunità dichiarato CAPITOLO VI. 115 favorevole al voto segreto, egli tratta delle principali questioni elettorali invertendo l'ordine comunemente te- nuto e cioè egli studia : i" di quanti membri debba comporsi l'assemblea; 2° qual modo di elezione debba adottarsi e quali norme seguirsi nel disegnare le circoscrizioni elettorali ; 30 a quali categorie di cittadini debbansi affidare i diritti elettorali ; 40 le condizioni di eleggibilità ; 5" la durata della legislatura ed il modo con cui debba rinnovarsi. Sul primo punto egli si dichiara fautore di un'as- semblea numerosa e ciò « sia per l'influenza che il nu- mero può avere sulla scelta delle persone ond'è com- posta, sia per le funzioni cui è chiamata ad esercitare. » Il lavoro delle assemblee deliberative nelle società mo- derne è enormemente cresciuto pel rapido svolgimento assunto dagl'interessi materiali, intellettuali e morali e dall' allargamento dell' azione legislativa consegue « che la Camera dei deputati deve accogliere nel suo seno buon numero d' uomini speciali, atti a trattare sufficientemente le molte e varie materie, che debbono essere sottoposte alle sue deliberazioni.... Un simile concorso di forze, di lumi, di speciali attitudini non è sperabile che in una Camera numerosa; se il numero dei deputati è ristretto, la Camera sarà di necessità quasi esclusivamente com- posta di uomini politici, e non vi sarà luogo per quegli altri pivi operosi che eloquenti, più profondi che bril- lanti, i quali sì efficacemente contribuiscono al buon go- verno del paese e alla confezione di savie leggi. » Poi osserva che sorgeranno varii partiti politici, diretti da uomini « di opinioni decise, di spiriti ardenti, di volontà Il6 CAPITOLO VI. determinata, » ma se questi uomini fossero in numero sovrabbondante, ne verrebbero perturbazioni pericolose e inevitabili nell'assemblea. Importa pel buon andamento dello Stato che nella Camera « si trovino in gran numero uomini di mente pacata, di spiriti pratici, utili a tutte le parti, senza il concorso dei quali riesce sommamente difficile, per non dire impossibile, il reggere a lungo un governo entro le sue vie naturali. » E cita a questo proposito l'esem- pio del Belgio dove, per essere la Camera dei rappre- sentanti assai ristretta, fu per molti anni divisa in nu- mero quasi eguale tra due partiti estremi e violenti, con gravi inconvenienti che né la sapiente moderazione del Re, né il buon senso della nazione riuscivano ad elimi- nare. Inoltre un'assemblea numerosa sarà meno facil- mente corrotta dal governo e avrà maggior forza per resistere alle passioni popolari ; per di più permetterà che si possa ammettere ad assistere alle discussioni un mag- gior numero di persone, e questo è importante perchè « le scuole più atte a formare uomini politici sono certamente i pubblici dibattimenti delle Camere legislative.» Insom- ma se è « forza ridurre nei paesi meno vasti il numero dei deputati adottato dalle grandi nazioni, la riduzione non dovrà operarsi in ragione geometrica, le proporzioni dovendo esserne molto minori. » Perciò, pur ammettendo che il fissare una cifra è necessariamente arbitrario, egli finisce per proporre un numero intermedio tra quello dei componenti la Camera francese che è di 452 e quello dei componenti la Camera belga che é di 95 e, cioè, un numero che s'avvicini, per quanto è possibile, ai 200. Per ciò che concerne le circoscrizioni elettorali, egli esclude il suffragio a due gradi, implicitamente ripudiato CAPITOLO VI. 117 dallo Statuto, e si dichiara contrario allo scrutinio di lista e favorevole al collegio uninominale. Egli non discono- sce i vantaggi del primo, ma non gli sembra accetta- bile perchè impedisce le minoranze, rende meno sincere le elezioni dando quasi sempre luogo « a negoziati, a convenzioni, a transazioni che nuociono non meno alla dignità che alla verità loro. » Inoltre complica le opera- zioni elettorali e rende più malagevole agli elettori l'eser- cizio del diritto di voto. Nel sistema uninominale v'è certamente il difetto di dare influenza soverchia agi' in- teressi locali « cioè di far scegliere deputati disposti al- cune volte a sacrificare le grandi alle piccole cose. » Ma oltre che questo difetto può venir diminuito dal continuo accrescersi delle relazioni morali e materiali delle varie parti dello Stato tra loro, il che renderà fino a un certo punto uniformi e solidali gì' interessi delle varie località, il sistema in sé stesso presenta grandi vantaggi. Avvicinando il candidato all' elettore, permette a que- sto di determinare il suo giudizio meglio che se dovesse pronunziarsi fra individui che non conosce. Perciò il me- rito individuale, le qualità personali dei candidati eser- citeranno un'influenza maggiore che non nel primo si- stema. Questo argomento ha molto peso per Cavour « giacché se è desiderabile che l' opinione dei deputati corrisponda a quella degli elettori, è più desiderabile ancora che la scelta di questi cada su persone di cono- sciuta moralità, di provata devozione al bene pubblico; e reputiamo di molto preferibile che la Camera annoveri alcuni uomini politici di meno, ma la sua maggiorità sia composta di tali, sul carattere dei quali gli elettori possano facilmente portare un sicuro giudizio. » IlS CAPITOLO VI. Viene poi a parlare delle condizioni che si debbono richiedere per 1' esercizio del diritto d' eleggere i depu- tati, e comincia dall' escludere il suffragio universale, pur riconoscendo « che 1' estensione dei diritti elettorali è per se stessa un bene di non poco momento, indi- pendentemente dall'azione che esercita sulla scelta dei deputati. » « Le funzioni elettorali, egli prosegue, costituiscono una specie di magistratura temporanea, che onora ai loro proprii occhi coloro che ne sono investiti, e svolge nei loro animi quel sentimento di dignità personale che è una delle basi essenziali delle società rette da un giusto principio di libertà. » Perciò si deve conferire il diritto elettorale a tutti quelli che riuniscono sufficienti condi- zioni per esercitarlo rettamente. Queste condizioni, se- condo Cavour, sono tre : i° indipendenza contro le troppo facili seduzioni delle fazioni o del governo ; 2° intelli- genza, cioè cognizioni sufficienti per poter giudicare dei candidati; 3" interesse al mantenimento dell' ordine so- ciale. Queste condizioni sono presumibilmente possedute da quelli che hanno « o un capitale reale o mezzi intel- lettuali che ad esse possano corrispondere, » ma la dif- ficoltà consiste nel determinare il capitale da cui far di- pendere l'esercizio dei diritti elettorali e come lo si possa riconoscere. Egli osserva che non si poteva adottare il criterio inglese del valore della casa da ciascuno occupata perchè in Piemonte le case erano vaste comprendendo moltissimi inquilini, e, poiché non esisteva neppure una tassa sui redditi e i capitali, bisognava ricorrere per sta- bilire i diritti elettorali alle indicazioni del censo e a certe qualità e distinzioni che indicano una acquistata capacità. IMa il censo non era uniforme in tutto lo Stato, CAPITOLO VI. 119 anzi tra provincia e provincia, e tra luogo e luogo nella stessa provincia, e quindi sarebbe stato necessario adot- tare un criterio diverso nei singoli collegi. Il Cavour augura e spera che questo inconveniente sarà tolto colla forma- zione d'un nuovo catasto, e quindi sostiene che si po- teva adottare il criterio dell'uniformità, con tempera- menti transitori, quale sarebbe ad esempio il fissare in ciascun collegio un numero determinato d'elettori, scelti tra i più imposti, qualunque sia la quota del censo da essi pagata. E propone che questo numero sia pei col- legi di 25000 anime non al disotto di 180. E come cri- terio generale propone che il censo elettorale sia di 100 lire. È noto poi che la legge, preparata col concorso del Cavour stesso, abbassava questa cifra a 40 e anche in alcuni casi a 20 lire, quindi è da ritenersi che le 100 lire fossero da lui proposte per transigere coi timo- rosi d' ogni svolgimento un po' ardito del diritto di suffragio. Ed anche bisogna tener presente che, fatta que- sta parte ai proprietarii territoriali (poiché allora in Pie- monte non v'era altra imposta diretta che la fondiaria), egli vuole che siano ammesse a godere del diritto elet- torale le classi commercianti e industriali e le capacità intellettuali. Perciò propone che per i commercianti e gl'industriali sia adottato il sistema inglese di attribuire cioè il diritto di voto in ragione del fitto pagato pei locali dove ciascuno esercita il proprio commercio o la propria industria, e, poiché v'è differenza nel valore lo- cativo tra città e città, propone un massimo di L. 600 d'affitto annuo per Torino e Genova, e negli altri luo- ghi una somma minore in ragione della popolazione fino a un limite minimo di lire 200. Si proponeva poi di pe- rorare la causa dei « capitali intellettuali che più ancora CAPITOLO VI. dei primi meritano di esser presi in considerazione dal legislatore,» ma l'esser egli stato chiamato a far parte della commissione incaricata di preparare la legge elet- torale, gì' impedi di proseguire ad esporre nel giornale le sue idee in proposito. Pubblicata questa legge, che per le idee dominanti in Piemonte appariva democratica, ed è certamente più larga che quella degli altri Stati italiani, Cavour la spiega e la difende in un articolo pubblicato il 21 marzo. \'i erano parecchi che biasimavano la legge appunto per- chè troppo larga, e il Cavour risponde a costoro « che nelle gravi e difficili complicazioni politiche in cui il paese è avvolto, a fronte dei moti concitanti della Fran- cia, la via più sicura, la migliore, si è quella seguita dal Re col dare ai popoli da lui governati non dubbia prova dell'intera sua fiducia nel loro retto giudizio, nella loro gratitudine, nel loro amore. » Venendo a parlare delle principali disposizioni della legge, comincia dal dire che il numero fissato di 204 deputati è tale da inspirare la fiducia che il livello dell'intelligenza media della Camera non sarà al disotto del mediocre, prosegue dimostrando che r elezione diretta adottata è migliore di quella a due gradi ed è anche migliore, invece del collegio provin- ciale, cioè a scrutinio di lista, il collegio per distretto, cioè l'uninominale. Poi, dopo avere detto che « le basi sulle quali il corpo elettorale è costituito sono talmente larghe, la parte fatta alle capacità intellettuali è talmente estesa, da inspirarci la fiducia che queste non verranno impugnate dai fautori i più ardenti delle dottrine libe- rali,» aggiunge che « nel determinare le condizioni d'eleg- gibilità pei deputati la legge è stata più liberale ancora, giacché non impone loro nessun obbligo di censo. » CAPITOLO VI. E qui il Cavour si diffonde a combattere efficacemente i sostenitori del censo d'eleggibilità che dovevano esser numerosi in Piemonte, temendosi che, mancando questa condizione, potessero entrare in parlamento rappresen- tanti dei partiti avanzati. Egli dice : « si persuadano d'al- tronde i timidi che le condizioni di censo sono inefficaci ad impedire le nomine degli uomini d'opinioni estreme. Il censo di lire 500 non allontanò, in Francia, dalla ca- mera dei deputati il partito repubblicano; non ne pre- serverebbe il nostro parlamento se dominasse in molti collegi elettorali. Qualunque siano le condizioni d' eleg- gibilità che si vogliono imporre ai deputati, lo spirito degli elettori dominerà sempre nelle Camere elettive. » Ci siamo indugiati forse, a parere d' alcuni, troppo nell'esaminare questi articoli cavouriani sulla legge elet- torale, perchè essi sono una prova convincente della lar- ghezza della sua mente e dell'assenza completa in lui dei preconcetti dei dottrinarli, che allora erano comunemente accettati dal ceto politico. Non bisogna su questo punto farsi illusioni : la resistenza opposta da Luigi Filippo e dai suoi ministri ad ogni proposta d'allargamento di voto, non fu capriccio o effetto di cecità o di miopia politica, ma dipendeva, in teoria, da un ordine di idee e di con- cetti scientificamente coordinati, e queste idee e questi concetti predominavano in Italia negli uomini del partito liberale-moderato. Ora il Cavour sorpassa tutto ciò e colle sue proposte arriva fino al punto cui desiderava arrivare l'opposizione costituzionale in Francia, forse lo sorpassa, certo non rimane al di qua. La legge eletto- rale piemontese, alla cui compilazione egli, come ab- biamo detto, prese gran parte, rispecchia le sue idee, e perciò poteva esser creduta, a ragione, largamente de- CAPITOLO VI. mocratica. Ma, si osserverà: quando questa legge fu emanata, in Francia, conseguentemente alla rivoluzione di febbraio, vigeva il suffragio universale. E sta bene ; senonchè occorre osservare che questo fu, come si dice comunemente, un salto nel buio, che fu fatto per forza, non per convinzione dagli uomini governanti la repub- blica. Nessuno, meno gli esaltati rivoluzionarii e reazio- narii, lo voleva, nessuno lo ammetteva possibile ; fu accettato unicamente, perchè, urgendo di uscire dal di- sordine, di dare una relativa stabilità alla Francia, era il sistema più semplice e, nello stesso tempo, tale da ac- contentare gli esaltati che potevano ricominciare la ri- voluzione. Che non fosse conforme ai desiderii della opinione pubblica, che non rispondesse alle condizioni sociali della Francia, si vide subito dopo ; le repres- sioni di giugno, l'elezione di Luigi Bonaparte a presi- dente, il colpo di Stato, il secondo impero, ne furono la conseguenza necessaria e, solo dopo più di trent'anni d'agitazioni politiche e di disastri, la Francia potè adat- tarsi stabilmente ad esso. In Italia poi nessuno, nel 184S, pensava al suffragio universale, altroché, eventualmente, nella forma del plebiscito, quindi non sarebbe stato nep- pure serio accettarlo ; molto meno, poi, lo poteva ac- cettare Cavour che aveva uno squisito senso della realtà possibile. Ma, si noti, pur non ammettendo, anzi com- battendo il suffragio universale, egli non ricorre ad alcuno di quegli argomenti che lo escludono in modo assoluto. Per luì non si deve sofisticare sul fondamento giuridico e razionale del diritto di voto ; è migliore quel sistema che, tenuto conto delle condizioni del paese, assicura che la rappresentanza nazionale tutelerà e saprà far prevalere gì' interessi dello Stato e del popolo e darà CAPITOLO VI. 123 soddisfazione alle correnti sane della pubblica opinione; e, poiché in quel momento il suffragio universale non dava queste garanzie, non poteva essere accettato. Egli, insomma, rovescia il problema della rappresentanza; invece di preoccuparsi degli elettori si preoccupa degli eletti, o, per meglio dire, subordina quelli a questi; cioè, si mette su un terreno positivo, perchè è evidente che, nella realtà, è buono quel sistema che, comunque or- dinato, assicura la capacità e l'onestà dei governanti; è cattivo quello che dà governanti incapaci e disonesti, qualunque sia il fondamento elettorale dell' uno o del- l'altro. E su questo terreno egli non si preclude la via a nessuno allargamento di voto, che appaia buono e con- veniente, e può arrivare praticamente, come si è fatto in Inghilterra, al suffragio universale o quasi. Qui sta una differenza profonda, per quanto sottile, tra Cavour e i dottrinarli da cui scientificamente deriva : questi si fon- dano su aforismi e concetti assoluti, quello è sperimen- tale, è sempre nella realtà, senza perciò divenire mai empirico. VI. Cavour accetta lo Statuto in tutte le sue parti, ma vuole che abbia attuazione al più presto e, principal- mente, che al più presto si aprano le assemblee legisla- tive. Le elezioni generali indette pel 17 aprile, da alcuni si sarebbero volute protrarre in causa della guerra che impediva a molti elettori- di recarsi a votare. I demo- cratici della Concordia erano fra i più accesi sostenitori di questo ritardo ; essi avevano la segreta speranza che, seguitandosi ad avanzare vittoriose le armi piemontesi 124 CAPITOLO VI. in Lombardia, si abbandonasse lo Statuto regio per for- marne uno nuovo di pianta per mezzo d'una costituente, e pareva loro tanto più facile che questo accadesse, se le assemblee piemontesi non fossero state aperte, cioè se Io Statuto albertino non fosse stato attuato. Ben misero pensiero questo, che prova una volta di più la debo- lezza delle loro idee politiche, perchè era evidente che 10 Stato assoluto, dopo l'emanazione dello Statuto, non aveva più l'autorità morale per durare, massime do- vendo sostenere una guerra nazionale, e che inoltre la formazione d'uno Stato nuovo coli' annessione delle Pro- vincie dell' alta Italia sarebbe stata tanto più facile se il Piemonte avesse avute istituzioni libere, anche per l'ef- fetto morale di esse sulle popolazioni che fin allora ave- vano soggiaciuto alla tirannia straniera. Questo nell'ipo- tesi che le armi piemontesi avessero seguitato a vincere e quindi fosse stata possibile l'annessione, ma nel caso opposto, che pur troppo si avverò? Evidentemente uno Statuto non attuato era più facile da abolire che uno Statuto in pieno vigore, e, quindi, sotto la pressione d'una sconfitta, era più facile agli assolutisti, che a ma- lincuore s'erano piegati alla sua proclamazione, d'ot- tenere che fosse considerato lettera morta. Quindi ai liberali piemontesi si sarebbe presentato questo dilemma : o piegarsi alla reazione, o buttarsi allo sbaraglio in una rivoluzione che, congiunta ad una guerra disgraziata, avrebbe messo in pericolo l'esistenza stessa dello Stato. 11 Cavour, che non voleva né 1' una cosa né l'altra e aveva, come si è già detto, squisito il senso di ciò che era possibile, sostenne apertamente che non si dove- vano per alcuna ragione ritardare le elezioni. In un ar- ticolo del 31 marzo egli dichiara, rispondendo alla Con- CAPITOLO VI. 125 cardia, che il consiglio di ritardare le elezioni è « contrario ai principii costituzionali, alle esigenze dei tempi, alle più alte ragioni di Stato e grandemente funesto. » Finché il parlamento non sarà radunato, lo Stato sarà debole e vacillante, anche perchè il governo, che per le ne- cessità della guerra ha poteri dittatoriali, non può le- gittimamente conservarli « oltre il tempo necessario per entrare nelle vie normali del reggimento costituzionale. » Protrarne l'esercizio oltre questo limite sarebbe un er- rore gravissimo, un' ofìesa al fatto stesso della costitu- zione. D'altra parte il IMinistero, per quanto goda della confidenza pubblica e i ministri siano uomini ragguar- devoli, eminenti, « non possiede tutta la forza morale di cui abbisogna in questi tempi e che solo il parla- mento potrà conferirgli. » La ragione addotta per ri- tardare le elezioni di un possibile riordinamento terri- toriale, pel quale più popoli italiani possano riunirsi sotto uno stesso governo, costituisce «un argomento più forte per chiedere imperiosamente a nome dello Statuto la riunione delle Camere. Questi grandi atti politici.... non debbono, non possono compiersi senza il concorso del parlamento. Il modificare senza il suo consenso la legge organica sarebbe delitto di lesa nazione. » E qui Cavour viene a rispondere a quelli che mettono in dubbio i sentimenti italiani del parlamento che deve riunirsi a Torino e che manifestamente sono i democratici. « Si ostenterebbe forse il dubbio, esclama, che idee muni- cipali e provinciali ponessero ostacolo alla tanto desi- derabile fusione degli Stati italiani? Tali dubbii, tali sospetti sono ingiusti, sono calunniosi per la nazione ligure-piemontese. Guai ai ministri se dessero retta a 126 CAPITOLO VI. queste perfide insinuazioni ! I loro concittadini sareb- bero in diritto di chieder loro ragione di una non fon- data e vituperosa diffidenza. » E più sotto con maggiore forza: « La politica interna, la politica italiana, la poli- tica estera richieggono egualmente la sollecita attiva- zione dello Statuto ; onde, fatti liberi di fatto come di diritto, possiamo essere fortemente costituiti, per far fronte alle gravi contingenze ed ai pericoli che possano sorgere al di dentro come al di fuori dello Stato. » Il consiglio fu seguito, le elezioni avvennero nel giorno fissato, il parlamento fu aperto il dì 8 di maggio con un discorso del principe di Carignano, luogotenente del re, e cominciò subito a funzionare. Cavour, che vedeva tutta la complessità e la difficoltà del compito che in- combeva sulle assemblee legislative, si preoccupa del sistema col quale procederanno i lavori di queste e avvisa ai modi di accelerarli ; perciò, da perfetto cono- scitore del sistema parlamentare in Francia e in Inghil- terra, scrive due articoli sul regolamento della Camera dei deputati. Il Ministero, secondo lui, deve fare un re- golamento provvisorio e suggerire le disposizioni più idonee alla sollecita verificazione dei poteri, sul presup- posto che si debbono considerare valide tutte le elezioni approvate dagli ufficii dei collegi! e che non siano con- testate. Infatti accadde cosi; il Ministero compilò un re- golamento che fu accettato in via provvisoria dalla Ca- mera, e questo regolamento Cavour esamina e critica nel secondo articolo, ravvisandovi un difetto o un vizio, si direbbe, d' origine, cioè, di esser copiato quasi let- teralmente da quello dell' antica Camera dei deputati francese, di cui tutti i pubblicisti avevano denunziate le gravi imperfezioni. Egli si mostra contrario al sistema CAPITOLO VI. 127 degli ufficii che allungano, oltre misura, il lavoro legis- lativo. Poiché i sostenitori di questo sistema dicevano che esso apriva un campo adattatissimo ai deputati cui manca il dono della parola, e inoltre somministrava mezzi efficaci per iniziare i giovani membri nell' arte difficile dell'oratore, egli risponde che « se la Camera adottasse forme di deliberazione meno solenni, se si decidesse a discutere in comitato.... i più timidi deputati acquiste- rebbero presto r abitudine di trattare avanti la Camera le materie che loro sono familiari.... e poi il tempo del parlamento è troppo prezioso perchè se ne debba con- sacrare parte a facilitare i primordi! degli oratori ine- sperti. » Il sistema inoltre ha il grave difetto di fare eleggere le commissioni, per la relazione delle leggi che debbono essere discusse dalla Camera, dagli ufficii, la qual cosa produce due inconvenienti : il primo che le minoranze difficilmente saranno equamente rappresen- tate in queste commissioni, il secondo che con esso riuscirà difficile che ne facciano parte le persone più competenti nelle singole materie, le quali sono nelle assemblee, politiche necessariamente poco numerose. Perciò egli propone che le commissioni per l'esame dei disegni di legge siano nominate dalla Camera a scrutinio di lista con maggioranza relativa, o, « meglio ancora, salvo qualche caso gravissimo, l'affidarne la scelta al presidente, il quale, per rispetto all'opinione pubblica, e più pel desiderio di mostrarsi imparziale e di non ini- micarsi personalmente alcuno dei partiti che costituiscono la Camera, designerà a farne parte i membri più adat- tati, a ragione delle loro speciali attitudini e conoscenze, a meglio trattare le materie commesse all' esame pre- ventivo della commissione. » 128 CAPITOLO VI. Questi due articoli rivelano in Cavour, non solo una profonda conoscenza dei congegni regolamentari delle assemblee rappresentative moderne, ma anche una ret- titudine e sicurezza di giudizio straordinaria, massime in uno che non aveva mai presa parte attiva alla vita pubblica. Eppure questi articoli procurarono al loro au- tore niente altro che il compatimento degli uomini della Concordia, i quali, gonfii della loro boria avvocatesca, che si congiungeva ad una profonda ignoranza di ogni cognizione positiva di politica, non potevano ammettere che un aristocratico, e per giunta non laureato in legge, ne sapesse più di loro ! Convocato il parlamento, Cavour, che non ne fece su- bito parte, continuò a trattare nel giornale le principali questioni politiche, sia interne che esterne, e, poiché il suo lavoro di giornalista qui s' intreccia con tutti gli avvenimenti che si svolgono non solo in Piemonte, ma anche in Italia, o che coll'Italia hanno rapporto, bisogna che noi qui lo esaminiamo un po' minutamente. VII. Quando scoppia la rivoluzione contro l'Austria, e Milano insorge, Cavour, meglio e più che altri, capisce che il re Carlo Alberto deve decidersi a muovere in aiuto dei lombardi, che ogni momento d' indugio è dannoso, non solo alla monarchia sabauda, ma anche alla causa italiana; che ogni momento d'indugio può far degene- rare la rivoluzione, la quale, quando abbia sorpassata la monarchia, non potrà più da questa essere regolata. In sostanza Cavour, nel 1S48 semplice giornalista, è quale CAPITOLO VI. 129 si mostrerà essendo a capo del governo del Re dì Sar- degna, il suo concetto è chiaro e preciso allora come dopo ; la monarchia deve porsi a capo della rivoluzione, non lasciarsi trascinare da essa. E questo non perchè in lui sia molto forte il sentimento dinastico, ma perchè egli capisce che nella società moderna, nella quale tanti interessi s' intrecciano e premono sulla compagine dello Stato, sopratutto nella società internazionale, fatalmente tratta alla tutela della pace, e allora, per questo, alla conservazione dello statu quo, nessuna rivoluzione ha probabilità di riuscita se non include in sé, o non mostra apertamente, un principio d' ordine, se non dichiara e non convince ognuno, che essa non vuole distruggere che riedificando contemporaneamente, e che 1' opera sua non minaccia nessun interesse che sia fondato su un principio di morale e di ragione. Per ciò egli, allora e poi sempre, fu contrario ai rivoluzionarli esaltati, ai co- spiratori repubblicani, ai seguaci di Mazzini, e fu con- trario, non perchè fosse meno audace di loro, ma perchè quello che in essi era un ideale che mirava a concre- tarsi, senza riuscirvi, in lui si metteva naturalmente nella realtà politica e a questa si proporzionava senza perdere nulla della sua interezza. Questo concetto noi svolge- remo maggiormente piìi avanti quando esamineremo l'opera di Cavour come statista; ora ci basta averlo enunciato. Partendo da esso, adunque, Cavour come aveva in- citato Carlo Alberto a dare la costituzione, prima che il popolo la chiedesse imperiosamente, avrebbe voluto un'azione più pronta e decisa del Re contro l'Austria; quando poi scoppia la rivoluzione a Milano scrive quel famoso articolo: V Ora sìiprema della Dwastia sabauda, Cavour. 9 130 CAPITOLO VI. che è nello stesso tempo un'aperta dichiarazione di guerra allo straniero e una fiera intimazione al Re perchè si de- cida, esca dalle incertezze, perdurando nelle quali per- derebbe il trono e l' onore. « L' ora suprema per la mo- narchia sarda è suonata, egli dice, 1' ora delle forti deliberazioni, l'ora dalla quale dipendono i fati degli imperi, le sorti dei popoli.... Uomini noi di mente fredda, usi ad ascoltare assai più i dettami della ragione che non gì' impulsi del cuore, dopo di avere ponderata ogni nostra parola, dobbiamo in coscienza dichiararlo : una sola via è aperta per la nazione, pel governo, pel Re. La guerra! la guerra immediata e senza indugi. » E pro- segue osservando che non è possibile indietreggiare, che la nazione è già in guerra, che molti piemontesi var- cano le frontiere per andare a Milano, che l'eroica città riceve aiuti continui dal Piemonte di armi e munizioni» che i trattati da ambe le parti sono infranti, quindi non è questione di decidere se si debbono o no cominciare le ostilità, ma di sapere se il Piemonte si dichiarerà apertamente per la causa italiana, o se seguiterà ancora nella sua politica di ambagi e di dubbii. Bisogna deci- dersi, « siamo in condizion tale che 1' audacia è la vera prudenza, in cui la temerità è più savia della ritenu- tezza. » Si oppone che, dichiarando la guerra, si corre il rischio di decidere la Russia e l'Inghilterra a unirsi all'Austria contro l'Italia. Quest'obbiezione avrebbe va- lore se la Lombardia fosse tranquilla, se si trattasse di rompere veramente la pace, ma « la Lombardia è in fuoco, Milano è assediata ; ad ogni costo bisogna an- dare a soccorrerla. Quando non avessimo sulle frontiere che cinquemila uomini, questi dovrebbero correre su Milano. Forse questi sarebbero sconfitti; è possibile.... CAPITOLO VI. 131 ma l'effetto morale d'un principio d'ostilità, la salvezza di Milano varrebbe più per la causa italiana, che non le nuocerebbe la sconfitta d'un corpo di 5000 uomini. » Bisogna lasciar da parte la politica tentennante di Luigi Filippo e di Guizot, adottare la politica di Federico, di Napoleone, di Carlo Emanuele, «la grande politica, quella delle risoluzioni audaci. » Ma l'Europa? obbiettano al- cuni. E Cavour torna a rispondere : « di fatto la nazione ha dichiarata la guerra; e quella tremenda responsabi- lità che ci si para dinanzi qual fantasma spaventevole l'abbiamo già incorsa. » Se l'Austria vince, ci dichiarerà la guerra, nel medesimo modo; se la Russia è disposta a soccorrerla, i suoi soldati sono già partiti verso Vienna che è in fiamme. Ma l'Inghilterra? aggiungono altri. E Cavour, che sapeva quanto il ministro inglese a To- rino premesse su Carlo Alberto per trattenerlo dal di- chiarare la guerra, affronta la questione arditamente. Le proteste dell'Inghilterra hanno incontestabilmente un gran peso, e in tempi tranquilli si dovrebbe dar loro ascolto, ma di fronte ai casi di Milano lasciarsi fermare da esse « sarebbe viltà, non una buona e grande poli- tica, ma una politica meschina che, senza porci al riparo dei pericoli che ci sovrastano, coprirebbe d'ignominia la nazione, e farebbe forse crollare l'antico trono della monarchia sabauda in mezzo all' indignazione dei popoli frementi. » Dopo queste gravi parole che assumevano, come ab- biamo già detto, l'aspetto d'un' intimazione, Cavour esamina la politica inglese nella questione italiana. Forse l'Inghilterra cesserà d'essere alleata del Piemonte; sia pure, egli, Cavour, definito dagli avversarli come anglo- mane, deriso coli' appellativo di Rlylord Caini/Io, non 132 CAPITOLO VI. ha mai creduto che l'Inghilterra dovesse liberare l'Italia, essendo nelle sue mire la conservazione della potenza dell'Austria, ma non crede neppure che, per mantenere questa potenza, vorrà rompere guerra ; e ciò non per generosità, ma per interesse, perchè non le conviene compromettere la pace del mondo per mantenere un edificio che crolla da ogni lato, quale l'assolutismo au- striaco. Una guerra mossa dall'Inghilterra diverrebbe mondiale, e certamente il governo della regina non vorrà destare un tale incendio « perchè si combatte in Italia per acquistare quei diritti che sono sacri agli occhi del popolo inglese. » Non è possibile che il governo inglese voglia ricominciare le guerre della rivoluzione, ma se accadesse, guai all'Inghilterra! « Si formerebbe contro essa una tremenda coalizione, non più di principi, come contro Napoleone, ma di popoli. E non vi sarebbe più pace nel mondo, finché non fosse distrutta la potenza d' un popolo che avrebbe tradita la causa dell' umanità. » E prosegue anche più fortemente e in forma più posi- tiva e determinata: « Rammenti l'Inghilterra che i tempi sono cambiati, che i sentimenti popolari si sono svolti per ogni dove, che anco nell'interno delle sue provincia i diritti del popolo contano numerosi ed ardenti difen- sori. Rammenti che nell'Irlanda, nel Canada, in altre co- lonie, fervono le idee di separazione e di libertà estrema. Rammenti che essa non è più la sola gran potenza ma- rittima del mondo ; che trent' anni di pace le hanno preparato un tremendo rivale, gli Stati Uniti, che non consentiranno giammai a lasciare, in caso di guerra, porre in vigore quella sua prepotente legislazione sui neutri, che le permetteva di ofiendere i suoi nemici e di man- tenere quasi illeso il suo commercio. » Come ognun vede, CAPITOLO VI. 133 in queste parole v' è tutto Cavour, v'è lo statista audace che non ha paura della rivoluzione, perchè sente di po- terla dominare aggiogandola ai suoi fini, che è pronto a servirsene contro i suoi nemici; v'è lo statista che pochi anni dopo porrà all'Europa monarchica conser- vatrice il dilemma : o l'Italia libera o la rivoluzione da per tutto e contro tutti. JNIa nel 1848 egli non era che giornalista. Il giorno stesso in cui uscì quest' articolo, il consiglio dei ministri decise la guerra all'Austria, e il Re l'annunciò al popolo nella serata. Ma la guerra non fu condotta con quella vigoria e prontezza che Cavour credeva, a ragione, necessaria e quindi, a parte gl'in- successi che seguirono le prime vittorie, non produsse l'eflètto morale desiderato. Ognuno capisce che se quando l'esercito austriaco, per non rimanere chiuso tra l'esercito piemontese e Milano insorta, si ritirava, fosse stato at- taccato da questo e, contemporaneamente, anche un solo battaglione di truppe regie fosse entrato in Milano, la rivoluzione del 1S48 avrebbe assunto un altro andamento. Radetsky non avrebbe potuto riordinare il suo esercito nel quadrilatero, a Milano non avrebbero prevalso gli spiriti municipali; non avrebbero potuto, insomma, de- terminarsi le due cause principali che fecero miseramente rovinare quella rivoluzione, ma né Carlo Alberto era uomo da simili audacie, né i suoi ministri avevano il genio di Cavour, e, sopratutto, i tempi non erano maturi. Vili. Ottenere lo Statuto, cioè stabilire su una base solida e conforme alla civiltà dei tempi, il sistema rappresen- tativo, cercare che esso abbia la sua pratica attuazione 134 CAPITOLO VI. colla convocazione delle assemblee legislative e contem- poraneamente procurare che sia indetta e proseguita con vigore la guerra all'Austria per la conquista dell'indi- pendenza nazionale, ecco i tre scopi che, come abbiamo visto, si prefigge il Conte di Cavour e a cui indirizza la sua azione di giornalista. Raggiunti questi, egli non si ferma, procede arditamente più innanzi; bisogna svol- gere lo Statuto riformando la legislazione e l'amministra- zione dello Stato nelle parti che con quello contrastano, emendarne il testo in modo esplicito se è necessario, interpretarlo largamente all'uso inglese, cioè emendarlo implicitamente, negli altri casi, bisogna dirigere l'opi- nione pubblica, il parlamento e il ministero in quei primi passi sulla via della libertà, e sopratutto far si che lo Stato piemontese, come colle armi sostiene in campo la causa italiana, non si lasci sfuggire la dire- zione del movimento rivoluzionario, lo ordini, lo disci- plini e quindi ne assicuri la vittoria finale e la sua con- cretazione nei fatti. Questo vuole il Conte di Cavour, per questo combatte arditamente nel Risorgìinento, che è tutto infiammato del suo spirito, anche nelle parti che manifestamente non sono da lui scritte ; per questo, an- che, non conta gli avversarli coi quali entra in lizza, né considera le loro qualità e i rapporti d'amicizia o di parentela che ha con alcuni di loro ; attacca i democra- tici, critica i costituzionali moderati e i ministri quando gli pare che commettano errori, non ha riguardi per alcuno perchè nella sua mente lucidamente acuta egli vede meglio e più in là di tutti, e la questione che gli si presenta è da lui considerata più intimamente e più complessamente che non facciano gli altri. Si disse d'un celebre romanziere che scriveva romanzi perchè non pò- CAPITOLO VI. 135 teva combattere battaglie ; sarebbe forse più esatto dire che il Conte di Cavour scriveva degli articoli perchè non poteva governare e reggere lo Stato ; perchè, in questi articoli, di sotto al giornalista sorge e si mostra l'uomo di Stato, dalla tempra eroica, nato e formato per operare grandi cose. Perciò riesce difficile render conto esatto e completo della sua attività di giornalista che ha bensì una durata brevissima, non andando oltre il 1850, e spiega la sua maggiore intensità per tutto il 1S48, ma in compenso è complessa, svariata, pur conservandosi sempre ugual- mente sincera e forte. Noi quindi ci limiteremo ad esa- minarla nei suoi punti più salienti, per darne un'idea esatta se non interamente completa. IX. Cavour, che aveva profondo il senso della libertà, non poteva ammettere che essa patisse limitazione alcuna in ciò che concerne la parte più intima dell'uomo, la co- scienza. In Piemonte, fin dagli anni giovanili, aveva, fremendo d'indignazione, dovuto assistere alle prepo- tenze demoralizzatrici, non della religione, ma del clero cattolico privilegiato; aveva deplorato, come un'offesa alla dignità umana, la condizione fatta nel suo paese ai professanti una religione diversa dalla dominante, e que- sti suoi sentimenti aveva rafforzati viaggiando e vivendo all'estero in paesi dove la libertà religiosa, dalle leggi penetrata nei costumi, era senza alcuna restrizione pra- ticata. Bisognava disfare quell'edificio mostruoso di pri- vilegii di cui era rivestita e protetta la chiesa cattolica. 136 CAPITOLO VI. innovare, perciò, molte parti della legislazione, e appa- riva insufficiente perciò l'eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, qualunque fosse la loro fede, dinanzi alle leggi dello Stato, e quest' insufficienza era più evidente in Piemonte, dove fino allora avevano dominato i Gesuiti ed era conosciuto l' attaccamento, che spesso diveniva bigottismo, del Re alla religione. Quindi, ad ottenere lo scopo, bisognava rimuovere ogni ostacolo che potesse fondarsi sulla legge fondamentale. Mosso da tale idea, Cavour chiede il iS maggio che sia innovato lo Statuto, nel senso che all'articolo 1° sia sostituita la dichiarazione più ampia della libertà di co- scienza. Alcuni hanno voluto vedere in questo scritto di Cavour un primo accenno alla famosa formula : libera Chiesa in libero Sialo, ma è evidente l'errore in cui sono incorsi, confondendo due cose che vanno naturalmente distinte : la libertà di coscienza e di culto, e quello spe- ciale ordinamento dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato che è conosciuto sotto il nome di libertà della Chiesa. Infatti, sparita la preoccupazione di trovare inciampi nella laicizzazione dello Stato da parte del Re e della corrente clericale in Piemonte, Cavour non pensò più a richiedere o a proporre l'abrogazione dell'art. 1°, nem- meno quando dovette occuparsi di proposito dei rap- porti tra la Chiesa e lo Stato e gli si affacciò il problema dell'abolizione del potere temporale, per risolvere il quale appunto enunciò la formula : libera Chiesa in libero Sialo. A questa sua preoccupazione, intorno alle possibili resistenze che nel Re, nella Corte e nelle classi più vi- cine al trono poteva trovare lo svolgimento liberale dello Statuto, si riannoda anche l'articolo sulla riforma CAPITOLO VI. 137 del senato, che pubblicò nel Risorgimento del 27 mag- gio. È noto che il senato vitalizio di nomina regia fu stabilito nello Statuto, non tanto perchè tale era nella costituzione francese del 1814-30, quanto perchè era la forma di senato che più si accostava a quella inglese e pareva desse maggiori garanzie di spirito conserva- tore. Le prime nomine al senato allarmarono l'opinione pubblica, perchè i membri dell'alta assemblea erano, com' è naturale, presi in gran maggioranza tra gli alti magistrati e gli alti funzionarli dello Stato, e quindi avevano servito il governo assoluto e perciò non erano ben visti dai liberali. Cavour non potè a meno di par- tecipare a questi sospetti dell'opinione pubblica e inoltre pensava che, durando il regno di Carlo Alberto, non sarebbe stato facile cambiare le tendenze e lo spirito predominante del senato per mezzo di nuove nomine. Perciò egli, approfittando del fatto che l'alta assemblea, dopo una lunga e confusa discussione, aveva votato, nella risposta al discorso della corona, un paragrafo contenente la dichiarazione che ogni senatore avrebbe volentieri rinunziato al suo privilegio individuale quando ciò fosse apparso necessario a facilitare l'unione delle Provincie dell'alta Italia al Regno sardo, risolutamente propose la riforma del senato. Dichiarandosi fautore del sistema bicamerale, escludeva però che le due Camere dovessero essere istituite per ottenere il così detto equi- librio dei poteri, perchè « l'equilibrio in meccanica in- dica lo stato d'immobilità, stato che mal s'addice alle società moderne, spinte irresistibilmente nelle vie della civiltà. » E aggiungeva, dopo altre considerazioni che omettiamo, che bisogna « costituire la gran macchina politica in modo che l' impulso acceleratore sia combi- 138 CAPITOLO VI. nato colla forza moderatrice; vogliamo, accanto alla molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme. Ma per ciò ottenere non basta scrivere nello Statuto che vi saranno due Camere ; bisogna anche far sì che quella, il cui ufficio si è di temperare l'ardore dell'altra, possegga una forza intrinseca tale da opporre efficace resistenza alle passioni violente degl' impeti po- polari disordinati, alle fazioni incomposte e sovvertitrici dell'ordine. » Come si vede, qui Cavour presenta la questione della riforma del senato in modo che sembra inspirato da un concetto di diffidenza verso la Camera dei deputati e in favore degli interessi conservatori, ma la realtà è diversa, perchè egli, in quel momento, teme gì' intrighi degli assolutisti presso il Re e non vuole che le correnti reazionarie trovino appoggio in senato, per- ciò ne invoca la riforma. Infatti i ragionamenti che se- guono mostrano chiaramente il pensiero vero suo. Egli esclude il sistema ereditario nella formazione dell'alta assemblea, perchè in Italia non vi sono gli elementi per una paria all' inglese, riprende in esame il sistema pre- fisso dallo Statuto e lo combatte perchè, di fronte al- l' opinione pubblica, un senato nominato dal Re sarà sempre considerato come composto di delegati del go- verno, sarà stimato, rispettato, ma rimarrà privo d'ogni influenza politica, come accadde della Camera dei pari francese; combatte anche la proposta di far designare dagli elettori una lista di nomi tra i quali il Re scelga i senatori e infine viene a esaminare il sistema elettivo « il solo razionale, il solo opportuno nelle attuali condi- zioni dei tempi e dell'Italia. » Risponde agli oppositori di questo modo di formazione, le cui obbiezioni, secondo lui, avrebbero un gran peso se il modo d'elezione do- CAPITOLO VI. 139 vesse essere identico, e conclude: « noi crediamo facile il costituire una seconda Camera, animata da un istinto conservatore bastevole a porre un argine agl'impulsi talvolta eccessivi della Camera dei deputati, senza costi- tuire un corpo elettorale privilegiato ; e ciò soltanto col- l' imporre ai candidati alcune condizioni d'eleggibilità, e col variare la composizione dei collegi elettorali, e coU'aumentare la durata del mandato dell'eletto. L'esem- pio del Belgio e delle costituzioni, sia dell'unione ame- ricana, sia dei singoli Stati che la compongono, avva- lorano questa nostra opinione. » Cavour si proponeva di trattare più a fondo questo argomento, ma gli avvenimenti incalzando lo richiama- rono a occuparsi di altre cose più importanti, né mai dopo, appunto perchè svanì il pericolo che egli sopra- tutto temeva, propose, o sostenne, o si manifestò favo- revole ad una riforma del senato. X. Ed ora veniamo a vedere più da vicino qual è l'at- teggiamento che assume Cavour di fronte alla rivoluzione italiana che si svolgeva nelle sue vicende liete e tristi, mentre egli dirigeva, inspirava, e anche redigeva il Ri- sorgimento, Abbiamo visto come avesse chiaro nella mente il concetto di ciò che doveva osare e fare il Piemonte nella rivoluzione; cioè capitanarla, dirigerla, infrenarla o in- citarla, ma non mai lasciarsela sfuggire, per così dire, di mano. Quali le sue idee intorno al riordinamento politico dell' Italia quando fosse resa indipendente? Egli non era I40 CAPITOLO VI. unitario nel senso che propugnasse la formazione della penisola in un unico Stato, ma, a differenza di quasi tutti i moderati tra i quali era ascritto, non era neppure contrario all'unità, non aveva, cioè, i pregiudizii fede- ralisti e neo-guelfi che la escludevano. Forse in quel tempo non pensava all'unità, certo non ne parlava, ma nulla nel suo pensiero e nella sua azione si può trovare che la escludesse; statista vero e forte, fin d'allora, non si prefiggeva che ciò che capiva urgente e possibile : la indipendenza, che era la condizione fondamentale d'ogni ordinamento politico, o unitario o federale che fosse. Ma questa indipendenza voleva conquistata ad ogni costo e intendeva che lo fosse per opera principale del Pie- monte e del suo Re. Quindi egli vuole che il Piemonte sì conservi forte nelle sue nuove istituzioni e si prepari, colla libertà e nella libertà, a disciplinare la rivoluzione italiana. Perciò anche, egli vuole che il governo e il Parlamento agiscano, non si perdano in tergiversazioni e in chiac- chiere; a questo suo concetto si informano gli articoli sul discorso della corona e sulla risposta che a questo deve fare la Camera dei deputati, ed anche gli articoli sull'inva- sione della Savoia operata da un gruppo di rivoluzionarli francesi detti voraces, appena, per la guerra d'indipen- denza, le truppe che presidiavano c^uella provincia furono richiamate. Le autorità piemontesi, e anche il Ministero di Torino, in quell'occasione si mostrarono d'una debo- lezza così grande da lasciar supporre, se non una con- nivenza cogl' invasori, almeno una tacita intesa col go- verno francese di abbandonargli la Savoia, chi sa in vista dì quali compensi. In realtà non vi era nulla di tutto que- sto, ma solamente le autorità locali erano rimaste come CAPITOLO VI. 141 disorientate dal cambiamento della forma di governo, e i ministri erano inesperti nel reggimento dello Stato, sopraffatti dalla grandezza degli avvenimenti che li tra- volgevano e confusi dalle difficoltà immense del compito loro. Comunque, se allora la Savoia non fu unita alla Francia, fu perchè il popolo insorse e scacciò gì' inva- sori. Tutto questo irritò profondamente Cavour, perchè denotava debolezza e incapacità tanto nei ministri che nei funzionarli e non si ritenne dal manifestare, in modo aperto e senza riserve, il suo biasimo. Perciò dimanda al governo la dimissione del governatore militare e dell'intendente generale di Chambéry, chiede che sia pre- miata la fedeltà dei savoiardi dando alla loro regione quei miglioramenti economici e amministrativi che le sono necessarii per godere, alla pari dei liguri pie- montesi, di tutti i vantaggi del nuovo regime costi- tuzionale, e dedica tutto un articolo a provare che la Savoia non ha alcun interesse a riunirsi alla Francia. Può parere strano che Cavour sostenga questo assunto cui dovrà contraddire undici anni dopo, ma bisogna tener presente che nel 1848 la cessione della Savoia avrebbe indebolito lo Stato piemontese verso la Francia, e che, inoltre, avrebbe costituito una vittoria di quella parte repubblicana francese contro la quale Cavour aveva molte e legittime diffidenze e ripugnanze. Per di più poi, nella questione speciale concernente la Savoia, osser- viamo che il ragionamento di Cavour si fonda princi- palmente sul regime doganale protezionista vigente al- lora in Francia, mentre undici anni dopo questo regime era cambiato, e inoltre nel 1S4S la Savoia sarebbe di- venuta una piccola parte d'un grande Stato come la Francia, invece di essere parte integrante d'un piccolo 142 CAPITOLO VI. Stato come il Regno sardo, mentre, invece, undici anni dopo la Savoia, sia che rimanesse provincia dello Stato sardo, che diveniva italiano, sia che fosse annessa alla Francia, sarebbe sempre stata piccola parte d'un grande Stato e verso la Francia la traevano naturalmente la comunanza di lingua e di stirpe. XI. Ma in questa polemica per la Savoia v' è, nel pen- siero di Cavour, un aspetto politico molto più interes- sante sul quale importa fermarsi. Egli aveva, fino dai primi del 1848, scritto varii ar- ticoli sulla politica francese in Italia, prendendo occa- sione dal discorso col quale Luigi Filippo aprì quella ses- sione parlamentare che fu l'ultima del suo regno, e dalla discussione, che ebbe luogo pochi giorni dopo, sulla questione italiana in base ai documenti presentati in proposito dal ministero Guizot. Il discorso della corona non conteneva alcun accenno all'Italia; di ciò si duole, ma non si meraviglia, Cavour che rimprovera aspramente Guizot d'aver asservito la politica francese alla Russia e all'Austria, trascurando r Inghilterra e perciò disinteressandosi degli affari d' Ita- lia, il che equivaleva a rinnegare i principii stessi su cui si fondava la monarchia di luglio. Egli pone in confronto la politica francese coli' inglese e il confronto è tutto a vantaggio di quest'ultima, perchè l'Inghilterra, per quanto amica dell'Austria e interessata a mantenere in- tatti i suoi dominii, non temè di manifestare le sue sim- patie per le riforme italiane e, colla missione di Lord Minto, fece « chiara la determinazione di opporsi a qua- CAPITOLO VI. 143 lunque tentativo tendente a turbare colla forza o colla frode l'opera rigeneratrice di Pio, Leopoldo e Carlo Alberto. » Prosegue rammentando i danni che nella sto- ria son venuti alla Francia dall'alleanza austriaca e ri- volgendosi al Guizot esclama: « Figlio della rivoluzione francese ha egli intieramente obliata la gran verità da lui professata altre volte, non esservi per la Francia alleati veri, efficaci, se non i popoli esordienti nella carriera della libertà politica ? » Che se il Guizot prosegue nella sua insana condotta, Cavour ha piena fiducia nell'opinione pubblica e con- clude con queste parole cui la rivoluzione di febbraio, accaduta appena un mese dopo, dà un valore quasi profetico: « Se questa lo sostenne quando dopo il 1840 ristabili l' influenza francese in Europa, lo abbandonerà senza fallo, se continua ad adoperarla come in Isvizzera contro i principii liberali o ad astenersi dall' impie- garla come fa ora in Italia per compiacere all'Austria. » Negli articoli successivi ribadisce e rinforza gli stessi giudizii sulla condotta della Francia e, seguitando il confronto con quella dell'Inghilterra, dimostra quanto la seconda sia migliore della prima. Però non si fa illu- sioni, come tanti tra i moderati, sulla possibilità di aiuti materiali da parte dell' Inghilterra. Questa non farà la guerra che per un interesse diretto suo; essa ha poco da sperare da una guerra generale « perchè possiede già troppe colonie, perchè i patti del trtUtato di Vienna le furono bastantemente favorevoli, infine perchè la guerra è contraria agi' interessi e alle opinioni delle classi in- dustriali che esercitano oggigiorno, mercè la riforma parlamentare, una crescente influenza nel seno della Ca- mera dei comuni. » 144 CAPITOLO VI. L'Inghilterra vuole la pace anche in Italia, ma, ap- punto per ciò, non esita a manifestare le sue simpatie pel moto riformatore dei suoi principi, pure essendo amica dell'Austria. Questa è la ragione per la quale la politica inglese è popolare in Italia e fa nascere de- sideri! forse eccessivi e speranze forse esagerate, perchè, finché il moto italiano non minaccerà la guerra sarà ap- poggiato dall' Inghilterra, quando la guerra avverrà non potremo da quella nazione avere alcuno aiuto materiale. Abbiamo già visto come, quando la politica inglese parve volesse impedire la guerra, Cavour insorgesse fieramente contro di essa, pur manifestando l'opinione che a tanto l'Inghilterra non sarebbe mai arrivata, perchè avrebbe significato alleanza aperta coli 'Austria, e ciò per conse- guenza avrebbe rotta la pace e scatenato sul mondo un conflitto generale. Questo concetto egli ribadisce in una serie d'articoli, pubblicati quando, bandita la guerra di indipendenza, i rappresentanti, non solo dell'Austria, ma anche della Prussia e della Russia, abbandonarono Torino. Egli osserva che il richiamo del ministro prus- siano non significa che la Prussia appoggi l'Austria; finché il moto italiano non minacci l'integrità del suolo germanico, la Prussia non ha ragione, né interesse per intervenire. La Russia invece sì, « il risorgimento ita- liano, come tutti i moti in favore dell'indipendenza e della libertà, incontreranno sempre nello czar un aperto e potente nemico. » Quindi non è dubbio che la Russia è disposta ad aiutare l'Austria, ma questa, allora in piena rivoluzione, piuttosto rifiuterà di valersi delle truppe del dispotismo. L'Austria, divenuta costituzionale, può invece invo- care l'aiuto dell'Inghilterra; è difficile che l'ottenga, ma, CAPITOLO VI. 145 poiché la questione è grave, Cavour si propone di esa- minarla. Indubbiamente l' Inghilterra è favorevole al mante- nimento dello statu quo, il suo rappresentante a Torino ha sconsigliata la guerra, il governo inglese biasimerà ufficialmente il governo piemontese, ma non andrà più in là, perchè l'intervento armato dell'Inghilterra sa- rebbe il segnale d'una guerra universale, che essa non intraprenderà « se non quando i veri interessi della po- tenza inglese saranno seriamente minacciati, il che non risulta dalla guerra dell'indipendenza italiana. » Questa non minaccia neppure l'esistenza dell'impero austriaco: le Provincie lombardo-venete, frementi sotto il dominio straniero, sono più una causa di debolezza che un ele- mento di forza per l'Austria. Solamente se l'Italia, dopo scosso il giogo austriaco, dovesse cadere sotto il do- minio d'un' altra nazione, l'Inghilterra sarebbe minac- ciata nei suoi vitali interessi, ma un' Italia libera e indi- pendente, « lungi dall'essere contraria, è conforme ai più alti interessi dell' Inghilterra. » La quale certamente teme che la Francia estenda le sue frontiere oltre le Alpi, e perciò acquisti un'influenza preponderante nel Mediter- raneo ; ora il miglior mezzo per impedire ciò è appunto di costituire l'Italia a nazione, e quindi farne una potenza marittima capace di fronteggiare la Francia. Per queste ragioni l' Inghilterra non è interessata a schierarsi contro r Italia alleata dell'Austria. Ma alcuni credono che l'In- ghilterra abbia un motivo suo speciale per desiderare una guerra universale, e su questo tanto i liberali che gli austriacanti fondano le loro speranze e i loro timori. Ora Cavour combatte anche quest'opinione e i suoi argomenti, tutti fondati su argomenti positivi e quasi Cavour, io 146 CAPITOLO VI. esclusivamente economici, sono convincenti, ma non potevano certo essere in tutto apprezzati in quel tempo di politica sentimentale e anche, se si vuole, retorica. I motivi pei quali si credeva che l' Inghilterra avesse inte- resse a promuovere una guerra universale erano fondati sopra un erroneo apprezzamento intorno: i'^ alle condi- zioni reali del commercio inglese; 2° ai vantaggi politici ed economici che l'Inghilterra poteva sperare da una guerra; 3° ai sacrificii certi e ai pericoli probabili cui essa andava incontro col provocare le ostilità del mondo intero. Riguardo al primo di questi tre capi, Cavour prova che, nell'ipotesi in cui l' Inghilterra conservasse, anche durante una guerra, la supremazia sul mare, il suo com- mercio d'esportazione potrebbe aumentare coi paesi fuori dell' Europa perchè annullerebbe la concorrenza delle altre nazioni, non aumenterebbe, né diminuirebbe, quello colle colonie sue, distruggerebbe, o almeno diminuirebbe molto, quello coi paesi europei e gli altri compresi nel bacino del Mediterraneo. Ora, mentre l'ammontare to- tale del commercio d'esportazione inglese è, dice Cavour, di sterline 57,786,876, quello coi paesi mediterranei è di sterline 27,671,203, quello colle colonie è di sterline 14,509,621, e, infine, l'altro coi paesi fuori d'Europa in- dipendenti dall' Inghilterra è di sterline 16,606,412, quindi i rami di commercio che soffrirebbero da un guerra, sono molto più rilevanti di quelli che da essa verrebbero favoriti. Che se nella guerra entrassero gli Stati Uniti, i rami favoriti si ridurrebbero a meno di 10,000,000 di ster- line e i danneggiati aumenterebbero a più di 30,000,000, perciò è evidente che il mantenimento della pace è nel- r interesse dell'industria e del commercio inglese. CAPITOLO VI. 147 In quanto al secondo capo, si dice che la guerra, se sarebbe nociva agi' interessi attuali dell' industria inglese, ne favorirebbe i destini futuri perchè allontanerebbe i pe- ricoli d'una concorrenza futura. Cavour risponde che que- sto è un errore ; « la guerra, col chiudere i mercati esteri alle mercanzie inglesi, darebbe all'industria continentale una spinta fortissima, ne accelererebbe lo svolgimento, e la renderebbe, fra poco, più minacciosa ancora all'in- dustria dell'Inghilterra. Se poi la guerra si estendesse all'America Settentrionale, non v'ha dubbio che le fab- briche, le quali fanno alla Gran Bretagna una maggiore e più fatale concorrenza, quelle di cotone negli Stati Uniti, aumenterebbero a segno da porre a repentaglio l'esistenza stessa della massima sua industria, quella dei cotoni. » Quindi la guerra, come dannosa nel presente, è dannosa anche nell'avvenire all'industria inglese. In quanto al terzo capo Cavour prova che nessun acquisto territoriale veramente utile può sperare l'Inghil- terra. Non l'Algeria che le sarebbe dì peso, non le altre colonie transatlantiche francesi che non le rendereb- bero nulla; le colonie olandesi potrebbero giovarle, ma l'Olanda conserverebbe la sua neutralità e non darebbe nessun appiglio all' Inghilterra per occuparle. Due sole conquiste possono essere nei desideri! e negl'interessi dell'Inghilterra, Cuba e l'Egitto. Ma Cuba le sarebbe contrastata dagli Stati Uniti, che, per impe- dirgliene la conquista, non esiterebbero a muoverle una guerra a morte, fondata sul sentimento e l'interesse na- zionale, e, se mirasse all'Egitto, avrebbe contro la Russia, mentre poi non le converrebbe correre dei rischi per usurpare il dominio diretto di una contrada che è sotto la quasi assoluta sua influenza. Quindi nessun interesse 148 CAPITOLO VI. politico spinge l'Inghilterra alla guerra universale, men- tre, invece, molti motivi vi sono per indurla a fare ogni sforzo allo scopo di mantenere la pace. Anzitutto non le sarebbe più concesso di estendere il blocco a intere coste, anche quando non fosse effet- tivo, ne sarebbe impedita dagli Stati Uniti. La legisla- zione sui neutri nella guerra marittima non potrebbe più essere mantenuta a profitto esclusivo del commercio inglese come al tempo delle guerre napoleoniche. L' In- ghilterra avrebbe da temere danni gi'avissimi dalle navi armate in corsa dalle altre potenze, il cui numero e la cui efficacia dipende più dall' importanza e dal valore del commercio nemico che dalla forza effettiva della nazione di cui portano la bandiera, e.-sendo antica con- suetudine che le patenti di corsa siano concesse anche ai non nazionali. Se si rompesse la guerra, le flotte inglesi sarebbero probabilmente vincitrici, ma tutti i porti d'Europa e d'America gitterebbero sui mari infiniti legni corsari; forse ne soffrirebbe da ciò danni gravissimi il com- mercio europeo, ma non minori ne patirebbe il com- mercio inglese. Questi danni verrebbero compensati, per l'Inghilterra, solo nel caso che potesse chiudere ai suoi nemici i mercati esteri, esercitando il diritto di ricercare e di confiscare sulle navi neutre le mercanzie nemiche, e di dichiarare in istato di blocco tutte le coste avversa- rie. Ma gli Stati Uniti non permetterebbero questo, piut- tosto s'unirebbero ai nemici dell'Inghilterra, e, quindi, questa sarebbe obbligata o a rispettare, con grave suo danno, i diritti dei neutri, o a correre l'eventualità di una guerra colla grande repubblica americana. L'esito proba- bile d'una lotta fra questi due colossi, secondo Cavour, CAPITOLO VI. 149 sarebbe incerto, ma l'uno e l'altro ne soffrirebbero mol- tissimo. Indubbiamente poi gli efìTetti economici sareb- bero più dannosi all'Inghilterra, perchè questa sarebbe privata della massima parte della materia prima che alimenta la principale delle sue industrie, quella del cotone, e i disastri delle fabbriche inglesi andrebbero a tutto vantaggio delle americane, le quali, ampliandosi, anche dopo cessata la guerra, potrebbero sostenere la concorrenza colle inglesi. Conscii di questo pericolo, gli statisti britannici si sono sempre mostrati, contro il loro solito, molto re- missivi verso l'America, e anche per ciò si può ritenere che r Inghilterra non sarà mai proclive a provocare una guerra europea che porterebbe, come conseguenza, una guerra cogli Stati Uniti. Questa la conclusione cui arriva Cavour, secondo la quale l' Italia, nella guerra d'indipendenza, non ha nulla da temere dall'Inghilterra, ma non ne ha neppure nulla da sperare. L'apprezzamento che fa della politica inglese è pro- fondamente giusto, e nei suoi ragionamenti si vede già il partito che, dopo qualche anno, saprà trarre da questa propensione dell'Inghilterra per la pace, la quale egli riuscirà perfino a rivolgere contro l'Austria in vantaggio dell'Italia. Mentre molti italiani speravano nell' Inghilterra, altri, e precisamente i radicali o democratici, ponevano ogni fiducia nella Francia. « È impossibile che la repubblica francese prosegua la politica di Luigi Filippo e di Guizot, essa non può non schierarsi contro l'Austria, » questo si pensava e si diceva apertamente, e si seguitò a pensare e a dire fino a che la sconfitta di Novara, la riconquista 150 CAPITOLO VI. di Palermo, la presa di Roma, non fecero cadere ogni illusione. Cavour, lo abbiamo già visto, non risparmiò rim- proveri alla politica della monarchia di luglio, e si può aggiungere che non ne rimpianse la caduta, la quale gli parv^e giusta punizione degli errori e delle colpe in cui era incorsa, ma non s' illudeva neppure sulle intenzioni della Francia repubblicana. Questa o avrebbe combat- tuto l'Austria non per affrancare l' Italia, ma per sosti- tuirsi a quella nel dominarla, oppure sarebbe stata neu- trale, e ciò era più probabile, data la gravità delle sue condizioni interne. Infatti questo si avverò per dichiara- zioni esplicite del governo francese in occasione della invasione della Savoia. Quindi, mentre tanti speravano che l'esercito raccolto dalla Francia ai piedi delle Alpi passasse la frontiera, egli ammonisce che la passerà solo nel caso in cui la indipendenza nazionale fosse minac- ciata, in cui le truppe piemontesi fossero sconfitte e « il teatro della guerra dall'Adige e dal Mincio venisse tra- sferito sulla Sesia e sulla Dora. » Allora l'intervento della Francia « diventerebbe una tremenda necessità » per l'Italia, ma sarebbe mossa anche principalmente dalla necessità per la Francia di impedire che l'Austria arrivasse alle Alpi. Quindi come dall' Inghilterra, nessun aiuto può, se- condo Cavour, venire alla guerra d' indipendenza dalla Francia, altro che in eventualità che si deve sperare non si avvereranno mai. Un'altra speranza avevano i democratici e nutriva, per vero dire, anche il governo piemontese, quella di riuscire a stringere un'alleanza colla Svizzera. A questa fu infatti profferta da un inviato straordinario del Re di CAPITOLO VI. 151 Sardegna, ma fu anche dal direttorio federale rifiutata. Cavour ammonisce che quella speranza non poteva es- sere partecipata che da persone completamente ignare delle condizioni reali della politica svizzera, e che cre- devano di conoscerle per le notizie e i discorsi che leg- gevano nei giornali ; la Svizzera unendosi a noi sarebbe andata incontro a pericoli gravissimi e a ingenti sacri- ficii, senza « poter sperare in cambio ad essi altro com- penso che la gloria di aver cooperato al trionfo della causa dell' indipendenza dei popoli e della libertà euro- pea. » Ora gli Svìzzeri « sono poco disposti alle crociate, dalle quali non possano ridondar loro reali e non dubbii beneficii. » La Svizzera non ha esercito regolare, e quindi non è atta a una guerra offensiva, non ha i fondi per man- dare truppe oltre le frontiere, la Francia è interessata alla sua neutralità che le garantisce il più debole dei suoi confini, vi è interessata l'Inghilterra, e inoltre, rompendo guerra all'Austria, la Svizzera avrebbe corso il rischio d'essere invasa e di dovere difendersi in casa propria. In un solo caso la profferta del governo piemontese aveva probabilità di essere accolta, quando, cioè, si fosse pro- messo alla confederazione elvetica di cederle la Valtellina che già ne fece parte. Ma oltre che non si può cedere ciò che non si ha, la causa italiana sarebbe disonorata da una tale cessione. Non potendo offrire alcun com- penso alla Svizzera, era assurdo sperare di averne l'al- leanza. Cavour conclude augurando che, all'errore com- messo, il governo piemontese non aggiunga l'altro di mostrare risentimento pel rifiuto ricevuto, perchè è in- teresse italiano d'avere amico quello Stato e quel popolo, da cui si possono avere aiuti indiretti importantissimi. 152 CAPITOLO VI. XII. Appare adunque chiaro il concetto di Cavour : nelle condizioni in cui era allora l'Europa, l'Italia non poteva conquistare l' indipendenza che colle sole sue forze ; era la guerra un duello tra lei e l'Austria e non altro. Perciò doveva essere combattuta, dalla parte dell'Italia, ardi- tamente e saviamente, senza incertezze e tergiversazioni, usufruendo di tutti i mezzi che si avevano a disposizione, anche dei rivoluzionarli, purché però non sfuggisse di mano al governo la loro direzione. Ma purtroppo questo non avveniva e perciò Cavour, direttore e scrittore di un giornale sorto per la difesa delle idee moderate, si trova, a poco a poco, a fare opposizione al Ministero che le incarnava. Ma se egli rivolge biasimi al Ministero, non si unisce ai suoi avversarli, perchè sa quanto essi siano inetti e pericolosi ; anzi, quando è necessario, contro quelli lo difende e difenderà anche i suoi sostenitori ; era, insomma, un solitario, non nel senso che vivesse appar- tato, ma nel senso che aveva idee e concetti diversi da tutti quelli che allora prevalevano. Principalmente egli si lagna della condotta della guerra, che non gli pare sia la migliore desiderabile, e, quando alle vittorie suc- cedono le sconfitte e l'esercito è costretto a ritirarsi oltre il Ticino, le sue lagnanze si fanno più forti e arriva fino a proporre (il 22 agosto) una solenne inchiesta sulla condotta dei generali e principalmente del generale Bava, il più anziano e il più riputato tra essi. Egli non nomina il Re, ma è evidente che precisamente a questo mira, perchè a lui certo non era ignoto che appunto al CAPITOLO VI. 153 Re, soldato valoroso, ma generale non altrettanto esperto, si doveva in buona parte la cattiva condotta della guerra, resa anche più cattiva dalle preoccupazioni politiche che inceppavano le operazioni militari. A parte la condotta della guerra, Cavour aveva ra- gione di lamentare il cattivo andamento degli affari politici, principalmente di quelli che concernevano l'an- nessione delle Provincie lombarde e venete, per la co- stituzione del Regno dell'alta Italia. E noto come appunto in questo il Re e il governo piemontese si mostrassero incerti e titubanti, tanto da permettere alle passioni mu- nicipali di dilagare disperdendo miseram.ente le forze migliori della rivoluzione. Se, approfittando degli entu- siasmi, il Re fosse entrato in Milano all'inizio della guerra, ne avesse assunto il governo in via provvisoria e il par- lamento piemontese avesse decretata e attuata l'annes- sione della Lombardia e della Venezia, salvo a stabilirne poi i patti, e subito dopo avesse chiamati nel suo seno i rappresentanti di quelle provincie, qualunque fossero state le sorti della guerra, si sarebbe presentato all' Eu- ropa un fatto compiuto, un ordine legale, rendendo, per ciò solo, più difficile la restaurazione del dominio au- striaco, e per di più non avrebbero avuto tempo di prevalere le gelosie e le rivalità municipali, e il governo piemontese avrebbe avuto modo di domare anche le tendenze repubblicane e le mene degli arrufibni e degli austriacanti. Così infatti Cavour fece nel 1859 e avrebbe voluto che si facesse nel 184S, ma invece si tenne altra strada e si andò alla rovina. Fu lasciato sussistere il governo provvisorio di Lombardia e troppo tardi si decretò l'annessione di Venezia; si volle quel go- verno provvisorio autonomo con truppe e amministra- 154 CAPITOLO VI. zione proprie, e, poiché era necessariamente debole, non potè organizzare né la difesa, né l'offesa contro l'Austria, si trovò in balìa dei partiti estremi ed esposto alle malvagie influenze degli spiriti municipali. Passato il momento dei primi entusiasmi sì pensò all'annessione, ma, appunto perché non vi era più l' entusiasmo, fu discussa e sulle sue condizioni si sbizzarrirono i partiti ; finalmente fu subordinata a plebiscito e condizionata alla formazione d'un 'assemblea costituente eletta a suffragio universale che dovesse stabilire quale dovesse essere l'assetto politico del Regno dell'alta Italia. Il progetto fu sottoposto all'approvazione del parlamento di Torino e naturalmente i democratici piemontesi, sofisti e pa- rolai, vi si sbizzarrirono sopra accumulando proposte su proposte, sofismi su sofismi e dando prova d'una incapacità politica fuori del comune, mentre il popolo piemontese, specialmente di Torino, accorgendosi che in Lombardia si facevano più parole che fatti, che il peso della guerra ricadeva, quasi del tutto, sulle sue spalle e che, invece di gratitudine, era fatto segno a sospetti e a diffidenze, si disamorava sempre più dell'impresa nazionale. Se l'esercito avesse continuato ad essere vit- torioso tutto ciò non avrebbe avuto importanza, ma quando cominciarono le sconfitte, era naturale che i con- trasti, i sospetti, le passioni, gli egoismi, venissero a galla, e, appunto in queste circostanze, fu presentata al parlamento la legge d'unione della Lombardia inclu- dente il progetto della costituente. Cavour se ne occupò in tre articoli pubblicati il 20, il 23 e il 26 giugno. Co- mincia dal fare delle riserve sull'utilità d'una costituente per inalzare su solide basi « l'edificio costituzionale del Regno dell'alta Italia. » Avrebbe preferito fosse applicato CAPITOLO VI. 155 lo Statuto alle nuove provincie, salvo poi a modificarlo nelle vie ordinarie per mezzo del parlamento nel quale i rappresentanti di quelle provincie avrebbero dovuto entrare. Anche ammessa la costituente, avrebbe ritenuto miglior consiglio riunire nel medesimo modo tutti i rap- presentanti del vecchio e nuovo Stato per far deliberare da essi sulle urgenti misure richieste dai tempi e sulle norme da seguirsi per la convocazione della costituente stessa e l' indirizzo dei suoi lavori. Ma, poiché queste vie razionali non furono volute né dal ministero, né dalle Camere, né dai lombardi, è inutile recriminare, bisogna accettare la proposta e cercare che l 'assemblea sia con- vocata al più presto per uscire dal provvisorio, bisogna anche non esagerare i pericoli che dalla costituente pos- sono venire. Ma non perciò gli pare possa essere vo- tata nella forma proposta dal Ministero, e, sopratutto, gli pare assurda la clausola per la quale, mentre si dovrebbe operare immediatamente l'unione amministrativa delle nuove Provincie, non potrebbe, fino a che la costituente non avesse finito i suoi lavori, essere in nulla innovato il sistema legislativo che regge quelle stesse provincie, le quali, quindi, per circa diciotto mesi sarebbero con- darmate all' immobilità legislativa, rimanendo governate dalle leggi austriache. Pare tanto madornale, per questo rispetto, l'errore dei ministri, che non se ne sa render ragione, e quindi si spiega i timori e le diffidenze che la proposta fatta ha destato nell'animo di molti piemon- tesi. Urge quindi riparare quest'errore e inoltre bisogna calmare le apprensioni dei piemontesi. A quest'ultimo scopo si può arrivare stabilendo che Torino debba es- sere la sede dell'assemblea costituente, e che questa non possa trasferire altrove la capitale del Regno. Finché 156 CAPITOLO VI. dura la guerra non è possibile neppure pensare a tra- sferire altrove la sede del potere esecutivo, « operazione questa che gli toglierebbe per piìi mesi una parte dei suoi mezzi d'azione, principalmente il ministero della guerra rimarrebbe in uno stato di confusione e di di- sordine oltremodo dannoso.» È necessario poi che l'as- semblea costituente si raduni nella capitale del Regno, perchè i ministri ne possano far parte, essendo somma- mente dannoso escluderli, come prova l'esempio della rivoluzione, non imitato dalla seconda repubblica che, al contrario, volle i ministri scelti sempre fra i rappre- sentanti del popolo. Bisogna anche stabilire che l'assem- blea non possa mutare la capitale del Regno, perchè fino a tanto che non si è assestato il nuovo Stato e finita la guerra, non si deve introdurre un elemento di discordia e indebolire il potere esecutivo, gettando per- ciò un germe di sconforto e di abbattimento nell'animo dei generosi piemontesi « i quali, se non furono i più rumorosi fautori dell'indipendenza italiana, sono quelli certamente che hanno sparso, senza paragone possibile, con maggiore profusione, il loro sangue e i loro tesori per redimere la Lombardia dalla tirannide dello stra- niero. » A guerra finita, a costituzione compiuta, §i di- batterà la questione della capitale, non prima. Questi i concetti di Cavour che ribadisce nei due articoli sus- seguenti, e che convinsero il Ministero, tanto da in- durlo a presentare un'aggiunta alla legge per la quale veniva circoscritto il compito dell'assemblea costituente alla formazione della costituzione, le era proibito di de- liberare su altre materie e perciò anche sulla questione della capitale. È noto poi che gli avvenimenti, precipi- tando, non permisero che la costituente si riunisse e CAPITOLO VI. 157 quindi tutte le discussioni fatte in proposito riuscirono, nella pratica, perfettamente inutili. Ad ogni modo esse diedero occasione a Cavour di manifestare nettamente il suo pensiero. Molto più ardito nell'azione dei suoi amici politici e di molti tra i suoi avversarli, egli però affer- mava sempre nettamente il concetto che, perchè l'azione potesse essere ardita, bisognava che il governo fosse forte, che, facendo opera rivoluzionaria, avesse in mano i mezzi per dirigerla e frenarla all'occorrenza, e che, infine, bi- sognava usufruire delle forze del Piemonte, senza disper- derle o disgustarle, per arrivare a costituire l'Italia. In- somma egli ha netto in mente il concetto politico che poi svolgerà ampiamente come statista: fare la rivolu- zione senza divenire rivoluzionario, rimanendo nell'or- dine, anzi ripudiando i mezzi e i sistemi preferiti dal dottrinarismo rivoluzionario. XIII. Anzi, a proposito dei mezzi rivoluzionarli, égli ebbe occasione, traendo partito da un famoso e reboante di- scorso del Brofterio, di spiegarsi chiaramente in un ar- ticolo pubblicato il 16 novembre. « Vorremmo in primo luogo sapere, egli dice, che cosa s' intenda per mezzo rivoluzionario e perchè sia preferibile a tutti ? Finora il solo criterio col quale sapevamo giudicare della bontà di un mezzo qualunque stava nell'efficacia, nell'atti- tudine a produrre un fine. Rivoluzionario o pacifico, po- polare o realista, democratico o aristocratico, il mezzo non credevamo che avesse valore se non in quanto con- ducesse allo scopo. » Quindi se rivoluzionario vuol dire 158 CAPITOLO VI. efficace, la parola usata dal Brofferio non significherebbe nulla di nuovo. Neppure si può intendere che il Brof- ferio abbia voluto dire, usandola, che si deve sovver- tire la società, manomettere, scannare, bruciare; piutto- sto si deve intendere che abbia voluto dire che occorrono misure energiche, risolute da parte di chi comanda, e sacrificii insoliti e gravi di persone e di averi da parte del popolo che ubbidisce. « Or bene, in tutte le grada- zioni per le quali il prediletto vocabolo del signor Brof- ferio possa trascorrere, dalla modesta petizione fino al vespro siciliano, una sola cosa di vero si troverà: o si parla di un mezzo ben calcolato, efficace ed in tal caso rientra nella classe dei mezzi ordinarli, e la parola iH- vobizionario non toglie, né accresce la sua naturale bontà ; o si prescinde dall'attitudine intrinseca, ed in tal caso il carattere rivoluzionario non può giustificarne o com- pensarne il difetto. » Eppure le menti volgari così con- cepiscono le misure energiche, quelle che si dicono aW altezza delle circostanze . Ecco come Cavour delinea meravigliosamente il dottrinarismo della rivoluzione : « Concepire uno scopo, appoggiarsi sopra un'ipotesi, procedere di pensiero in pensiero, formare una conca- tenazione di elementi prescelti, astrarli dalle realtà che li circondano e li modificano, disprezzare gli ostacoli, irritarsi davanti a loro, abbatterli e aprirsi un passag- gio ; ecco tutto il sistema nella sua nudità. È un mondo ideale, architettato nel silenzio del gabinetto sugli istinti buoni o perversi del nostro cuore, è un tratto dell'umana superbia, al quale la natura oppone costantemente o l'impossibilità momentanea o la punizione del disin- ganno. » Del resto questi uomini dai mezzi rivoluzionarii non sono nuovi nella storia, la quale insegna « che non CAPITOLO VI. 159 furon mai buoni se non ora ad accozzare un romanzo, ora a rovinare le cause più buone dell' umanità. Quanto più disprezzano le vie della natura tanto meno riescono. » E qui Cavour accenna al famoso opuscolo dì Cormenin sull'insurrezione lombarda, e aggiunge: «Finché nel mondo reale esistano le contrarie forze di cui l'illustre scrittore non tenne conto nella sfera ideale del suo pro- getto, egli avrà scritto delle pagine d' una sublimità inimitabile e il soldato tedesco continuerà a riposarsi tranquillo in Milano. » Alle volte appare che i mezzi ri- voluzionarii riescano, la moltitudine applaude ma al- l'improvviso « sorge la fredda ragione, sorgono i bisogni inerenti alla specie, sorgono gl'invincibili interessi della famiglia; sorgono tutti come un' ondata, ingoiano il mezzo rivoluzionario e lo scopo è fallito. Si direbbe che la natura lì adeschi e li attenda, per poi beffarsi di loro ed avvezzarli a venerarne le leggi. » E qui Cavour ac- cenna alla rivoluzione francese, agli assegnati, a Marat, a Robespierre, al terrore, a Napoleone e infine alla se- conda repubblica che, dopo aver in apparenza voluta compiere, con mezzi rivoluzionarli, una completa rivo- luzione sociale, s'avviava rapidamente alla reazione. Le sue parole hanno qui un valore profetico e forse sarebbe bene che fossero meditate da molti anche oggi : « Una setta iniqua ed ignorante si è or ora levata sopra un ipotetico desiderio, vecchio come la storia e sucido come il più cieco egoismo. Trova contro di sé la scienza, l'affetto, l'individuo, la famiglia, ogni legge fondamen- tale dell'umana specie che importa? Essa ha fede vivissima nel mezzo rivoluzionario, è sicura di trionfare, ed intraprende il 24 giugno. Il sangue francese scorre a fiumi, la Francia all' orlo d' un abisso si desta, accorre l6o CAPITOLO VI. e sopprime la nuova follia. Che cosa è avvenuto? Cer- cavamo una repubblica democratica e sociale, avevamo in mano il germe di molte idee, che, svolte pacifica- mente e con mezzi ordinarli, avrebbero probabilmente fruttato qualche nuovo progresso nella scienza; e in- vece abbiamo raccolto, a Parigi lo stato d'assedio, in Piemonte una mediazione lenta e dubbiosa, a Napoli una vergognosa amicizia tra l'inviato repubblicano e il tiranno borbonico.... Attendiamo ancora un momento, e vedremo l' ultimo effetto del mezzo rivoluzionario. Luigi Napoleone sul trono. » E, dopo altre riflessioni acutissime, arriva alle seguenti parole che segnano il suo distacco dai moderati veri, cioè da quelli che mai si piegheranno ad usare i mezzi energici, anche quando sìa provato che sono veramente idonei a raggiungere lo scopo : « Tutto slam pronti ad ammettere, e non ci è cosa che ci spaventi, quando ci si ponga la questione nel suo vero punto. La spogliazione, la leva in massa, la propaganda, la carta moneta, se volete anche il ter- rore, tutto slam disposti a discutere ed abbracciare, quando ci sarà chi si fidi di dimostrare che sieno mezzi efficaci a conseguire ed assicurare l' indipendenza e la libertà italiana. Ma finché ci si venga a proporli in gra- zia del demerito che li distingue, in grazia del loro ca- rattere rivoluzionario, noi non sapremo che doppiamente abborrirli, perchè iniqui in sé stessi, e perchè tradiscono il fine supremo delle nostre tendenze. » Questo scritto di Cavour riepiloga il suo pensiero po- litico e, pubblicato quando la rivoluzione del 1848 ac- cennava miseramente a finire, annunzia il programma futuro che egli applicherà quando sarà ministro. Come abbiamo già più volte detto, Cavour non ha orrore della CAPITOLO VI, l6l rivoluzione, ma chiede ad essa, per ammetterla, che sia utile, che conduca allo scopo, che sia il mezzo migliore per raggiungerlo; questa forza bruta egli la vuole di- sciplinata e bisogna che lo Stato piemontese abbia l'abi- lità, l'accortezza, il vigore morale e intellettuale neces- sario a disciplinarla e a dirigerla. Cavour avrebbe voluto che avesse queste qualità nel 1848, purtroppo si vide che non le possedeva; egli proverà che può averle e, sotto di lui, la rivoluzione si compirà senza nessuno di quegli eccessi rivoluzionarli che egli abborre perchè la disonorerebbero, e anche perchè contrastano con quel- l'ideale di libertà civile e ordinata che è al sommo del suo pensiero e delle sue aspirazioni. XIV. Fin qui, esaminando gli scritti di Cavour pubblicati nel Risorgimento, ci siamo limitati a quelli politici ri- guardanti il Piemonte e l'Italia nel 1848. Ma la profon- dità e chiarezza del suo pensiero si manifesta splendi- damente anche negli altri che dobbiamo per necessità tralasciare. Nel mentre combatte per la indipendenza italiana, non trascura gl'interessi economici, propugna la co- struzione d' una linea diretta tra Milano e Genova, stu- dia gli effetti delle riforme politiche sulle condizioni ma- teriali dell'Italia, si occupa delle finanze pontificie; quando gli effetti della guerra si fanno sentire con triste riper- cussione sulle finanze del Piemonte, egli discute i mezzi per riparare al male che minaccia; le leggi finanziarie, Cavour. ii l62 CAPITOLO VI. i prestiti progettati sono da lui sottoposti ad un esame diligente e accurato ; le sue qualità di finanziere e la sua cultura economica si mostrano in tutta la loro in- terezza, armonizzandosi col suo concetto politico. E sono questi gli articoli che nei ceti piìi conservatori del Pie- monte gli procacciano fama e fiducia. Questo nobile che molti dicono, per l'ardore delle sue convinzioni poli- tiche, una testa sventata, un esaltato, si manifesta, in- vece, fornito d'una mente fredda e calcolatrice, per la quale l'arte della finanza non ha segreti, e come l'arte della finanza non hanno segreti per lui l'amministra- zione del Piemonte, e le sue condizioni economiche e, neppure, il grande mercato internazionale dei valori nelle borse mondiali. Ma il suo ingegno si manifesta altrettanto sovrano che nelle questioni italiane, sia politiche che economiche e finanziarie, anche in quelle che concernono le condi- zioni dell'Europa. Egli conosce perfettamente lo stato sociale e politico delle nazioni europee, principalmente della Francia e dell'Inghilterra, e ne parla con una si- curezza meravigliosa. Quando molti credono che la Fran- cia repubblicana muoverà in soccorso della Polonia, egli ammonisce che non potrà farlo ; quando molti predicono che l'Inghilterra andrà sconvolta dalle agitazioni sociali, egli sostiene di no, perchè quel paese ha una valvola infallibile di sicurezza : la libertà ; quando si tentano in Francia le riforme sociali promesse dai rivoluzionarli e queste destano una reazione terribile, egli le indaga, le scruta con una critica sottile e implacabile nella quale si rivela, oltre una conoscenza profonda delle condizioni di fatto, una mente perfettamente preparata a vedere il lato positivo d' ogni questione e d'ogni problema che CAPITOLO VI. 163 le si presenti ; e quando anche la Francia, appunto in causa della rivoluzione, si troverà immersa in una crisi finanziaria gravissima, egli, che aveva già acutamente scrutato l'ultimo bilancio della monarchia di luglio, esa- minerà la crisi colla stessa competenza di un banchiere francese, integrando questa con un senno politico che solo ai grandi statisti è dato di avere. Insomma, qualunque sia l'argomento che tratta, Ca- vour vi lascia l'impronta del suo genio. Questi articoli di giornale acquistano quindi una importanza straordi- naria, perchè egli vi si rivela non solo pensatore pro- fondo, ma anche grande statista. Scritti in fretta per cogliere l'opportunità del momento, la forma loro è spesso rozza e incolta, ma lo stile è forte, come netto il pensiero. Non v'è in questi articoli nessuna incertezza, ma non v'è mai neppure nessuna superficialità. Egli co- nosce la questione che tratta, sa quello che vuol dire e riesce a dirlo senza equivoci possibili. Perciò gli avversarli suoi, specialmente i democra- tici, sentono i suoi colpi, ne sono feriti, ma non riescono mai né a pararli, né a restituirli. Tra loro e lui v'è troppa differenza di cultura e d'ingegno; essi non lo capiscono, ma Cavour li capisce e li conosce perfettamente e va sempre a colpo sicuro. Perciò egli grandeggia già in Piemonte e in Italia mentre rovina la rivoluzione, trascinando con sé le in- genue e superbe speranze, le utopie buone e le cattive, le illusioni, gli errori, le colpe di quanti v'hanno par- tecipato. E mentre sui campi di Novara tramonta per sempre l'utopia federale neo-guelfa, mentre nelle rovine di Roma repubblicana perisce l'utopia mazziniana e Vittorio Ema- l64 CAPITOLO VI. nuele e Garibaldi salvano, per 1' avvenire, la parte vitale di queste due utopie : la libertà e l' unità, Cavour, da giornalista divenuto uomo politico e statista, si mette in mezzo a loro, e, colla monarchia e la rivoluzione, si appresta a costituire, a concretare nei fatti, la libertà e l'unità dell'Italia. i65 Capitolo VII. Cavour in parlamento. — Giudizio di Brofferio su di lui. — II. // primo parlamento subalpino. — Sue condizioni. — III. I partiti nel parlamento. — Perchè Cavour siede a destra. — Sua azione parlamentare. — Suoi discorsi principali. — Suo contegno nelle discus- sioni. — Cavour e il Ministero Alfieri- Perrone. — Cavour e Gioberti. — IV. Se il Cavour fosse stato ministro nel 1848 e 49 avrebbe potuto salvare V Italia ? Sua convinzione in proposito. — V. Nuove condizioni del parlamen'o, del Piemonte e deW Italia dopo Nova- ra. — Conseguenze dell' abdicazione di Carlo Alberto, carattere, ingegno e indole di Vittorio Emanuele. — Come tra lui e Cavour dovesse stabilirsi necessaria- mente un accordo. — VI. Cavour e il Mi?iistero D'Aze- glio. — Perchè si schiera tra i difensori di questo. — Lettera al Salvagnoli. — VII. Cavour leader della tnaggioranza ministeriale. — Discorso per l'aboli- zione del foro ecclesiastico e del diritto d'asilo. — Sue intimazioni al Ministero. — È nominato mini- stro. — Suoi colloquii con Alessandro Manzoni. — Vili. Cavour ministro d' agricoltura e commercio e delle finanze. — Diventa il leader del Ministero. — Riforme commerciali e finanziarie da lui operale. — Posizione preponderante che acquista. — Conseguenze che ne derivano. — IX. Spostamento della maggio- ranza. — Unione col centro sinistro. — Modificazioni alla legge sulla stampa. — Elezione di Urbano Rat- tazzi a Presidente della Camera. — Uscita di Cavour dal Ministero. — Giudizio sulla sua condotta. l66 CAPITOLO VII. I. Cavour non si è mai pentito di essere, prima che deputato e ministro, stato giornalista, anzi ha ammesso sempre che per lui il giornalismo fu una scuola pre- ziosa e impareggiabile. « Il giornalismo, diceva, è una scuola di tutti i giorni, nella quale tutti i giorni ci si perfeziona. Se non fossi stato giornalista non sarei mai divenuto uomo politico. » In questo egli esagerava, ma, indubbiamente, facendo il giornalista perfezionò e affinò le sue naturali attitudini alla vita pubblica, sopratutto imparò a conoscere gli uomini coi quali poi ebbe a che fare, e acquistò quella squisita sensibilità, per dir così, neir intendere e apprezzare i movimenti dell'opinione che fu non ultima causa dei suoi meravigliosi successi. Quando entrò in parlamento era già perfettamente pre- parato, non solo alla vita pubblica, ma alla parlamentare, che a molti, anche uomini politici di valore, presenta difficoltà gravissime e quasi insuperabili. Cavour non fu eletto nelle prime elezioni generali del 26 aprile 1848. Presentato in parecchi collegi cadde in tutti, fu combat- tuto dai retrivi come una testa calda e pericolosa, dai democratici perchè lo temevano e, per renderlo inviso ai liberali, lo dipingevano come un aristocratico quasi assolutista, e molto insistevano nel dichiararlo degno figlio di suo padre, il vicario di S. M. per la città di Torino, che la caduta dell' assolutismo aveva ridotto a vita privata. Nelle elezioni suppletive del 26 giugno, invece, fu eletto in 4 collegi, ed egli prescelse dei 4 il 1° della sua città nativa, Torino, al quale poi rimase sem- CAPITOLO VII. 167 pre fedele. Quando entrò in parlamento non aveva alcuna pratica del parlare in pubblico, si esprimeva male e stentatamente in italiano, ma, comprendendo che non è possibile stare in un'Assemblea politica senza possedere almeno una relativa facilità di parola e questa non si acquista che colla pratica, non si trattenne dal parlare quando gli parve opportuno, e tanto sì sforzò che di- venne oratore, se non sempre elegante, sempre effica- cissimo ; cioè riuscì a esprimere in forma chiara, precisa, convincente il suo pensiero e anche, spesso, arrivò a commuovere e ad esaltare i suoi uditori con quegli slanci di eloquenza nei quali più 1' oratore s' avvicina al poeta lirico. I capi democratici, quali il Valerio e il Brofiferio, che, prima dì lui, erano entrati in parlamento, ma che avevano già dovuto, loro malgrado, riconoscerne l'in- gegno superiore nella polemica giornalistica, credettero di potere averne facilmente vittoria alla tribuna parla- mentare. Essi erano, se non oratori nel più nobile e alto senso della parola come modestamente, nell' intima loro coscienza, si credevano, parlatori facili, ornati, spesso retorici, sempre ridondanti, possedevano il gesto largo e solenne, l'atteggiamento inspirato imparato nella Curia, nel quale fastosamente si svolgeva la povertà delle loro idee, della loro cultura e delle loro attitudini politiche. Non avevano la sottile e spesso sofistica, ma troppe volte efficace, eloquenza dell' avvocato civile, bensì in- carnavano quel tipo tra dì tribuno e di curiale, che è pro- prio dell'avvocato penale e che in modo meraviglioso sì adattava alla bolsaggine dottrinariamente democra- tica che avevano appresa dai modelli del radicalismo francese. Questi uomini, dei quali, ripeto, erano i capì più in vista e anche i migliori Valerio e BrofFerio, ere- l6S CAPITOLO VII. dettero che il parlamento piemontese fosse un campo nel quale potessero dominare incontrastati; s'inganna- vano; anche che nel parlamento non fosse entrato il Conte di Cavour, non avrebbero potuto mai, pel carat- tere stesso dell'Assemblea e del popolo, acquistarvi un'influenza preponderante, ma certo non pensavano che quel piccolo e grosso aristocratico, dalla pronun- cia che tradiva l'abitudine innata di parlare francese, li avrebbe attaccati con tanto vigore e nelle discussioni più accese e vivaci li avrebbe in breve vinti e debellati. Valerio impiegò molto tempo a riconoscere la superio- rità dì Cavour, ma infine la riconobbe e ne divenne os- sequioso ammiratore; Brofferio, invece, non la riconobbe mai interamente, e, benché i suoi rapporti privati col gran Conte divenissero abbastanza cordiali, crediamo sia morto colla persuasione che, in suo confronto, Cavour era un uomo politico di ben scarso valore. Nella storia del par- lamento subalpino che scrisse per incarico di S. M. il Re d'Italia e che stampò dopo che il grande Statista aveva lasciata la vita, così di lui parlava, descrivendolo al suo ingresso nella Camera piemontese: « .... nessuno si ac- corse mai che nella sua mente germogliasse qualclie pe- regrina idea e che nel suo cuore avvampasse qualche favilla di quel sacro fuoco che solleva gli uomini sopra la terra. Nuocevagli il volume della persona, il volgare aspetto, il gesto ignobile, la voce ingrata. Di lettere non aveva traccia, alle arti era profano, di ogni filosofia di- giuno, raggio di poesia non gli balenava nell'animo, istruzione pochissima; la parola gli usciva dalle labbra gallicamente smozzicata ; tanti erano i suoi solecismi che metterlo d'accordo col dizionario della lingua ita- liana sarebbe a tutti sembrata impossibile impresa. » CAPITOLO VII. 169 Certamente parve al Brofferio che questo suo giudizio non sarebbe riuscito accetto a molti, e, pur lasciandolo così espresso, volle temperarne l'amarezza, aggiungendo (bontà sua) che « coli' andar degli anni se non meritò la corona di eletto oratore, conseguì nondimeno giusta lode di abile ed arguto ragionatore; anzi, più d'una volta, sotto r impeto degli avversarli assalti, gli avvenne di sollevarsi in più sublimi sfere, dove soltanto al poeta e all'oratore è conceduto l'accesso. » Vengono in mente, leggendo queste parole, quei vec- chi marescialli austriaci che si vendicavano delle scon- fìtte inflitte loro da Napoleone, dicendo che non cono- sceva la tattica. Ma procediamo oltre. II. Le discussioni del parlamento subalpino, quando vi entrò Cavour, erano confuse e disordinate. Per quanto il Piemonte fosse molto meglio preparato degli altri paesi d'Italia alla vita pubblica, non potè formare subito la sua Assemblea elettiva con criterii ben determinati, so- pratutto non potè riunirvi molti uomini esperti delle di- scussioni e dotati di quelle qualità politiche che sono necessarie nel sistema parlamentare. Predominavano nella Camera gli avvocati, né la loro influenza appariva con- trobilanciata sufficientemente da altri elementi, i quali pure esistevano, ma non si erano ancora, diremo così, assuefatti al nuovo ambiente, non avevano trovata la linea retta su cui tenersi. Per di più, la cultura politica non era molto diffusa, sopratutto non erano conosciute, altro che molto superficialmente, le norme della disci- I70 CAPITOLO VII. plina e della tattica parlamentare; anzi, si può dire, che in modo superficiale erano conosciute quelle che vige- vano in Francia sotto la monarchia di luglio, erano ignote, o quasi, le norme della Camera dei Comuni inglesi. Di qui discussioni lunghe, farraginose, confuse, deliberazioni avventate o troppo timide, infine un' azione parlamen- tare nello stesso tempo prepotente e impotente. A peg- giorare le condizioni del parlamento concorrevano anche due fatti, dei quali pure bisogna tener conto. Il primo derivava dall'inesperienza stessa del Ministero, che, in quelle circostanze, avrebbe dovuto guidare, con mano forte e sicura, l'Assemblea elettiva e invece la lasciava a sé, senza farle sentire la sua influenza. Il capo del Ministero, Cesare Balbo, godeva d'una grande, e me- ritata, autorità morale, aveva intelligenza superiore e anche una cultura politica fuori del comune, per di più conosceva, meglio di tutti, fatta eccezione di Cavour, le esigenze del sistema parlamentare che aveva studiato e capito nella storia costituzionale dell'Inghilterra, ma non possedeva le attitudini pratiche alla vita pubblica, non era fornito di quell'elasticità di fibra, di quell'adat- tabilità politica che sono qualità indispensabili in uno statista parlamentare; per di più aveva le doti morali dell'oratore, ma non la prontezza nella risposta, il senso acuto e preciso della discussione che pur sono tanto necessarie per reggere le assemblee. I colleghi del Balbo, per quanto uomini degnissimi di stima e rispettabili per la loro cultura e la loro devozione al paese, erano, nel rispetto accennato, inferiori, non certo superiori, a lui, e, per di più, non andavano perfettamente d'accordo, né amministrativamente, né politicamente. L'altro fatto poi aveva una maggiore importanza e contribuiva, in modo CAPITOLO VII. 171 più determinativo, a rendere confuso e disordinato quel primo esperimento del governo parlamentare così in rapporto all'Assemblea che al Ministero. E, cioè, era enorme, difficile, intricato il compito del governo e del parlamento piemontese, tale, insomma, da riuscire im- pari forse anche alle forze d'uno Stato già da lungo tempo abituato all'uso della libertà politica. Bisognava esplicare lo Statuto, rinnovare, cioè, gl'istituti e la le- gislazione dello Stato, evitando gli urti troppo stridenti tra il vecchio e il nuovo, e, inoltre, era necessario di- rigere, concretare, determinare nei suoi effetti pratici, politici, una rivoluzione, la quale, per ragioni non tutte dipendenti, anzi in massima parte indipendenti, dal go- verno piemontese, appariva disordinata, contraddittoria e, per più versi, accennava a trasmodare quando il par- lamento subalpino fu convocato, ed era, per chiari se- gni, minacciata di fallire al suo scopo quando lo stesso parlamento dovette occuparsene ; poco dopo infatti mi- seramente fallì lasciando dietro sé disastri materiali e morali che, per gran parte, ricaddero sul Piemonte. Ma se quel primo parlamento subalpino appariva, ed era realmente, confuso e disordinato nelle discussioni e nell'azione, se non vi erano molto diffuse la cultura po- litica e le attitudini alla vita pubblica, bisogna pur dire che non solo era il migliore di quanti ne furono con- vocati in quel tempo in Italia, ma nei suoi membri era diffusa una maggior somma di virtù, di devozione alla patria, di buona volontà pel bene generale, di quella che abbiano dimostrata e dimostrino parlamenti molto più esperti e che, per la loro età, hanno avuto tempo e modo di acquistare una grande esperienza e di usu- fruire d' una lunga e nobile tradizione. 172 CAPITOLO VII. Parlando fin qui del parlamento, abbiamo inteso ac- cennare in modo speciale alla Camera dei deputati; in quanto al Senato possiamo dire che in esso, se certa- mente era maggiore conoscenza della amministrazione dello Stato, non era maggiore che nella Camera la espe- rienza delle discussioni parlamentari, le quali neh' alta Assemblea procedevano pivi tranquille, ma altrettanto confuse e disordinate che nell'elettiva; se nella prima era minore urto di passioni, è anche vero che le que- stioni politiche vi erano meno approfondite, e quindi l'influenza dell'alta Assemblea era molto debole, mentre avrebbe dovuto, in quelle condizioni dello Stato, essere forte per sopperire alle deficienze del governo e della Camera dei deputati. Queste le condizioni del sistema parlamentare in Pie- monte quando fu nominato deputato il Conte di Cavour. III. Cavour andò a sedere a destra, dove erano i soste- nitori del Ministero Balbo. Allora nel parlamento subal- pino erano due partiti, non certo bene ordinati e disci- plinati come i partiti inglesi di quel tempo, ma che avrebbero potuto svolgersi e perfezionarsi se, a impe- dirli, non fosse intervenuta, come vedremo in seguito, la pressione della questione italiana. A destra sedevano gli uomini dell'aristocrazia liberale, insieme a coloro che avevano accettato lo Statuto pur non avendolo deside- rato; questi tutti caldeggiavano r impresa dell'indipen- denza, senza dimenticare che erano sopratutto piemon- tesi e monarchici. Questo partito non era contrario alle CAPITOLO VII, 173 riforme che dovevano svecchiare lo Stato, abbattendo, o modificando, nella legislazione positiva gl'istituti che erano più proprii a un regime assoluto che a un go- verno libero, ma esigeva che si procedesse per gradi in questa via, tenendo conto di tutti gl'interessi e an- che di molti pregiudizi e sopratutto non si offendessero la religione e la Chiesa. Questo era il colore, il tono, diremo così, più generale della destra, ma, come è na- turale, nei varii banchi non era uniforme ed eguale, vi erano delle sfumature o, meglio, delle gradazioni che dovevano poi maggiormente accentuarsi in seguito, A sinistra sedevano in maggioranza i rappresentanti della borghesia, specialmente avvocati, democratici, come si chiamavano, alla francese, avversi, più che all'asso- lutismo, all'aristocrazia di cui questo si circondava e al clero che proteggeva, e, in mezzo ad essi, v'erano i li- berali antichi, i superstiti del 1821, i vecchi repubblicani o mazziniani (che non mancavano, del resto, neppure dall'altra parte benché più scarsi di numero). Da questi tutti r impresa italiana era caldeggiata con maggiore vi- gore di parole, se non di fatti, che non a destra e le riforme interne erano volute fortemente, sebbene spesso errassero nel modo di chiederle e più nel determinarle in una forma concreta. Anche qui, come a destra, v'erano sfumature e gradazioni che si accentuarono poi mag- giormente col tempo. Mentre la destra appariva quasi tutta sostenitrice del Ministero Balbo, la sinistra, nel suo complesso, appariva a questo contraria, senonchè importa osservare che in quei primi tempi, forse per la poca pratica della vita parlamentare, né r ministeriali, né l'opposizione si ma- nifestavano sempre chiaramente, con una linea di con- 174 CAPITOLO VII. dotta precisa, conseguente e permanente in ogni que- stione che si presentasse. Cavour andò a sedere a destra, come da giornalista si era schierato coi moderati, non perchè avesse una gran fiducia nel Ministero Balbo, del quale non ignorava le deficienze e le debolezze e conosceva gli errori, ma perchè su quei banchi erano, in maggior numero che nella parte opposta, gli uomini di governo, dei quali abbisognava il Piemonte. Il suo profondo senso politico gli faceva capire che in quel momento critico per il Pie- monte e l'Italia, con un Ministero debole e roso da una discordia interna che sempre più si accentuava tra i suoi membri, era necessario dar forza agli elementi conser- vatori, purché costituzionali, e in questa idea sempre più rimase, quando gli eventi precipitarono. La rivolu- zione italiana accennava a finire miseramente nella scon- fitta e nel disordine, né Cavour poteva farsi illusione in proposito; bisognava quindi salvare l' indipendenza e la libertà del Piemonte per l' avvenire, impedire che gli elementi più accesi prevalessero perchè avrebbero quasi giustificata una reazione all'interno forse minacciosa per le istituzioni rappresentative, avrebbero isolato il regno in Europa quando, appunto, aveva maggior bisogno di simpatie e di appoggi, e forse anche autorizzata l'Austria a un intervento diretto nel Piemonte stesso. Anche che le cose si fossero messe meglio, era sempre necessario che lo Stato piemontese rimanesse forte all' interno, per- chè il suo compito, dopo la defezione del Papa e del Re di Napoli dalla lega italiana e i malumori che si ma- nifestavano nelle Provincie lombarde, era divenuto molto più difficile. Per di più importava molto che i retrivi, gli assolutisti, i timorosi, ancora in gran numero in Pie- CAPITOLO VII. 175 monte, non avessero alcun motivo per farsi avanti pre- dicando, con apparenza, se non con sostanza, di ragione che tutti i mali, i disastri, le sconfitte che incombevano sullo Stato derivavano dall'avere esso cambiate le sue istituzioni tradizionali. Questi i concetti cui informò la sua azione Cavour appena entrò in parlamento, i quali, del resto, corrispondono perfettamente a quelli che di- fendeva e sosteneva nel suo giornale. Perciò egli, nonostante la sua imperizia nel parlare, attaccò subito arditamente gli avversarli, precisamente quelli che avevano più ornata la parola e che riscuotevano più applausi dai colleghi e dal popolo che si assiepava nelle gallerie. Sulla legge d'unione della Lombardia, per la parte che concerneva il sistema elettorale nella forma- zione dell'Assemblea costituente, nei progetti finanziari, nelle proposte d'ogni genere, fin nelle petizioni, egli porta la sua parola franca, precisa, se non elegante, mira, o direttamente o indirettamente, agli avversarli di sini- stra e anche riesce a colpirli. Ma non risparmia neppure il Ministero, nella cui capacità legislativa egli dichiara di non avere né punto né poco fiducia, e perciò, come è inviso alla sinistra, è guardato con una certa diffidenza anche dai suoi stessi compagni di destra. Quando cadde il Mi- nistero Balbo, e gli successe il così detto Ministero lom- bardo presieduto da Gabrio Casati, Pietro di Santarosa, cui era stato offerto il portafoglio delle finanze, nel ri- fiutarlo propose che fosse nominato in sua vece Cavour. « Io che conosco il mio amico, so che migliore ministro delle finanze non potrebbero trovare in fuori di lui, » così scriveva egli al Casati. Non se ne fece nulla, la let- tera arrivò che il Ministero era già formato, ma, a parte ciò, la proposta del Santarosa non sarebbe mai stata 176 CAPITOLO VII. accettata; Cavour, in quel momento, era inviso a troppi perchè si pensasse, dagli uomini parlamentari, a lui. Né egli avrebbe acconsentito a entrare in un Ministero che si presentava debole pel suo stesso modo di com- posizione, e, in ogni caso, impari alla gravità della situa- zione che doveva fronteggiare. La guerra, volgendo de- cisamente a male, inveleniva gli animi, specialmente dei Lombardi, acuiva i disserisi, dava forza agli estremi, rossi e neri, come sempre accade, rendeva più confuse le discussioni parlamentari. In quel disordine Cavour, che aveva l'animo addolorato per la perdita del nipote Augusto, morto eroicamente a Coito, poteva dire che purtroppo era stato profeta. Quanto accadeva egli l'aveva previsto, era la conseguenza degli errori che aveva sem- pre lamentati nel Risorgìnicnto e nella Camera elettiva ; a tali estremi si era arrivati perchè non si era tenuta la via diritta, la via maestra, quella che nella sua mente egli sentiva che era l'unica vera e buona; ma, pur es- sendo convinto di questo e nonostante che veda il par- lamento, il governo e il paese non consci della gravità della situazione e della qualità dei rimedi occorrenti a farvi fronte, Cavour rimane al suo posto di battaglia, addolorato ma non sconfortato, e nel giornale e nell'as- semblea seguita a combattere, a dire la verità, getta nella lotta politica la sua persona, si espone a perdere, e perde infatti, anche quella scarsa popolarità che col lavoro assiduo, colle prove più grandi di devozione al paese era riuscito ad acquistare. Il Ministero Casati fu travolto nella sconfitta dell'esercito piemontese, il Pie- monte era senza governo, quando il 19 agosto Ottavio di Rèvel e Cesare Alfieri si assunsero la responsabilità, enorme di fronte alla esasperazione generale, di formare CAPITOLO VII. 177 un Ministero che accettava l'armistizio Salasco come fatto militare e la mediazione della Francia e dell'Inghilterra. Nella mente dei ministri era il concetto di riordinare l'esercito e il paese, preparando novamente la guerra in migliori condizioni, nel caso, molto probabile, che la mediazione non riuscisse alla conclusione d'una pace coU'Austria che salvasse l'autonomia e l'indipendenza dallo straniero delle provincie lombarde e venete. Era quanto di meglio si poteva fare in quelle circostanze, non importava alcuna rinunzia da parte del Re Carlo Al- berto al programma italiano e salvava l'avvenire. Ma questo divisamento del IMinistero non fu voluto inten- dere dai più, e mentre nella Lombardia e nella Vene- zia, principalmente nella prima, si dichiarava che finita la guerra regia cominciava la popolare, e, suscitando tu- multi e sollevazioni parziali, si rendeva più facile all'Au- stria dì atteggiarsi in faccia all'Europa vindice dei prin- cipiì d'ordine e salvatrice della società contro l'anarchia, in Piemonte si gridava traditore il IMinistero; e Gioberti, invasato da un'ambizione politica meschina, irritato per la cattiva prova fatta dal suo programma neo-guelfo, si metteva a capo dei democratici, predicava la costi- tuente italiana, e dichiarava, in uno scritto tristamente celebre, che il Ministero aveva due programmi, uno pa- lese, quello enunciato da noi sopra, l'altro segreto che consisteva nell'abbandono dell'impresa nazionale, nella pace coU'Austria, ad ogni costo, e, magari anche, nella restrizione delle pubbliche libertà. Cavour sostenne, con tutta la forza d' un profondo convincimento, nel suo giornale il Ministero, si oppose, come comandante d' una compagnia della guardia na- zionale, a che i suoi soldati firmassero la petizione che Cavour. 12 178 • CAPITOLO VII. chiedeva al Re le dimissioni del Gabinetto e ne spiegò pubblicamente le ragioni ; insultato, osteggiato, insidiato in tutti i modi (fino si arrivò a concitargli contro i ti- pografi per impedirgli di stampare il giornale), stette fermo al suo posto sfidando coU'animo amareggiato, ma coraggiosamente e serenamente, la bufera, sicuro di se stesso e della bontà delle sue convinzioni. Egli capiva che solamente se il paese fosse tranquillo e il governo forte e rispettato, si poteva render fruttuosa la media- zione e, in ogni caso, si poteva preparare una nuova guerra; coi tumulti, i disordini, le declamazioni si di- sgustavano gli amici, si ringagliardivano i nemici e si spingeva il paese a sicura rovina. Il parlamento fu riconvocato il 16 ottobre, e la lotta contro il Ministero, fino allora agitatasi nei giornali e nei comizi pubblici, si accentuò maggiormente in parla- mento, e anche lì Cavour fu sulla breccia impavido e sicuro combattente. Si doveva giudicare dall'Assemblea elettiva l'operato del Ministero durante le vacanze par- lamentari, pronunciarsi sulla sua politica e, quindi, come è naturale, discutere dell'opportunità o no di ricomin- ciare la guerra. Ora mai discussione più inconcludente e pericolosa fu fatta da un'Assemblea politica quando il nemico era alle porte. Si declamava sulla guerra, si ingiuriavano gli austriaci, si facevano i propositi più pazzi, non si decideva nulla di concreto e di serio, ma si creava quell'ambiente torbido dal quale doveva fa- talmente uscire, non solo la guerra, ma anche la scon- fitta, perchè gli animi non solo si dividevano sempre più, ma si concitavano gli uni contro gli altri, si spar- gevano il sospetto, la diffidenza, la calunnia, ognuno dubitava, e vedeva da per tutto il tradimento. Pei demo- CAPITOLO VII. 179 cratici erano traditori i capi dell'esercito, molti ufficiali, i ministri, i moderati, le persone della Corte; pei mo- derati tradivano la causa italiana i democratici e gli esaltati ; la diffidenza e il sospetto si diffondevano nelle file dell'esercito, in tutte le classi della popolazione e, da ultimo, sorgeva il disgusto per l'indipendenza nazionale, ad ottenere la quale il Piemonte aveva versato il suo sangue e si era rovinato economicamente, senza averne alcun compenso né materiale, né morale. In questa discussione pronunciò un grande discorso il Conte di Cavour, e fu il primo nel quale dinanzi al parlamento si affermò come statista vero, ed anche riuscì a farsi applaudire. Pochi mesi di vita parlamentare ave- vano bastato a renderlo oratore forte e convincente. Ponendosi, come era suo costume, in mezzo ai con- tendenti egli cammina per una via sua propria, svolge considerazioni nuove, esamina la questione sotto aspetti e rapporti che gli altri oratori non avevano neppure in- traveduto. Il dibattito versava in questi termini precisi : il Ministero, interpellato da un deputato dì opposizione, il Ravina, intorno ai negoziati per la mediazione anglo- francese e sui propositi del governo intorno alla guerra, aveva risposto, per bocca del Pinelli, ministro dell'in- terno, che non poteva dare notizie precise su quei nego- ziati, che il governo non avrebbe accettata pace se non fosse riconosciutala nazionalità italiana, che l'armistizio coli 'Austria non era stato rinnovato esplicitamente, ma ognuna delle parti aveva facoltà di disdirlo otto giorni avanti, che il governo poteva essere indotto dal conte- gno dell'Austria a rinnovare la guerra, ma voleva es- sere il solo competente a giudicare se e quando con- venisse prendere questo partito. Dai discorsi prolissi e l8o CAPITOLO VII. retorici dell'opposizione sì ricavava che non doveva il Piemonte aver fiducia né nella Francia, né nell'Inghil- terra le quali, solo per reciproca gelosia, s'erano unite nella mediazione, che era pericoloso rimanere in uno stato né di pace, né di guerra, bisognava invece deci- dersi per la guerra e condurla vigorosamente : così si poteva ottenere un valido aiuto dagli amici che il Pie- monte poteva avere in Europa, approfittare della nuova ribellione di Vienna, dei moti d'Ungheria, dello spirito rivoluzionario serpeggiante in Italia e che, se il governo piemontese rimaneva inerte, poteva rivolgerglisi contro. Cavour comincia dal mettere in termini precisi il di- battito, segnando i punti di discordia tra il Ministero e l'opposizione. Quello non rinunzia alla guerra, la crede forse inevitabile, ma non vuole rinunziare alla media- zione; questa non fida nella mediazione, crede non solo inevitabile la guerra, ina opportuno il momento per ri- cominciarla. Egli crede alla buona fede delle potenze me- diatrici ; in quanto all'Inghilterra essa desidera vivamente la pace perché il suo commercio ha subito danni conside- revoli dalla guerra, è gelosa della formazione d'un nuovo impero germanico, che si cerca di fondare a Francoforte, il quale minaccia l'Olanda e vuole arrivare al mare del nord per divenire potenza marittima e contrastare la su- premazìa del commercio all'Inghilterra. Essa «considera la questione italiana, non già come questione austriaca, ma come questione germanica. Essa sa che l' impero austriaco non può più esistere nelle sue antiche condi- zioni ; ch'esso deve trasformarsi e diventare impero slavo, oppure essere assorbito dall' impero germanico. Quindi nel cooperare alla separazione dell'Italia dall'Austria, non indebolisce un antico e fedele alleato, ma bensì CAPITOLO VII. l8l combatte la politica ambiziosa d' un impero rivale. » Perciò l'Inghilterra sosterrà la mediazione utile all' in- dipendenza italiana ; a parte il suo interesse lo assicu- rano la lealtà di lord Russell e la tenacità di lord Pal- merston. Per ciò che riguarda la Francia, non si può da essa sperare che un concorso amichevole, un'azione pa- rallela, ma più debole di quella dell' Inghilterra, ma nulla più. Gli oratori dell'opposizione hanno sostenuto che dalla Francia si deve ottenere, più che una media- zione, un intervento ; questo sarebbe sommamente da de- siderarsi, ma è purtroppo impossibile. La Francia lasciò schiacciare la Polonia, il suo governo lascierebbe schiac- ciare l'Italia. E, poiché il Brofiferio aveva accennato a una possibile nuova rivoluzione che, scacciando i reggi- tori d'allora dalla repubblica, ne sostituisse altri megUo intenzionati verso l'Italia, Cavour prova che non è pos- sibile la risurrezione di Lamartine e che i probabili suc- cessori non potrebbero essere che gli uomini della repub- blica rossa, i quali instaurerebbero il regno del terrore e dell'anarchia. Da ciò una reazione violenta e la guerra civile; probabilmente l'esercito delle Alpi sarebbe ri- chiamato a Parigi per salvare lo Stato e la società ; in ultimo se ne avvantaggerebbe la causa del dispotismo. E vano dunque sperare nell'intervento francese; però si deve tener gran conto della mediazione ; a parte che essa può recare buoni frutti, il ricusarla improvvisamente suonerebbe ingiuria per le due potenze mediatrici, ed equivarrebbe a farsele nemiche, mentre è sommamente importante averle amiche, qualunque sia per essere l'esito della guerra. Venendo poi a parlare dell'opportunità o no di rompere le ostilità immediatamente, Cavour, con una precisione e un'acutezza di vedute straordinarie, l82 CAPITOLO VII. esamina le condizioni della Toscana e dello Stato ro- mano e ne conclude che in quel momento non posse- devano alcuna forza armata di qualche importanza per aiutare l'esercito piemontese, che non vi è da sperare aiuto efficace neppure dagli emigrati lombardi rifugiati in Svizzera, per quanto ben intenzionati, che l'insur- rezione della Lombardia, sebbene probabile quando le truppe ripassino il Ticino, sarà tanto più efficace se verrà ritardata, invece che precipitata la guerra. Ma poiché si è parlato, come d'un' eventualità favorevole da non lasciar sfuggire, dei moti di Vienna e degli scon- volgimenti delle Provincie austriache, Cavour, con una analisi finissima, determina il carattere vero di questi moti, esamina l' importanza della sollevazione slava, principalmente della boema e dell'ungherese, per con- cludere che nessun danno verrebbe al Piemonte dal- l'attendere. Quindi si deve lasciare il governo del re libero di determinare nella sua coscienza quale sia l'ora più opportuna per rompere la guerra. Come si vede, qui Cavour parla da statista ; manife- stamente egli ha un concetto chiaro e preciso della si- tuazione. Accettando la mediazione, fondandosi su di essa, il Piemonte è sicuro che l'Austria non denuncierà l'armistizio, perchè, se lo denunciasse, offenderebbe la Francia e l'Inghilterra; quindi ha tutto il tempo per riordinare le finanze e l'esercito e per prepararsi ad ogni eventualità. L'Austria vincitrice, dalla mediazione era non solo impedita di cogliere il frutto della vittoria, ma non poteva neppure decidersi per una nuova guerra; arbitro della pace o della guerra rimaneva il Piemonte, al quale l'indugio riusciva sommamente favorevole, an- che perchè lo metteva in grado di approfittare delle varie CAPITOLO VII. 183 contingenze e condizioni in cui si sarebbe trovato il ne- mico, per la rivoluzione interna che lo rodeva. La pa- zienza adunque era, non solo prudenza, ma senno, av- vedutezza politica; ma, poiché allora non vi era nei più né prudenza, né senno, né avvedutezza, era naturale che non vi fosse neppure pazienza. La discussione terminò senza che la Camera venisse a deliberare né prò, né contro il Ministero, e quindi la situazione politica, perchè non delineata nettamente, peg- giorò in modo sensibile essendo apparso evidente che se l'opposizione numericamente era in minoranza, aveva per sé l'opinione popolare più rumorosa, e la maggio- ranza, se valeva come numero, non era organizzata né pronta ad un'azione decisiva, né aveva la forza per do- minare gli avvenimenti. Cavour rimase sulla breccia impavido ; nel giornale e dalla tribuna parlamentare seguitò a combattere in ogni occasione ; la sua attività cresce quanto più urgente si fa il pericolo, ma mentre gli avversarli gli si scagliano contro rabbiosamente, gli amici non lo sostengono, per- chè non lo vogliono riconoscere per capo, non sentono, né capiscono la sua superiorità ; forse quelli che la in- tuiscono se ne adombrano ; insomma egli è costretto a combattere come soldato, mentre sarebbe bene, sarebbe necessario che fosse generale. Forse Cavour di ciò è convinto e quindi dolente nel suo intimo, ma non si scoraggia, né cede il posto per ciò ; si direbbe che egli goda nella battaglia, tanta è la foga colla quale si caccia in mezzo ad essa e coglie ogni occasione per azzuffarsi cogli avversaria Quando si leva a parlare le gallerie tu- multuano ed egli si rivolge ad esse fieramente redarguen- dole, i suoi discorsi sono interrotti ed egli fa appello l84 CAPITOLO VII. all'autorità del presidente e seguita a parlare, combatte tutte le proposte avversarie con una dialettica poderosa ; anche quando si trova di fronte a un avversario come il Pescatore che sostiene la progressività dell' imposta, ne infirma gli argomenti con ragioni d'ordine economico e politico che distruggono quelle d'ordine giuridico alle- gate dall'illustre giureconsulto; difende la guardia na- zionale che si mostra severa coi perturbatori dell'ordine, si vanta che la compagnia da lui comandata si distingua in quest'opera di tutela della pace pubblica, e quando l'opposizione, proseguendo nella sua opera insana, vorrà negare al generale Perrone (succeduto nella presidenza del Gabinetto al marchese Alfieri) il diritto di sedere in parlamento perchè, condannato a morte nel 1S21, aveva preso servizio nell'esercito francese e perciò aveva per- duta la cittadinanza sarda, egli, sfidando gli insulti, si meraviglierà che si possa dire a un deputato « che egli non è cittadino, perchè per aver sostenuto la causa della libertà fu condannato a morte. » È noto poi che il ge- nerale Perrone si fece eroicamente uccidere a Novara, mentre gli avvocati suoi avversarli non avevano ancora finito di declamare a Torino. Finalmente, non potendo più oltre resistere all'im- popolarità che lo investiva da ogni parte e agli attacchi continui che gli venivano dal parlamento, il Ministero diede le dimissioni e, come era indicato dalla situazione politica, il Re chiamò a formare il nuovo Gabinetto Vin- cenzo Gioberti, che era il capo dell'opposizione parla- mentare ed extraparlamentare. Il Gioberti formò il Mi- nistero, così detto democratico, che sciolse la Camera per costituirsi, coli 'appello al paese, una maggioranza più omogenea e fedele. CAPITOLO VII. 185 Come era facile immaginare, Cavour nelle nuove ele- zioni fu fieramente combattuto dal governo e dagli uo- mini di sinistra, e non potè essere rinominato deputato. Gli elettori gli preferirono certo cavalier Pansoya, noto unicamente perchè alcuni anni prima aveva proposta la fondazione d'una società i cui membri si obbligassero a parlare solamente l'italiano. Nonostante questa sua be- nemerenza, il nome del cavalier Pansoya non sarebbe certo passato alla posterità, se a dargli, se non fama, notorietà, non fosse intervenuto appunto il fatto di aver impedito al Conte di Cavour di entrare in parlamento. Il Gioberti non tardò ad accorgersi che il Ministero da lui aspramente combattuto aveva ragione di opporsi alla guerra immediata, la quale si sarebbe fatalmente convertita in un disastro terribile, e non tardò neppure ad accorgersi che nessun aiuto poteva venire al Pie- monte dalla Toscana e dallo Stato pontificio, in cui prevalevano i democratici e i repubblicani, e perciò erano minacciati di un intervento straniero a vantaggio dei sovrani legittimi. Fu allora che egli pensò di to- gliere motivo a quest'intervento, inviando truppe pie- montesi a rimettere sul trono il Granduca e il Papa. Con questo, egli pensava, si sarebbe salvata la libertà ita- liana, perchè i due sovrani, restaurati dai soldati d'uno Stato costituzionale, non avrebbero potuto abolire gli Statuti concessi, e inoltre si rinsaldava la lega dei prin- cipi e quindi riusciva più facile riprendere la guerra d'indipendenza. Né la Francia, né l'Inghilterra avreb- bero avuto ragione d' opporsi a questa restaurazione operata in Italia da armi italiane, anzi, probabilmente, avrebbero sostenuto il Piemonte garantendolo contro ogni improvviso attacco dell'Austria. In quest'idea del l86 CAPITOLO VII. Gioberti c'era molto di utopistico e fantastico, certa- mente era molto azzardato pensare che il Granduca e il Papa avrebbero aggradito l' intervento piemontese, era più probabile che l'avrebbero rifiutato; ma, ad ogni modo, era quanto di meglio si potesse fare in quel momento e metteva conto provare. Cavour, nonostante che non avesse gran simpatia pel Gioberti e a lui do- vesse di non esser più deputato, pensando più all' inte- resse del paese che alle sue diffidenze e ai suoi risen- timenti, fu largo di appoggio al filosofo improvvisato statista, nel quale, come dice il Ghiaia, ravvisava Vultima àncora di salute che rimanesse al paese. È noto come quando il Gioberti manifestò il suo proposito di inter- venire in Toscana, avendo trovati contrarli i suoi col- leghi del Ministero, pensasse che non avrebbe avuto l'appoggio della Camera, e perciò desse le dimissioni, che furono immediatamente accettate dal Re, il quale formò il Ministero che condusse a Novara. Cavour, che vedeva chiaramente il precipizio nel quale si sarebbe piombato lo Stato con una guerra non preparata, avrebbe voluto che il Re avesse rifiutate le dimissioni del Gioberti e, confermandogli la sua fiducia, lo avesse abilitato a formare un altro Ministero e magari a sciogliere nova- mente la Camera. Ed era tanto infervorato in questa idea che non si ritenne neppure dal far cenno in una lettera (che del resto aveva carattere privato) al generale Boyl di Putfigari dell'opportunità che l'esercito si pro- nunciasse apertamente per Gioberti. In quei giorni Ca- vour era in uno stato d'eccitazione e d'esaltamento molto simile a quello che ebbe all' annuncio di Villa- franca. La verità è, come nota il Ghiaia, che se egli aveva un temperamento di statista, aveva anche l'animo CAPITOLO VII. 187 d'un fervente patriotta, e, perciò, le sventure della pa- tria lo commovevano profondamente, molto più quando si sentiva impotente ad impedirle, pur vedendo la via che si doveva tenere per ciò. Quest'esaltamento gli durò fin dopo Novara, cioè fin quando, essendo rientrato in parlamento, si trovò di nuovo nella lotta politica e in- travvide dinanzi a sé un campo d'azione in cui eserci- tare la sua attività a beneficio del paese. IV. Quando la seconda guerra d' indipendenza finì colla sconfitta di Novara, oltre all' esaltamento da cui fu preso, si formò nella mente del Conte di Cavour la convinzione che se egli fosse stato ministro le cose sa- rebbero andate altrimenti. « Un amour propre excessif peut m'égarer, mais j'ai l'intime conviction que si l'on avait écouté mes conseils, si j'avais manie le pouvoir, j'aurais, sans effort de genie, sauvé le pays et, à l'heure qu'il est, fait flotter l'étendard italien sur les Alpes styriennes. Mais mes amis se sont joints à mes ennemis pour me tenir éloigné du pouvoir. » Così egli scriveva alla Contessa de Circourt. In quest'asserzione v'è una parte di vero e una parte di falso. Vero è che egli vide sempre giusto, che se- gnalò tutti gli errori che si commettevano, i pericoli cui s'andava incontro, che espresse chiaramente quello che si sarebbe dovuto fare e noi comprendiamo che aveva ragione, ma, se fosse stato ministro, è nostra con- vinzione che non sarebbe riuscito, non perchè a lui fos- sero mancate l'energia e la volontà, ma perchè la tem- CAPITOLO VII. pesta lo avrebbe travolto. Per riuscire, avrebbe avuto bisogno d'una libertà d'azione che non gli sarebbe mai stata concessa sotto il regno di Carlo Alberto, e, anche che questa gli fosse stata garantita, l'opinione pubblica italiana, agitata dal neo-guelfismo, dalle tendenze mu- nicipali, dai pregiudizii dottrinarli repubblicani, fede- rali, moderati e democratici, non lo avrebbe seguito. Noi ammiriamo la potenza del suo intuito politico, l'acu- tezza della sua percezione, ma dobbiamo convenire che l'una e l'altra erano sproporzionate alla rivoluzione del 1848 e non potevano in questa completamente spie- garsi. Non le tendenze rivoluzionarie lo avrebbero ab- battuto da sole, avrebbe saputo dominarle, ma, unite alle altre, si sarebbe da tutte insieme formato contro di lui un fascio di forze contrarie che non avrebbe po- tuto vincere. E questo anche perchè tutte le tendenze nel 1848 non erano pure, genuine e a determinarle en- travano molto i pregiudizii antichi e nuovi, l' inespe- rienza e, fino a un certo punto, anche la fatuità proprie di chi sente la necessità di cambiamenti, ma non ha ancora chiara la nozione degli ostacoli e dei pericoli che si oppongono alla loro attuazione. E se qualcuno questi conosce e sa, non è compreso né seguito, perciò rimane impotente e magari vilipeso e insultato. Per queste ragioni noi non crediamo che il Conte di Cavour sarebbe riuscito nel 1848, anzi è nostra opinione che avrebbe perduto, almeno in parte, quella forza di persuasione, quasi si direbbe di fascino, che spiegò, in modo così meraviglioso, dopo. Perchè uno statista possa spiegare la potenza del suo genio e operare grandi e nobili cose, bisogna che abbia, se non tutte, almeno parecchie condizioni non avverse ; CAPITOLO VII. Io statista che non ha genio politico non saprà appro- fittare delle condizioni propizie, e fallirà miseramente ; ma, se ha genio, vincerà tutti gli ostacoli, servendosi delle condizioni favorevoli per eliminare le altre che non lo sono ; se poi ha tutte le condizioni contrarie neppure il genio basterà a farlo vincitore. Ora appunto dalle sconfitte, dai disastri che segnarono la fine miseranda della rivoluzione del 1848, si formarono quelle condi- zioni propizie, che dovevano abilitare il Conte di Ca- vour a compiere l'opera grande cui si sentiva ed era eflfettivamente, per la fortuna d'Italia, chiamato. La prima condizione era il mutato spirito pubblico del Piemonte. La disfatta di Novara, e le sue disastrose conseguenze, invece di disamorare il popolo piemontese dalle istituzioni libere e dall' impresa italiana, lo infiam- marono maggiormente a conservare le prime, a prepa- rarsi per ritentare la seconda. La natura tenace e ferma del popolo si ringagliardì nella sventura, le sue ten- denze verso l'Italia si rafforzarono e, poiché la traco- tanza straniera infieriva su di lui, appunto perchè si era dato istituzioni rappresentative e aveva inalberata la bandiera tricolore, si attaccò maggiormente ad esse. Ma nello stesso tempo comprese che, per assicurare le sue istituzioni, per ritentare la prova in prò dell' indi- pendenza nazionale, bisognava, come si dice volgar- mente, fare giudizio, erano necessarie disciplina, ordine e pazienza. Questi concetti si svolsero gradatamente e, come è naturale, in misura differente nelle diverse classi IQO CAPITOLO VII. e nei diversi ceti sociali, ed ebbero una grande influenza sugli uomini politici e sul corpo elettorale. Così si può dire che in Piemonte, dopo Novara, non vi furono più assolutisti né repubblicani, nel senso pre- ciso della parola; lo Statuto fu accettato da tutti, tanto da quelli che non avrebbero mai voluto mutare le isti- tuzioni antiche del dominio sabaudo, quanto dagli altri che avrebbero desiderato una costituzione democratica e magari repubblicana; tra i due estremi poi v'era una numerosa gradazione di costituzionali affezionati ugual- mente alla monarchia e alla libertà. Quindi il parla- mento potè riordinarsi e discutere e approvare leggi e prendere determinazioni politiche, senza che si avesse a temere e a sospettare la buona fede dei deputati, né da una parte, né dall'altra. Naturalmente a questo non si venne d'un tratto, il giorno dopo Novara, ma si venne presto; il regno sabaudo, organismo robusto e che aveva in sé forze e ragioni di vita, superata quella terribile crisi, si avviò rapidamente verso la guarigione nel modo che abbiamo designato, e di essa si ebbero subito le prove più manifeste. Questo per ciò che ri- guarda la vita interna e lo svolgimento delle istituzioni rappresentative. Per ciò che riguarda poi la questione dell' indipendenza italiana si verificò un fenomeno presso a poco eguale. Anche i più attaccati alla forma storica del principato sabaudo, i municipali, come li chiamava Vincenzo Gioberti, compresero che non era più possi- bile abbandonare la bandiera tricolore, né separare il Piemonte dall' Italia, mentre dall' altro lato si com- prese che era assurdo e pericoloso ritentare le im- prese rivoluzionarie, senza la necessaria preparazione e senza metter capo al Re e al parlamento subalpino e CAPITOLO VII. 191 senza tener conto delle condizioni generali della politica europea. In quest'opinione non tutti convenivano egualmente, pur non dissentendone nessuno in modo assoluto, e quindi si formò, anche per tale rispetto, una gradazione che andava da quelli che, pur moderandosi, ritenevano ancora dei passati convincimenti rivoluzionarli, a quelli che, per la loro prudenza, si accostavano, e quasi si confondevano, coi municipali, di cui abbiamo parlato sopra. Insomma nel regno subalpino, dopo Novara, tanto per rispetto alle istituzioni rappresentative, quanto ri- guardo all' impresa italiana, si formarono quelle condi- zioni cui si è già accennato, che dovevano permettere a uno statista come Cavour di costituire libera e indi- pendente la nazione italiana. E questo anche perchè in tutta Italia, sull'esempio del Piemonte, si venne a creare una situazione presso a poco eguale; l'assolutismo in- digeno e il dominio straniero si trovarono come isolati nel paese e furono tratti a unirsi più strettamente tra loro, isolandosi per conseguenza sempre più ; le ten- denze prettamente rivoluzionarie s' indebolirono e, pur rimanendo sempre vivaci, non ebbero più, né poterono più aspirare ad avere, una funzione direttiva dello spi- rito pubblico, dovettero ridursi, in alcuni di buon grado, in altri per la forza delle cose, ad essere ausiliatrici, incitatrici soltanto di ogni movimento nazionale. A creare queste nuove condizioni molto contribui- rono l'abdicazione di Carlo Alberto e le qualità d'in- gegno e d'animo del suo successore Vittorio Emanuele. Non sappiamo quanto sia vero che Carlo Alberto di- cesse in un momento di sconforto : « Tutto è inutile, a 192 CAPITOLO VII. me gl'italiani non crederanno mai, a mio figlio soltanto concederanno la loro fiducia, » ma è certo che queste parole corrispondono, in molta parte, alla realtà dei fatti. L'abdicazione del Re magnanimo la sera di No- vara gli fu imposta dall' impossibilità morale in cui era di concludere una pace onorevole col vincitore e di ri- tornare vinto in Piemonte, ma, nel ridursi a così duro sacrificio, egli forse fu mosso dal pensiero che i ricordi del suo passato gli avrebbero tolta ogni possibilità di azione benefica nell'avvenire. Egli aveva dato lo Statuto, aveva inalzata la bandiera tricolore, aveva combattuto contro lo straniero per l' indipendenza nazionale, la sua missione era finita. Egli aveva distrutto l'assolutismo tradizionale della sua Casa, aveva rinunziato alla sua gloriosa bandiera azzurra, non poteva andare più in là; seguitando a regnare non avrebbe potuto né tornare addietro, né procedere avanti, avrebbe travolto nella rovina la corona della sua Casa, l' indipendenza del Piemonte, la fortuna della patria italiana, mentre, ab- dicando, trasmetteva al figlio suo, non soltanto la corona di .Sardegna, ma lo abilitava a cingere il suo capo con quella d' Italia. Vittorio Emanuele saliva il trono pa- terno, senza legami col passato, ma guardando l'avve- nire. Questo tutti capirono in Italia e fuori, non Io capi forse, e fu fortuna, l'Austria. D'altra parte Vittorio Emanuele aveva le qualità necessarie per l'alta impresa. Valoroso come tutti della sua Casa, aveva un finissimo senso politico, una profonda accortezza, un'audacia si- cura e cosciente, come solo i grandi della sua Casa eb- bero ; egli capì che bisognava essere re costituzionale e lo fu, che bisognava esser liberale e lo divenne, che era necessario far appello a tutte le forze vive del paese, CAPITOLO VII. 193 riunire intorno a sé, senza pregiudizii e preconcetti, gli uomini più capaci, e li chiamò, che si doveva secon- dare, per non averla contraria, l'opinione pubblica, e lo fece; era il Re che occorreva a Cavour e, benché tra i due, per la loro stessa natura, non potesse correre alcun vincolo di simpatia personale, si stabilì un ac- cordo fatto di stima e di fiducia reciproche, dal quale nacque la fortuna d' Italia. VI. Cavour, escluso, come abbiamo visto, dal parlamento per l'avversione dei democratici e del Ministero Gioberti, vi rientrò dopo che la Camera fu sciolta quando avven- nero il 15 luglio del 1849 le nuove elezioni generali. Il Ministero era allora, e fino dal 6 maggio, presieduto da Massimo D'Azeglio, il quale non pensò a chiamare suo collega Cavour. Contro questo esistevano diffidenze nei moderati, certo era ancora troppo inviso ai democra- tici perchè apparisse prudente farlo ministro, in un mo- mento in cui bisognava pacificare, piuttosto che irritare, gli animi. Il Chiala ritiene che Cavour si dolesse d'es- sere escluso dal governo e quindi non fosse pienamente sincero quando scriveva al Castelli : « Mi rallegro col paese dall'accettazione di D'Azeglio e ancora più che egli non abbia pensato a ricercarmi per collega. » Cer- tamente non serbò rancore di ciò e, appena rientrato in parlamento, tornò al suo posto di destra schieran- dosi tra i sostenitori del Ministero. Ma non rinunciò per questo all'indipendenza del suo giudizio; egli vo- leva che il Piemonte si tenesse egualmente lontano da Cavour. 13 194 CAPITOLO VII. Ogni eccesso, che rassettasse le finanze con una accorta e sapiente politica economica, che svolgesse lo Statuto traendone le conseguenze necessarie, cioè riforme so- stanziali nel campo amministrativo e nella legislazione, che facesse pace coll'Austria, ma non rinunziasse, nem- meno in apparenza, a mostrarsi italiano di sentimenti, di aspirazioni e di speranze; quindi il governo doveva inspirarsi a questi concetti per ottenere il suo appog- gio e quindi, anche, accettare e conquistare i voti di quanti nella Camera vi erano che convenissero con lui nelle idee, da qualunque parte sedessero. Cavour sedeva a destra perchè lì vi erano gli uomini atti al governo, ma non rinunciava anche all'idea di ricorrere agli uomini di sinistra, quando fosse necessario, ed era pronto ad abbandonare i suoi amici se non si dimostrassero di- sposti a seguirlo. In politica soleva dire che è assurdo serbare rancori, avrebbe potuto aggiungere che è anche assurdo tenersi, sempre e in ogni caso, legato da ami- cizie. Il suo genio lo inalzava sopra i partiti, l'opera grande che si sentiva destinato a compiere era tale da trascendere qualunque programma positivo di poli- tica parlamentare, e da richiedere l'aiuto di tutti gli uo- mini di buona volontà. In ciò risiede la cagione del dissidio con Massimo D'Azeglio, i cui primi indizii si possono rilevare fin da quando Cavour ne cominciò a sostenere in parlamento la politica. Il D'Azeglio, artista, scrittore, soldato, uomo politico, è certo una delle figure più simpatiche e belle del risorgimento italiano e nes- suno, senza mentire alla verità, può negare la sua azione benefica, utilissima, si può dire necessaria, dopo Novara. Conosciuto e stimato, per le sue qualità morali, anche dagli avversarli e dai nemici politici, amato dagli amici, CAPITOLO VII. 195 la sua indiscussa lealtà, il suo disinteresse, il suo amore al Piemonte e all'Italia, furono la più salda garanzia pel nuovo Re, che saliva al trono in circostanze difficilissime ed era mal conosciuto e sospettato da molti. L'accor- gimento politico di Vittorio Emanuele si mostrò appunto scegliendo il D'Azeglio a capo del suo governo. Nes- suno ebbe più il diritto di dubitare delle intenzioni del Re che aveva a suo primo ministro il più nobile e puro gentiluomo d'Italia. Ma il D'Azeglio, se aveva le qua- lità morali, non possedeva né l'acuta percezione, né l' in- gegno agile e pronto che occorrono a uno statista in tempi difficili, non era quello che si dice un genio in politica. In questa egli fu, come in arte e come in lette- ratura, un dilettante intelligente e coscienzioso, non di più. Perciò i pregiudizii, gli scrupoli, i preconcetti ave- vano sul suo animo un'influenza molto maggiore di quella che sia concessa a chi vuole guidare un popolo a compiere una rivoluzione nel suo assetto politico e sociale. Ed anche erano troppo forti in lui certe ripu- gnanze per permettergli di divenire un capo parlamen- tare. Egli aveva visto alla prova gli uomini della sini- stra in Piemonte e quelli che pensavano come loro in Italia durante la rivoluzione del 1848, non poteva di- menticare che su di essi in gran parte ricadeva la re- sponsabilità degli errori commessi, non li stimava, e quindi non era mai possibile che acconsentisse ad ac- cordarsi con loro. Egli vedeva dinanzi a sé una via dritta da percorrere, né da questa intendeva deviare neppure d'una linea per compiacere o disarmare gli avversarli, i quali voleva che sempre per lui rimanessero tali. Insomma, il D'Azeglio aveva le qualità necessa- rie per rassicurare le istituzioni rappresentative in Pie- 196 CAPITOLO VII. monte, per vincere le diffidenze che circondavano il trono del nuovo Re, per conquistare al Re e al Piemonte le simpatie dei liberali italiani, ma non aveva le doti ne- cessarie per riunire attorno al Re e al Piemonte tutte le forze, le aspirazioni, gli animi e i cuori del popolo d' Italia, dirigendole alla concretazione nei fatti del- l'ideale della indipendenza e della libertà della na- zione. Questo vedeva Cavour, ma poiché subito dopo No- vara ciò che importava maggiormente era di riparare ai mali e ai disastri della guerra, di salvare dalla rovina le istituzioni liberali e la monarchia, e poiché per ciò era, più d'ogni altro, adatto Massimo D'Azeglio, si schierò risolutamente, pur senza, come abbiamo detto, rinun- ciare alla indipendenza del suo giudizio, tra i sosteni- tori di questo. E nel Risorgimento , nel quale poco scri- veva ma che però sempre inspirava, e nella Camera difese il Ministero nella prima e più grave battaglia che ebbe a sostenere, quella intorno al trattato di pace col- l 'Austria. Forse Cavour (e lo si rileva dai suoi discorsi) non approvava in tutto quel trattato, non perchè non ritenesse necessario fare la pace, ma perché avrebbe vo- luto tutelare, in modo più chiaro e preciso, i lombardi e i veneti che avevano già la cittadinanza piemontese ; nonostante però questo suo particolar modo di giudi- care, accettò e sostenne il trattato stesso, il quale, come è noto, non ebbe i voti favorevoli della maggioranza della Camera elettiva, altro che dopo che questa fu rin- novata colle elezioni generali indette col famoso pro- clama di Moncalieri. Anche questo Cavour approvò, ma rimane dubbio se l'approvazione sua rispondesse in tutto al suo convincimento, o non piuttosto gli fosse imposta CAPITOLO VII. 197 da quello squisito senso di opportunità politica che egli possedeva. A noi pare che se Cavour fosse stato al governo avrebbe cercato, e forse sarebbe riuscito, di conquistare al trattato in questione i voti della maggioranza della Camera, venendo ad accordi coi migliori elementi dell'op- posizione, piuttosto che ricorrere a quel rimedio estremo che riuscì efficace, ma che, non riuscendo, avrebbe con- dotta a rovina o la monarchia o la libertà, o 1' una e l'altra insieme. Avendo il proclama di Moncalieri sor- tito il suo effetto, apparve poi come un ottimo provve- dimento, anche perchè di fronte all'opinione pubblica, non solo italiana, ma europea, provò la forza morale, l'ascendente del Re sul suo popolo, e perciò dissipò i timori che ancora esistevano sulla possibilità che il go- verno piemontese potesse, conservando la libertà, ga- rantire l'ordine e la pace. Ma appunto questo fatto per- suase maggiormente Cavour che non v'era alcun pericolo neir iniziare e portare a compimento quelle riforme in- terne che erano necessarie all'esplicazione piena e sin- cera delle istituzioni libere. E tanto più si persuase di ciò, vedendo che in Francia la tendenza radicale e gia- cobina appariva già vinta per l'assunzione alla presidenza della repubblica di Luigi Napoleone, quindi non si aveva a temere alcuna ripercussione dannosa alla monarchia e all'ordine da parte di quella nazione, mentre, invece, s poteva temere che piuttosto dalla Francia fosse inga- gliardito in Piemonte lo spirito reazionario. Per ciò che riguarda l'Italia, poi, appariva a Cavour evidente che per avvincere sempre più gli animi dei liberali italiani allo Stato sabaudo, per eliminare i pregiudizii regionali e politici, l'unico mezzo era di operare larghe e prò- igS CAPITOLO VII. fonde riforme che convincessero ognuno come dal Pie- monte avrebbe avuto l'Italia, non solo l'indipendenza nazionale, ma anche quegli ordinamenti liberali e civili che possedevano già le nazioni più progredite d'Europa. Egli espose in una forma succinta questo suo concetto in una lettera al Salvagnoli : « Non bisogna perdere coraggio ; finché la libertà esiste in un angolo della penisola, non vi è da disperare dell'avvenire. » Egli in- tendeva non la libertà inerte, ma la libertà operosa, feconda che rimuta lo Stato senza scuoterlo o indebo- lirlo, anzi rafforzandolo, e attua in una forma precisa e concreta tutti i progressi civili. VII. Cavour nella Camera, dopo l'approvazione del trat- tato coli 'Austria, assume l'atteggiamento di capo della maggioranza ministeriale, che, come sappiamo, era di destra, « coli' intento, dice il Ghiaia, abbastanza evi- dentemente significato di averla in sua balìa per spin- gere il Ministero nella via delle riforme e imporgliele all'uopo come una condizione assoluta del suo appog- gio, » Aggiunge il Ghiaia che egli già capiva che tutta la maggioranza non lo avrebbe sempre seguito, che una parte di essa si sarebbe staccata da lui, ma non si preoc- cupava di ciò perchè già pensava come, forse, per attuare i suoi concetti, gli sarebbe stata più utile una maggio- ranza meno numerosa, ma più compatta e omogenea, e, aggiungiamo noi, per conservarla sempre maggioranza egli già intravedeva la possibilità di unirle altri gruppi della Camera. CAPITOLO VII. 199 La sua attività parlamentare aumenta in questo pe- riodo e si determina sempre meglio ; egli si sente più sicuro, si muove più libero, capisce che è padrone del parlamento, anche degli avversarli che s'irritano contro di lui, Io insultano nei giornali, gli concitano contro il pubblico delle gallerie, ma non riescono a sottrarsi alla sua supremazia ; dal suo banco di deputato egli guida le discussioni, determina i voti, tiene in pugno il INIi- nistero, e questo, non con intrighi di corridoio, come si compiacciono annodare gli uomini politici piccoli di mente e d'animo, ma coli 'esposizione franca e aperta delle idee, colla prontezza e l'agilità dell'ingegno, col- l'avvedutezza e lo squisito e finissimo senso della realtà. Prende una parte preponderante nelle discussioni delle leggi finanziarie, colle quali si mirava a far fronte agli enormi disavanzi prodotti dalle due disgraziate guerre d' indipendenza, e, com'era suo costume, dalle conside- razioni economiche s'inalza alle politiche più alte; di- fende il Ministero dall'accusa rivoltagli, specialmente dal BrofFerio, di non avere ancora operate quelle ri- forme che erano una conseguenza necessaria, inevitabile dello Statuto, ma ne trae argomento per delineare un ampio programma liberale, che il Ministero attuerà, e per affermare che se esisteva realmente, come aveva detto il Brofferio, un partito contrario alla libertà, egli e i suoi amici lo avrebbero combattuto « con quella stessa franchezza ed energia che abbiamo talvolta im- piegata per combattere quelli che stimavamo essere il partito ultra-democratico. » In tutte le discussioni, ripe- tiamo, egli entra e porta una nota sua personale che lo inalza al disopra di tutti i suoi colleghi del parlamento ; le sue idee si diffondono e cresce l'ammirazione pel suo CAPITOLO VII. ingegno, per la sua abilità, si forma, cioè, quell'opi- nione, più che favorevole, pienamente fiduciosa che lo porterà al governo e ve lo manterrà, e della quale, egli, coscientemente, si gioverà per compiere l'opera grande che era il suo supremo ideale. La discussione maggiore, più importante e nella quale Cavour assunse, in modo più deciso, l'aspetto e la parte di statista e leader parlamentare destinato a una grande e feconda opera di governo, fu quella in- torno alla proposta di abolizione del foro ecclesiastico e del diritto d'asilo. Non era questa una riforma radi- cale, tutt'altro ; quasi tutti gli Stati cattolici avevano già abolito, senza serio contrasto da parte della Chiesa, quell'odioso privilegio; l'Austria stessa. Stato assoluto, fin dai tempi di Giuseppe II, l' aveva tolto dalle sue leggi. Massimo D'Azeglio, conservatore fin che si vuole, timido fautore di riforme liberali, decisamente avverso ad ogni riforma che fosse di carattere democratico, aveva troppo conosciuto da vicino il dominio sacerdotale e aveva troppo squisito il senso della giustizia sociale, per esitare nel proporre al parlamento quella riforma che toglieva uno degl' istituti più antipatici nei quali, in tempi moderni, si affermava ancora la supremazia prepotente della Chiesa. Inoltre poi quell'abolizione era una conse- guenza inevitabile dell' eguaglianza giuridica di tutti i cittadini, proclamata dallo Statuto. Perciò il Ministero D'Azeglio, per mezzo del guar- dasigilli Siccardi, non esitò a presentare al Parlamento il disegno di legge che conteneva la riforma in que- stione. E lo presentò nonostante che la Curia romana vi si opponesse fieramente, riguardandola come un' in- giuria gravissima ai legittimi diritti della Chiesa ; vi era CAPITOLO VII. quindi un lato politico della questione che bisognava attentamente considerare: abolendo il foro ecclesiastico, il Piemonte non solo operava una riforma interna im- portantissima di carattere liberale, ma iniziava una poli- tica di lotta, di contrasti, col papato, al quale i principi sabaudi si erano sempre mostrati forse eccessivamente deferenti. Il D'Azeglio non aveva scrupoli religiosi, non lo spaventavano né le scomuniche, né le altre censure ec- clesiastiche, convinto della necessità di quell'abolizione, vi persistette, forse senza vederne chiaramente tutte le conseguenze politiche immediate e lontane, ma, anche se le avesse vedute, molto probabilmente non avrebbe re- ceduto, perché, da quel gentiluomo leale e coraggioso che era, quando era persuaso dell' intrinseca bontà d'un provvedimento, ad ogni costo lo voleva attuato. Ma invece la importanza politica della proposta abolizione fu vista e apprezzata benissimo da una parte della de- stra e da Cavour. Il Balbo, il Rével, il Menabrea e altri dei piìi auto- revoli deputati di destra che fino allora avevano appog- giato il Ministero, non lo vollero seguire in questa questione; non che volessero difendere l'odioso privi- legio del clero; erano persuasi che dovesse sparire dalla legislazione piemontese perchè incompatibile collo Sta- tuto, ma si rifiutavano di abolirlo in contrasto colla Chiesa e il Papato. Si riprendessero le trattative colla Corte di Roma, si cercasse in tutti i modi di vincerne le ripugnanze, si facessero delle concessioni, si usasse pa- zienza, con Roma si riesce sempre a concludere quando si salvino le forme. Rompere le trattative, abolire il privilegio del foro in contrasto con Roma, significava CAPITOLO VII. abbandonare la condotta politica fino allora tenuta, schierarsi contro il papa, allearsi coi liberali avanzati, con quelli che lo avevano sempre combattuto, togliere allo Stato piemontese la sua più gloriosa caratteristica, quella di essere uno Stato eminentemente devoto alla religione e alla Chiesa. Per ciò che aveva riguardo alla situazione parlamentare, insistere nella legge abolitiva del foro ecclesiastico significava spezzare la maggio- ranza di destra che fino allora aveva sostenuto il Mi- nistero, per costituire una nuova maggioranza con ele- menti fino allora ritenuti pericolosi e che avevano sempre avversata la politica saggia e moderata. Questi motivi che persuadevano gli uomini di destra pura a respin- gere la legge proposta, convincevano maggiormente Cavour a sostenerla; per lui bisognava che il Piemonte facesse un passo decisivo nella via della libertà ; era ne- cessario che, senza divenire anticattolico, la rompesse risolutamente col papa che aveva abbandonato la caxisa italiana per mettersi cogli stranieri e coi tiranni oppres- sori, bisognava costituire, o meglio preparare, la co- stituzione d' una maggioranza parlamentare nuova che fosse nello stesso tempo moderata e liberale, senza pre- giudizii, senza riserve, capace d'ogni ardimento che non fosse temerario. Perciò Cavour non solo fu tra i so- stenitori della legge proposta, ma volle chiarire il suo pensiero e i suoi intendimenti con un discorso che pro- dusse una straordinaria impressione nel parlamento, e anche in Italia. Egli cominciò dal dichiarare che non intendeva trat- tare la questione in rapporto al diritto civile e al cano- nico, cosa già fatta da altri oratori, ma unicamente dal punto di vista politico. La legge, secondo gli oratori CAPITOLO VII. 203 avversi, non era opportuna, benché intrinsecamente buona, ma « quando una riforma deve produrre un im- mediato beneficio, perciò solo questa riforma è oppor- tuna, e ci vorrebbero abbondantissime ragioni in con- trario, onde combattere questo primissimo e fondatissimo argomento. » L'inopportunità della legge si voleva di- mostrare da alcuni dicendo che i tempi erano tranquilli e non conveniva turbare questa tranquillità, da altri perchè i tempi non erano abbastanza tranquilli, e non conveniva introdurre nuovi elementi di discordia e di agitazione nello Stato. Ai primi egli risponde che « è appunto quando i tempi sono tranquilli che i veri uo- mini di Stato, i veri uomini prudenti pensano ad ope- rare le riforme utili; » ai secondi che se si aspetta una maggiore tranquillità si corre il rischio di aspettar troppo. « Credo si possa prevedere, se non la probabilità, la possibilità almeno di tempi procellosi. Ebbene, o si- gnori, se voi volete provvedere per questi tempi pro- cellosi sapete qual sia il miglior mezzo? Esso è di fare le riforme in tempi pacifici, si è di riformare gli abusi mentre ciò non vi è imposto dai partiti estremi. Se vo- lete ridurre all'impotenza, o almeno scemare la forza di questi partiti, non avete miglior mezzo che togliere loro l'arma più potente, che è quella di domandare la riforma degli abusi, la cui esistenza non può essere contestata. » Poi, dopo avere dimostrato che è inutile rivolgersi novamente per trattative alla Santa Sede, Cavour viene a trattare la questione politica. Egli dice che per quanto forti fossero le divergenze intorno alla politica interna nella Camera e nel paese, durante le guerre d'indipendenza, queste non ebbero, appunto per la gravità degli avvenimenti esterni, campo di manife- 204 CAPITOLO VII. starsi. Ma era naturale che nelle condizioni nuove le questioni interne acquistassero una maggiore impor- tanza, che il partito liberale richiedesse l'applicazione dello Statuto in tutte le sue parti « e l'attuazione di quel progresso che il medesimo prometteva. » Per parecchi mesi fu impossibile al Parlamento discutere alcuna ri- forma, e perciò « negli spiriti di molti nacque una dub- biezza, uno scoramento dacché si credette che le nostre forme costituzionali fossero incapaci a produrre quegli efifetti che erano richiesti dall'opinione pubblica, e che la necessità dei tempi imperiosamente esigeva. Quindi nacque in taluni una disaffezione per le nostre forme rappresentative. » D'altra parte, il partito che non avrebbe voluto lo Statuto, che lo accettò con rassegnazione, « vedendo che si poteva vivere sotto il regime costituzionale, senza nulla riformare, rimanendo nello statu quo, giunse a poco a poco a vedere che si poteva mantenere lo Sta- tuto e anche retrocedere un poco. » Cavour aggiunge che non crede questo partito così potente come da al- cuni si ritiene, non crede possa mai divenire prepon- derante, ma può acquistare tale forza da creare imba- razzi al governo e da rendere nell'avvenire sempre più diflicili le riforme. « Io credo quindi che è opportunis- simo che il Ministero faccia un atto che dimostri qual sia il vero, l'intimo sentimento del governo. Era anzi urgente che per parte dei consiglieri della corona si facesse un atto tale che stabilisse su base certa il prin- cipio politico che essi intendono propugnare, ed io ve- ramente non saprei immaginare una riforma a quell'uopo più adatta di quella che ora viene sottoposta alle nostre deliberazioni. » CAPITOLO VII. 205 Se il Ministero avesse continuato in una via semi- negativa, i retrivi e i liberali avrebbero continuato ad allontanarsi dal principio costituzionale e, quindi, a poco a poco il paese si sarebbe diviso in campi extralegali, e il partito costituzionale si sarebbe trovato isolato, ri- dotto a pochi uomini scherniti col nome di dottrinarli. In quanto alle conseguenze immediate della riforma nell'interno del paese, cioè intorno al timore che alieni dal governo libero una parte notevole del clero e del popolo, Cavour dice che essa non intacca la religione, e che l'abolizione d'un privilegio odioso tornerà alta- mente utile all'influenza del sacerdozio, quindi è fare ingiuria al clero supporre che possa destare in esso un'ostilità duratura contro le istituzioni, il governo e il parlamento. Piuttosto accadrà che quella parte del popolo e del clero che è copertamente ostile alla libertà, sarà dalla riforma obbligata a smascherarsi e in ciò « in- vece di vedere una ragione per rifiutare la legge, io ne vedo anzi una per accoglierla, giacché credo infinita- mente meno pericolosi i nemici aperti che i nemici oc- culti. » Né la riforma è una concessione fatta allo spirito rivoluzionario, non intacca il principio d'autorità, anzi lo rafforza. Hanno potuto resistere alla bufera rivolu- zionaria non quei governi che si opposero alle riforme, ma quelli che le seppero fare a tempo prima che fossero imposte dalla rivoluzione. « Se il signor Guizot, il quale non contrastava egli stesso la giustizia di coloro che do- mandavano la riforma elettorale, non l'avesSe rimandata come inopportuna, è probabilissimo che Luigi Filippo sarebbe ancora sul trono. » Il solo paese che seppe pre- servarsi dalla bufera rivoluzionaria è l' Inghilterra. « In quel paese uomini di Stato, i quali avevano caro il prin- 206 CAPITOLO VII. cipio conservatore, che sapevano far rispettare il prin- cipio d'autorità, ebbero pure il coraggio di compiere quelle immense riforme, a petto delle quali quella di cui noi ci occupiamo è ben poca cosa, e ciò, quan- tunque una parte numerosa dei loro amici politici, le combattessero come inopportune. » E dopo aver accen- nato alla emancipazione cattolica fatta da Wellington, alla riforma elettorale fatta da lord Grey, all'economica fatta da Peel, conclude con questa perorazione che fu applaudita da tutta la Camera : « Vedete dunque, o si- gnori, come le riforme compiute a tempo, invece d'inde- bolire l'autorità, la rafforzano; invece di crescere la forza dello spirito rivoluzionario, lo riducono all' impo- tenza. Io dirò dunque ai signori ministri : imitate fran- camente l'esempio del duca di Wellington, di lord Grey, di Sir Roberto Peel, che la storia proclam.erà i primi uomini di Stato dell'epoca nostra; progredite larga- mente nella via delle riforme, e non temete d'indebo- lire la potenza del trono costituzionale che è nelle vostre mani affidato ; che invece lo afforzerete, invece con ciò farete sì che questo trono ponga nel nostro paese così salde radici, che, quand'anche s'inalzi intorno a noi la tempesta rivoluzionaria, esso potrà non solo resistere a questa tempesta, ma altresì, raccogliendo attorno a sé tutte le forze vive d' Italia, potrà condurre la nostra nazione a quegli alti destini cui è chiamata. » Evidentemente, così parlando, Cavour non era più un deputato che sostenesse un Ministero, ma un deputato che faceva un suo proprio programma di governo e lo affermava altamente mirando a formarsi una maggio- ranza sua propria. Forse di ciò egli non si rendeva per- fettamente conto, perchè lealmente sosteneva il Mini- CAPITOLO VII. 207 stero, solo cercando che si rafiforzasse e rinvigorisse nei propositi liberali, ma è certo che egli appariva troppo superiore agli altri, ai ministri stessi, perchè tutti, co- minciando da lui, non s'accorgessero che il suo posto era al banco del governo. Manifestamente Cavour avrebbe voluto nel Gabinetto una maggiore audacia e determi- natezza di decisioni, un movimento più franco; non certo era nel suo pensiero che il Ministero cambiasse la base parlamentare sua portandola a sinistra (egli stesso, pochi giorni dopo il discorso per l'aboUzione del foro ecclesiastico, ebbe cura di segnare, anche nei rap- porti colla Chiesa, i punti che lo dividevano dalla sini- stra come partito), ma avrebbe voluto che riuscisse a conquistare i voti dei migliori e più temperati uomini dell'opposizione. Perciò, mentre nel Risorgimento am- plificava, dimostrandolo maggiore di quello che era in realtà, il dissenso tra la destra più conservatrice e il Ministero, nei discorsi alla Camera, nota il Ghiaia, as- sumeva piuttosto il tono di un protettore che non di un amico fedele di questo. In questo senso egli parlò il 2 di luglio e, sempre nota il Ghiaia, « si esibì disposto a concedere un bill d'indennità ai ministri per non aver dato mano alle riforme promesse e sperate, ma ad un tempo li avvertì che, se all'aprirsi della prossima .ses- sione non avessero mutato sistema, egli avrebbe negato loro risolutamente il suo appoggio. » È un' intimazione questo discorso ; occorrono riforme amministrative, ri- forme militari, riforme sopratutto economiche e finan- ziarie; Cavour le enumera; se il Ministero le promuo- verà, avrà il suo voto, se no, no. Pochi giorni appresso, mentre la Camera s'era prorogata, mori Pietro di San- tarosa, ministro d'agricoltura, industria e commercio, e 208 CAPITOLO VII. l'opinione pubblica designò Cavour a succedergli, perchè nella maggioranza ministeriale non si trovava uomo più indicato di lui. Nel Ministero i pareri erano discordi, la maggioranza dei ministri, compreso il D'Azeglio, era contraria a Cavour, il La Marmora, invece, che era amico così del Cavour come del D'Azeglio, tanto insistette che riuscì a vincere le titubanze e anche le ritrosie di Massimo, il quale, almeno, avrebbe voluto soprassedere, aspettare la riapertura della Camera. Il D'Azeglio di- ceva: «Costui in un mese ci metterà sossopra tutto il Ministero.» E il La Marmora rispondeva: « Ma ti sbagli: Camillo è un gran buon diavolo e poi vicino a noi si modererà. » L'uno e l'altro in parte erano nel vero, in parte sbagliavano. Cavour non avrebbe messo sottoso- pra il Ministero per impulso di ambizione o per spirito d'intrigo, come supponeva il D'Azeglio, e in ciò aveva ragione il La Marmora di chiamarlo un buon diavolo, ma questi errava però ritenendo che Cavour, una volta ministro, avrebbe rinunciato alle sue idee, per accettare quelle dei colleghi. Più acuto giudice e conoscitore di Cavour si mostrò Vittorio Emanuele, quando, essendosi fatto il suo nome come quello d'un futuro ministro, esclamò rivolto al Galvagno : « Ma come non veggono loro che quell' uomo li manderà tutti colle gambe al- l'aria? » Vittorio Emanuele aveva intravvista la potenza do- minatrice e affascinatrice dell'uomo e non era molto proclive a chiamarlo al governo, temendo che l'opera del ministro avrebbe lasciata nell'ombra quella del Re, ma aveva troppo buon senso per rifiutarsi a una no- mina che era indicata dall'opinione pubblica e proposta dal Gabinetto che aveva la sua fiducia ; perciò cedette, CAPITOLO VII, 209 e Cavour 1' 11 ottobre era ministro. Dalla morte del San- tarosa a questa data erano passati parecchi mesi, e c'erano voluti tutti per vincere le difficoltà e le dif- fidenze. Anzitutto alle prime profferte del D'Azeglio egli rispose che non aveva difficoltà a mettersi d'accordo con lui in tutti i punti del programma ministeriale, ma che non gli pareva possibile mantenere ministro del- l'istruzione pubblica il Mameli, principalmente per le sue opinioni in politica ecclesiastica. Il D'Azeglio, dopo qualche esitanza, accettò di disfarsi del Mameli, affidando al Galvagno, ministro dell'interno, l'interim di quel dicastero, cui fu poi nominato titolare Pietro Gioia, pia- centino ; poi il La Marmora mise qualche giorno a persuadere il Re, infine Cavour, prima di andare al go- verno, volle fare un giro in varie provincie del regno per rendersi conto esatto delle condizioni dell' industria e del commercio nel paese, e si spinse fino a Stresa, dove fu ospitato da Antonio Rosmini, stretto da vincoli di cor- diale amicizia col fratello suo marchese Gustavo, e in casa del grande filosofo conobbe Alessandro Manzoni. Il poeta capì subito il valore di Cavour e parlando di lui con Giovanni Berchet usciva in queste parole : « Quel- r omino promette bene assai.» Il Manzoni aggiunge che oggetto della loro conversazione fu l'Italia, alla cui futura unità il Manzoni credeva con serena fiducia, e Ca- vour, sentendo gli audaci voli di fantasia del poeta, si fregava le mani e di tratto in tratto esclamava : « Qual- che cosa faremo. » Cavour. 14 2IO CAPITOLO VII. Vili. Cavour non ebbe alcuna esitanza a entrare nel Ga- binetto come ministro d'agricoltura, industria e com- mercio, cioè in un posto ritenuto allora, e anche ora, di secondaria importanza, ma, come dice il Ghiaia, per lui l'importante era d'entrare; una volta entrato, tene- vasi sicuro d'esser presto padrone della situazione. E lo divenne infatti ; accudiva con ardore indicibile agli af- fari del suo Ministero, del quale non tardò a far rilevare l'importanza, prese parte alle discussioni della Gamera non solo quando si aggiravano su questioni economiche o attinenti alla sua amministrazione, ma anche quando avevano un carattere politico, divenne il leader del Mi- nistero come era stato il capo della maggioranza, met- tendo in seconda linea tutti i suoi colleghi e il capo stesso del governo, il quale una volta disse a Giuseppe Torelli, amico comune : « Gon questo ometto qui, regno e non governo. » Quando il Nigra lasciò il portafoglio delle finanze, a lui questo fu affidato, prima interinal- mente, poi come titolare effettivo e con ciò la sua impor- tanza, se non di fatto, ufficiale nel Ministero e dinanzi al parlamento si accrebbe in modo notevole, tanto da met- tere qualche volta in serio imbarazzo il D'Azeglio, il quale vedeva, ormai chiaramente, che non lui, ma Ca- vour impersonava politicamente il governo responsabile. Gome ministro d'agricoltura e commercio, già di- cemmo che spiegò una meravigliosa e sommamente benefica attività ; si può dire che trasformò il sistema economico dello Stato coi trattati commerciali che strinse CAPITOLO VII. informati ai principii della scuola liberale. Egli era in economia politica partigiano della più ampia libertà, e riteneva che essa fosse la vera molla dell'operosità umana, il mezzo per accrescere e sviluppare la pubblica ric- chezza. Non aveva alcun pregiudizio protezionista, perciò non si spaventava dei disagi momentanei che poteva produrre il sistema da lui caldeggiato, guardava al ri- sultato effettivo e questo rispondeva al suo concetto. Inoltre nella sua mente la libertà economica era un aspetto della libertà politica, uno Stato non poteva go- dere sicuramente di questa, se non si inspirava anche a quella. Per di piìi, mentre la protezione poteva giovare, almeno apparentemente, ai produttori, danneggiava cer- tamente i consumatori e questo danno era gravissimo, quando la protezione riguardasse le materie necessarie alla vita e di maggiore consumo, per le classi povere, pel popolo minuto, che Cavour, per quelle idee di giu- stizia sociale cui abbiamo altra volta accennato, voleva sollevato economicamente e moralmente. Ed era tanto persuaso dell'utilità, della bontà intrinseca della politica economica liberale, che avrebbe voluto abolire i dazi differenziali anche verso le nazioni che non offrissero la reciprocità, e si piegò, solamente per opportunità poli- tica, a rinnovare i trattati di commercio, il primo dei quali fu quello colla Francia del 5 dicembre 1850. In verità, dice il Ghiaia, questo non conteneva condizioni molto favorevoli, dominando ancora in Francia le dot- trine protezioniste, e perciò fu presentato e difeso da Cavour più come un provvedimento idoneo a conciliare al Piemonte le simpatie della Francia che come un trat- tato vantaggioso nel rapporto economico. Apparve evi- dente nel suo discorso la preoccupazione politica: egli 212 CAPITOLO VII. mirava a conciliarsi la Francia per servirsene nel futuro contro l'Austria, e perciò, come spesso gli accadeva, an- che in questo caso parlò più come capo del Gabinetto che come ministro tecnico. Dopo una difesa minuta e convincente, nella quale dimostrava una profonda co- noscenza delle condizioni dell'industria e del commercio piemontese, dal testo del trattato venne a parlare dei motivi politici che ne consigliavano l'accettazione. Disse di non credere all'imminenza di gravi pericoli, ma non escluse che potessero presentarsi, e in questo caso sa- rebbe stato molto opportuno avere l'appoggio, se non materiale, almeno morale della Francia, e quindi non era utile né conveniente fare alcun atto che destasse in quella nazione un sentimento di ostilità. Certamente rifiutare un trattato non è fare offesa a una nazione, bensì, semmai, solo al suo governo, ma nelle questioni internazionali assai spesso la nazione s' immedesima col governo. Certamente anche il rifiuto del trattato non indurrebbe la Francia a mostrarsi apertamente avversa, ma « una potente nazione ha molti mezzi di nuocere, ben altri che non son quelli di assumere un contegno minaccioso o di imprendere il sistema delle rappresaglie daziarie. » E, dopo aver detto che l'antipa- tia, la fredda ostilità dell'Inghilterra verso la Francia non fu senza influenza sulla rivoluzione del 1848, ag- giunse che la monarchia sabauda ha certamente all' in- terno fondamenti più profondi e sicuri che non il trono di Luigi Filippo, ma « non si può dire altrettanto dal lato esterno,... sicuramente le condizioni della Francia sotto Luigi Filippo, rispetto all'Europa, erano più si- cure di quanto non sono attualmente le nostre » e così concludeva: « Io prego quindi la Camera di tenere in CAPITOLO VII. 213 conto non solo le considerazioni economiche, ma al- tresì le considerazioni politiche, e passando sopra, ove d' uopo, al lato piccolo della questione (quello econo- mico) per attenersi al lato maggiore (quello politico), di votare il trattato, il quale, se non realizza tutti i van- taggi che si potrebbero sperare, almeno raffermerà quella unione tanto desiderabile che deve regnare fra i liberi popoli dell'occidente d'Europa. » Al trattato colla Francia tennero dietro un trattato col Belgio e un altro coll'lnghil- terra, nei quali molto si avvantaggiò il commercio del Piemonte e prevalsero, più assai che in quello colla Fran- cia, i principii liberali. Nella discussione dinanzi alla Ca- mera di questi trattati si manifestò un forte dissenso tra Cavour e quella parte della destra che aveva osteggiato l'abolizione del foro ecclesiastico. La politica liberale del Conte di Cavour non incontrava l'approvazione dei con- servatori, neppure quando si esplicava solo nel campo economico. Egli si trovò a lottare, per così dire, a corpo a corpo con Ottavio di Rével, uomo peritissimo in ma- teria e molto autorevole come uno dei ministri che ave- vano consigliato la concessione e firmato lo Statuto, e che inoltre nel 184S aveva salvato l'onore della Corona assumendo la responsabilità dell'armistizio Salasco. Il Rével era oratore potente, massime nel sarcasmo e nel- r ironia, e largamente ne usò negli attacchi che mosse al Cavour, ma ne fu ripagato d'eguale moneta. In que- sti discorsi lo statista si muove più liberamente per- chè è convinto della bontà intrinseca, anche dal punto di vista materiale economico, della causa che sostiene ; non ha preoccupazioni politiche come nella difesa del trattato colla Francia e quindi svolge ampiamente i suoi concetti, difende la libertà economica, il libero scam- 214 CAPITOLO VII. bio, principalmente nell'interesse dei consumatori, del popolo, delle classi non abbienti, pur convenendo che è meglio attuare il principio del libero scambio per mezzo di trattati. E anche questo sistema egli difende con vi- gore, appunto per la ragione per la quale il Rével lo combatte, cioè perchè impedisce di tornare indietro nella via della libertà. Risponde poi a quelli che dicono che coi trattati inspirati ai principii liberali si danneggiano gl'interessi di alcune classi e quindi si creano dei mal- contenti che vanno a ingrossare i partiti estremi. Questo può darsi, ma v'è il rimedio nel sistema costituzionale già molte volte applicato in Inghilterra : « Si mantengano le riforme e si cangino i ministri che le hanno operate. » E venendo alla conclusione osserva « che la storia mo- derna, quella in ispecie dell'ultimo secolo, dimostra evi- dentemente essere la società fatalmente spinta nella via del progresso.... l'umanità è diretta verso due scopi, l'uno politico, l'altro economico. Nell'ordine politico essa mira evidentemente a modificare le proprie istitu- zioni in modo da chiamare sempre un numero maggiore di cittadini alla partecipazione del potere politico. Nell'or- dine economico essa mira evidentemente al mglioramento delle classi inferiori, ad un miglior riparto dei prodotti della terra e dei capitali. » Al miglioramento economico si può tendere con due mezzi, il primo dei quali avendo fede nella libertà « nel principio della libera concorrenza, del libero svolgimento dell' uomo morale ed intellet- tuale, » ritiene che « colla sempre maggiore attuazione di siffatto principio debba conseguirne un maggiore benes- sere per tutti, ma in ispecie per le classi meno agiate. » Questa è la scuola liberale inglese cui appartiene Cavour. «Un'altra scuola professa principii essenzialmente di- CAPITOLO VII. 215 versi. Essa crede che le miserie dell'umanità non pos- sano venir sollevate, che la condizione delle classi ope- raie non possa essere migliorata, se non col restringere ognora più l'azione individuale, se non coU'allargare smisuratamente l'azione centrale del corpo morale com- plessivo, rappresentato da un governo da crearsi, nella concentrazione generale delle forze individuali. Questa è la scuola socialistica » la quale « non si può negare che abbia nei suoi principii qualche cosa di seducente per gli animi generosi ed elevati. » Il solo mezzo per combattere questa scuola è di contrapporre ai suoi prin- cipii altri principii, perchè.... «le idee non si combat- tono efficacemente se non colle idee, i principii coi prin- cipii ; poco vale la compressione materiale. Per qualche tempo sicuramente i cannoni, le baionette potranno com- primere le teorie, potranno mantenere l'ordine mate- riale; ma se queste teorie si spingono nella sfera intel- lettuale, credete, o signori, che tosto o tardi queste idee, queste teorie si tradurranno in effetto, otterranno la vittoria nell'ordine politico ed economico. » Quindi af- ferma che nell'ordine intellettuale, alleate alle dottrine socialiste sono quelle del protezionismo. Partono dallo stesso principio: «ridotte ai loro minimi termini, esse ri- duconsi al dire essere diritto, quindi dovere del governo, l'intervenire nella distribuzione, nell'impiego dei capi- tali; al dire che il governo ha missione, ha facoltà per sostituire la sua volontà, ch'egli crede più illuminata, alla volontà libera degl'individui. » Se si ammette que- sto, come si potrebbe rispondere negativamente quando le classi operaie dicessero al governo: « Voi credete vostro diritto e dovere d'intervenire nella distribuzione del capitale.... ma perchè non intervenite per regola- 2l6 CAPITOLO VII. meritare l'altro elemento della distribuzione, il salario? Perchè non organizzate il lavoro ? » Concludeva poi col- r invitare gli avversarli che si dicevano conservatori a considerare se convenisse loro dare al socialismo col loro voto appoggio e autorità. I trattati col Belgio e l'Inghilterra furono approvati, ma suscitarono una certa agitazione in Francia, la quale si lagnava che con essi, per l'applicazione dei principii liberali, si fossero concessi gratuitamente a quegli Stati favori che non si erano voluti concedere che dietro cor- respettivo alla Francia. Cavour si difese dimostrando che ciò era dovuto principalmente alia corrente prote- zionista cui s' inspirava il governo francese, poi accon- discese a una convenzione addizionale al trattato del 1850 che fu sottoposta all'approvazione della Camera nel giu- gno del 1851 e finalmente a un nuovo trattato nel 1852. Nei rapporti commerciali colla Francia egli vedeva sem- pre il lato politico come preponderante, e quindi ne giudicava più da uomo politico, da statista capo del governo che da ministro tecnico, e in tal modo ne par- lava alla Camera, esponendo sempre più chiaramente il suo concetto di servirsi della Francia contro l'Austria nella questione dell'indipendenza italiana. Egli insiste sull'opportunità di avere amica la Francia, sul danno che verrebbe al Piemonte e all' Italia, non che da un'ini- micizia aperta, solamente da un raffreddamento nei rap- porti tra i due Stati, e finisce col porre la questione di Gabinetto sull'accettazione o no delle convenzioni pre- sentate. La Camera lo segue perchè si sente dominata, alcuni deputati lo attaccano nella sua rispettabilità per- sonale, gli eccitano contro le classi popolari dipingen- dolo come monopolista e affamatore perchè ha aperte, CAPITOLO VII. 217 se non tolte, le barriere doganali, ma egli rimane fermo al suo posto sicuro di sé e della bontà delle sue idee che infine s'impongono a tutti gli uomini di buona fede. I risultati della sua politica commerciale audace e sa- piente, la quale non si esplicò solo nei trattati, ma an- che in altri provvedimenti, che per brevità omettiamo di considerare, furono splendidi, si produsse un movi- mento generale nelle industrie, un progresso intenso ed effettivo nell'agricoltura, si aumentò la ricchezza nazio- nale e anche l'erario ne ebbe più larghi introiti pur ren- dendo meno gravoso il peso delle imposte. Come efficace e sommamente benefica fu l'opera di Cavour al Ministero dell'economia nazionale, altrettanto lo fu al Ministero delle finanze. Egli stesso espose per sommi capi l'opera sua in una memoria mandata nel 1852 all'intimo amico conte Ercole Oldofredi, perchè fosse pubblicata nella Revue des deux moftdes, il che poi, non sappiamo per quale ragione, non avvenne. Quando fu nominato ministro delle finanze trovò il bilancio in disavanzo apparente di pochi milioni, ma nella parte attiva erano calcolati i prodotti di due pre- stiti antecedenti, di cui uno era stato realizzato solo in parte, l'altro per nulla; ma, sopratutto, il tesoro pie- montese si trovava alla dipendenza assoluta della casa Rothschild. Egli vide che la situazione finanziaria dello Stato non poteva migliorare durevolmente se non eman- cipandosi dai Rothschild, e a questo intese col negoziare un prestito colla casa Hambro di Londra, che riuscì perfettamente. La sua influenza personale, la piena co- noscenza, non dei soli congegni bancarii, ma delle ope- razioni di borsa e delle condizioni del mercato dei va- lori molto gli giovarono per ciò, e non fu piccola vittoria 2l8 CAPITOLO VII. riuscire, vincendo l'opposizione della casa potentissima da cui intendeva emancipare il Piemonte. Negoziatore del prestito, scelto dallo stesso Cavour, fu il conte Ot- tavio di Rével, l'avversario potente nella Camera dei deputati col quale aveva dovuto lottare per l'abolizione del foro ecclesiastico e per i trattati di commercio. Cavour non riguardava come nemici gli avversarli po- litici, e ad essi ricorreva con piena fiducia quando l'in- teresse del paese lo richiedeva, e il Rével era troppo devoto alla patria e al Re per ricordarsi dei dissidii personali quando l'opera sua poteva essere utile. Non riusci invece subito Cavour ad attuare tutto il piano di riforma tributaria che s'era proposto, il quale consisteva nel migliorare l'entità e il modo di percezione delle im- poste esistenti, allo scopo di aumentarne il gettito con rincrudimenti blandi che non alterassero sensibilmente l'assetto economico dei cittadini, e collo stabilire una nuova tassa personale e mobiliare ed altre piccole tasse che non gravassero i consumi popolari, ma quelli di lusso. Cavour, come si è già detto, credeva necessario che il Piemonte si assestasse fortemente nelle finanze e nel credito, per poter ritentare l'impresa italiana, ma non al solo pareggio del bilancio egli mirava, né ad otte- nere sensibili avanzi, ma intendeva che questo si accom- pagnasse allo sviluppo e all'incremento della ricchezza pubblica, facilitati, in tutti i modi, dal governo. Infatti i maggiori mezzi finanziarli ottenuti dai prestiti e dal- l' imposte dovevano servire alla costruzione di ferrovie e di strade, a miglioramenti amministrativi, oltre che a colmare o a diminuire il disavanzo. E, inoltre, poiché egli non era uno di quegli statisti miopi che si preoc- CAPITOLO VII. 219 cupano solo delle questioni economiche, il mantenimento del pareggio intendeva, e volle sempre subordinato, al mantenimento d'un forte esercito e alle esigenze d' una politica estera attiva, per la quale il Piemonte si me- scolasse alle grandi questioni internazionali e fosse sem- pre pronto a sostenere colla spada, non solo il suo di- ritto, ma anche le ragioni della civiltà. Insomma Cavour fu un grande ministro tanto al dicastero dell'economia nazionale, quanto a quello delle finanze, perchè seppe coordinare, armonizzare l'elemento tecnico degli affari che aveva in cura, coll'elemento politico, senza pregiu- dizii, né preconcetti, derivanti, quasi sempre negli sta- tisti, da ristrettezza di vedute. Ma, appunto per questa complessità del suo pensiero, egli non poteva mai re- stringersi nella funzione propria d'un ministro tecnico, era fatalmente tratto dinanzi alla Camera nell'ambito della politica generale, e questo anche perchè, inten- dendo in un senso perfettamente inglese il governo di Gabinetto, nessun ministro poteva esimersi dal parte- cipare attivamente alla lotta politica. Ma v'è di più; nel fatto egli sentiva e capiva di essere 1' uomo di mag- gior valore che fosse nel Gabinetto, anzi di essere l'unico capace di fronteggiare la situazione ; aveva chiaro nella mente il concetto di ciò che doveva esser fatto pel bene del Piemonte e dell'Italia ; era giunto, insomma, a quel punto della vita nel quale l'uomo di genio è tratto, si direbbe, da una forza irresistibile a passar sopra a que- gli scrupoli, a quei riguardi che gì' impediscono di com- piere la sua missione nel mondo, anche se questi hanno il loro fondamento in legami di amicizia o in altri di carattere prettamente individuale o di convenienza. In questi momenti l'uomo di genio concreta nei fatti la sua CAPITOLO VII. ambizione, ma essa è nobilitata, è purificata, per cosi dire, dall'alta idealità cui s'inspira, perchè, soddisfa- cendola, egli sente di adempiere ad un grande dovere, egli sente di essere l'uomo necessario, l'uomo fatale nel vero senso della parola. Ben lo aveva conosciuto Vittorio Emanuele, quando ammoniva i suoi ministri che Cavour li avrebbe tutti vinti e che, chiamandolo al governo, si davano un padrone. Massimo D'Azeglio, forse, non si rese conto subito della forza di Cavour, ma, ad ogni modo, rimarrà suo grande merito quello di averlo fatto ministro. Se Cavour fosse rimasto più a lungo nei banchi di deputato, certamente sarebbe an- dato nel medesimo modo al Governo, ma avrebbe do- vuto, da pari a pari, stringere accordi, annodare rap- porti che lo avrebbero forse impedito o che gli sarebbe stato duro e increscioso rompere. Invece quel periodo in cui fu ministro nel Gabinetto D'Azeglio, aumentò la sua autorità, gli permise di mostrare le sue qualità po- litiche, e, quindi, quando egli volle annodare rapporti con uomini politici allo scopo di costituire una nuova maggioranza, aveva già una posizione preponderante che gli permise di porre le condizioni degli accordi stessi, invece che di piegarsi ad accettarle. IX. Era evidente che la destra, per quanto in buona parte composta di uomini eminenti e altamente benemeriti, non poteva piià continuare a costituire la maggioranza del governo ; essa stessa non era più compatta, ma si divideva in gruppi di idee e di tendenze diverse. Il CAPITOLO VII. 221 gruppo più conservatore, nel quale primeggiavano il Balbo, il Rével e il Menabrea, non poteva ammettere che lo Stato si trasformasse in senso liberale, sopra- tutto si , spaventava dei possibili eccessi della libertà di stampa e avrebbe voluto leggi che, senza soppri- merla, la restringessero; gli altri gruppi, invece, pur volendo fortemente tutelato l'ordine pubblico, non si spingevano fino a questo punto, e, massime in materia legislativa, erano disposti ad accettare ogni trasforma- zione saviamente liberale. E questi gruppi si trovavano ad avere idee presso a poco identiche a quelle del centro sinistro, cioè di quella parte della sinistra, che metteva capo al Rattazzi e aveva simpatie e poteva contrarre feconde alleanze anche con elementi più ac- centuati della stessa parte della Camera. Ora mentre nella maggioranza ministeriale entrava il gruppo più conservatore della destra, all'opposizione era il gruppo più conservatore della sinistra, e si trovavano in campi opposti uomini che per le idee parevano designati a procedere d'accordo. Di qui l'andamento incerto e confuso delle discus- sioni parlamentari, e una maggiore incertezza nella con- dotta del Gabinetto, il quale, per di più, non era com- patto e concorde di idee, alcuni piegando verso la parte più conservatrice della destra, altri verso la parte più liberale, mentre il suo capo si sforzava, colla sua grande autorità personale e colla simpatia che emanava dalla sua persona, di mantenere un accordo, il quale non poteva più essere che formale. Cavour vide tutto questo e capì che se si voleva che il sistema rappresentativo si svolgesse liberamente, se si voleva che il Piemonte fosse, e rimanesse, il centro CAPITOLO VII. delle speranze italiane, bisognava rompere i vincoli colla frazione conservatrice dell'assemblea, formare una nuova maggioranza fondata sull'affinità delle idee e delle opi- nioni, dimenticando le cause che nel passato avevano diviso gli animi per ricordarsi solo di quanto doveva unirli. Partendo da questo concetto, egli mirò ad avvi- cinarsi al Rattazzi, col quale pure aveva battagliato fieramente nel 1848 e che aveva altrettanto fieramente combattuto quando fu Ministro nel Gabinetto di No- vara. Tra il Cavour e il Rattazzi erano notevoli diffe- renze. II primo era, per la tempra del suo ingegno e per il carattere della sua cultura, un vero e grande statista; l'altro era un giurista o^ per meglio dire, un grande avvocato che le circostanze e le opportunità del tempo avevano tratto nella politica. Il primo quindi era al suo posto naturale in parlamento e al governo, e nella vita pubblica metteva tutta la sua attività, non ad altro mirando che ad essa, la sua azione era perciò ge- nuina, sincera, franca, mirava netta allo scopo ; mentre il secondo era sempre avvocato, curiale, e questa sua attitudine sviluppata, acuita nell'esercizio della profes- sione, si mostrava anche prevalente nell'azione politica che svolgeva in Parlamento, e la faceva più astuta che accorta, più abile che forte, più involuta che sincera. II Cavour era perciò uno statista, un uomo politico in- tero, completo, Rattazzi era incompleto, manchevole per più rispetti. Il primo appartenente all'aristocrazia, si era spogliato dei difetti acquisiti dal suo ceto nel pe- riodo della sua prevalenza e ne aveva affinate e per- fezionate le virtù ereditarie, e principalmente le attitu- dini alla vita pubblica, il secondo aveva le qualità, ma anche i difetti della classe borghese nella quale era CAPITOLO VII. 223 nato, e questi univa alle qualità e ai difetti del ceto curiale in cui eccelleva. E poiché era necessario unire in un fascio tutte le forze vive del parlamento e del ceto politico piemontese, per svolgere ampiamente e sinceramente le istituzioni rappresentative abilitandole, per di più, a determinare la indipendenza e la libertà italiana, fu anche necessario che i due si unissero, perchè dalla loro unione, solamente, poteva sorgere appunto quel fascio delle forze vive del parlamento e della classe politica piemontese cui sopra si è accennato. Questo vide Cavour e perchè egli era sicuro di poter sempre dominare l'uomo politico di cui cercava l'amicizia, si determinò, sorpassando ogni scrupolo, a concretare nei fatti la progettata unione. Giovandosi della sua influenza preponderante nel Ministero riuscì a farvi entrare, come ministro dell' istruzione, L. Carlo Farini, il grande esule romagnolo. Questa nomina aveva uno speciale signifi- cato che non poteva sfuggire ad alcuno. A parte i meriti altissimi dell'uomo scelto, che nes- suno poteva negare, il fatto che ministro dell'istruzione del re Vittorio Emanuele era un esule perseguitato dal Papa, voleva dire che il Piemonte si schierava aperta- mente contro il Papa, sovrano temporale, che ne bia- simava il governo, che considerava come amici i nemici suoi, quelli che aveva costretti ad abbandonare la patria e che non potevano rientrarvi senza correre pericolo di perdere la libertà e anche la vita. Oltre che poi, per quanto il Farini avesse rotto da tempo ogni rapporto coi partiti estremi, era evidente che l'essere egli mi- nistro significava che, non solo nell' istruzione, ma in tutta la sua azione, il governo piemontese si sarebbe sempre inspirato ai concetti più liberali, senza avven- 224 CAPITOLO VII. tatezze, ma anche senza pregiudizii di sorta. Un altro passo decisivo nella via che s'era prefissa riuscì a fare Cavour, ottenendo da Massimo D'Azeglio che il Gal- vagno, ministro dell' interno, lasciasse questo dicastero, per assumere il portafoglio di grazia e giustizia. Mentre il Galvagno al Ministero dell'interno accentuava il ca- rattere conservatore del Gabinetto e rappresentava la garanzia che questo non avrebbe mai abbandonata la destra, al Dicastero della grazia e giustizia perdeva di importanza e non aveva più uno speciale significato nell'orientazione parlamentare e politica del Ministero. Al Ministero dell'interno poi, sempre per suggerimento di Cavour, fu chiamato il cavalier Alessandro Pernati di Momo, intendente generale della provincia di Torino, che sedeva sui banchi del centro destro della Camera e aveva, dal punto di vista parlamentare, una ben pic- cola importanza. A questo mutamento Cavour non s'era indotto, che dopo che il Ministero aveva proposto, e il Parlamento approvato, alcune modificazioni alla legge sulla stampa in senso che poteva essere interpretato come restrittivo. Indubbiamente la stampa in Piemonte trascorreva ad eccessi, i quali, nei rapporti internazionali, appari- vano pericolosi. I governi esteri se ne preoccupavano, e massime da parte dei Gabinetti di Berlino e di Vienna venivano sollecitazioni e ammonimenti al Ministero pie- montese, che Massimo D'Azeglio respingeva fieramente. Ma le cose si fecero più gravi dopo il colpo di Stato del 2 dicembre 1S51 che diede in Francia il potere quasi assoluto a Luigi Napoleone. Appariva evidente che il Piemonte, insidiato dall'Austria, guardato ostil- mente e sospettato dalla Prussia e dalla Russia, aveva CAPITOLO VII. 225 interesse a consolidare i buoni rapporti colla Francia e, poiché i giornali piemontesi non risparmiavano insulti al nuovo padrone della Francia, tornava opportuno dare a questo quella prova di amicizia che si era negata ad altri Sovrani. Aveva Cavour in quel tempo chiaro in mente il disegno di fare alleanza colla Francia nella futura guerra d'indipendenza? Noi crediamo di sì, pur ammettendo che non ne abbiamo prove dirette, e che, in ogni caso, allora non poteva avere assunto nella mente di Cavour una forma concreta, perchè s' ignoravano an- cora quali fossero i precisi intendimenti di Luigi Bo- naparte. Ad ogni modo Cavour, che si sarebbe rifiutato ad ogni restrizione della libertà di stampa che fosse inspi- rata da presunti pericoli interni o da imposizioni stra- niere, aderì alla proposta della nuova legge che aveva l'unico scopo di impedire che, per gli eccessi giornali- stici, venisse ad essere intralciata l'azione dello Stato nel campo della politica internazionale o fossero diminuite le simpatie su cui la monarchia di Savoia aveva bisogno di fare assegnamento. E non solo vi aderì, ma difese la legge con eloquenti discorsi alla Camera e al Senato, traendone anzi argomento per chiarire le sue idee e manifestare più apertamente il nuovo indirizzo politico che vagheggiava. Il discorso del 5 febbraio in proposito è una prova convincente di ciò. Dopo avere nettamente posta la questione, egli osserva che la proposta del Ministero di deferire ai tribunali ordinarli i reati commessi per mezzo della stampa contro i Sovrani e i Capi di governo stra- nieri, era pienamente giustificata dalle necessità della po- litica estera, mentre non sarebbe giustificata questa o Cavour. 15 226 CAPITOLO VII. consimile altra proposta per la politica interna, e ciò gli serve per dichiarare apertamente, in nome del Mini- stero, che rinuncia all'appoggio di quel gruppo di destra nel quale primeggiavano il Balbo, il Rével e il Mena- brea. E questo mentre nell'esordio del discorso aveva ringraziato il Rattazzi della forma cortese e deferente colla quale aveva combattuto il progetto di legge in discussione, e preso atto della sua promessa di appog- giare in futuro il Ministero. Questa franca dichiarazione di Cavour irritò profon- damente gli uomini della destra, e il Rével, dopo poche sdegnose parole del Balbo, accettando la sfida lancia- tagli, con altrettanta franchezza espresse il suo stupore che il ministro delle finanze, a nome del resto del Ga- binetto, « di cui era sempre il principale oratore, » vo- lesse fare contemporaneamente un divorzio con una parte della maggioranza che lo aveva sempre sostenuto, meno casi speciali, e un connubio coll'altra parte dove sede- vano gli uomini, la cui politica aveva prodotto i disastri del 1849 e condotto Carlo Alberto ad Oporto. Cavour rispose con molta calma che nessuno poteva onestamente dire che il Ministero avesse cambiato i suoi principii e aggiunse : « Ma io osservo che se nei paesi liberi, nel sistema costituzionale, fosse impossibile di accordarsi colle persone che in altre circostanze, in altri tempi, erano nostri avversarli politici, sarebbe allora im- possibile costituire un partito .... Il Ministero è ri- masto sul terreno della prudenza, della moderazione, ma anche su quello del ragionato progresso. Se sopra questo terreno, alcuni onorevoli membri di questa Ca- mera si sono mossi ad incontrarlo, ad essi egli ha stesa la mano e sarà lieto di stringere con loro una sincera CAPITOLO VII. 227 alleanza; ma questa non sarà mai fatta con sacrificio dei principii, di cui si è fatto interprete da quasi tre anni. Non è vero clie il Ministero abbia rivolta la sua prora verso altri lidi. Esso non fece alcuna manovra di quella specie; egli vuole camminare nella direzione della prora e non in quella della poppa. » Così egli, in una forma molto misurata e prudente, ma anche molto precisa, più apertamente confessava l'accordo col centro sinistro; il cui capo, il Rattazzi, dopo avere fieramente rintuzzato l'assalto datogli da Rével a proposito di Novara, confermò questo accordo, usando però anch'esso molta temperanza di forma. Era ormai chiaro che la direzione della politica governativa apparteneva a Cavour, non più a D'Azeglio, e che il Ministero cambiava la sua base parlamentare. Il D'Aze- glio provò a riprendere le redini, ma non riuscì ad altro che a prolungare l'equivoco. La stessa votazione del progetto De Foresta provò che il capo ufficiale del go- verno non era riuscito a ricomporre la maggioranza antica; il progetto fu approvato, ma ebbe voti favore- voli e contrarii da agni parte della Camera; l'intervento del D'Azeglio aveva ritardata la ricostituzione dei par- titi e ingenerata intanto una vera confusione che, se si fosse prolungata, avrebbe impedita ogni proficua azione parlamentare. Questo vide Cavour, ormai troppo compromesso per poter retrocedere, e colse l'occasione che gli presen- tava una discussione in Senato, nella quale il vecchio maresciallo De la Tour intese dare battaglia al Mini- stero e principalmente a lui, facendosi sostenitore d'un ordine del giorno di censura e di biasimo per la sua politica. Dopo aver detto che egli non era mai andato 228 CAPITOLO VII, d'accordo col Maresciallo, noto sostenitore dell'assolu- tismo, provò che il Ministero, al quale apparteneva, non si era mai allontanato dal programma col quale era sorto, quello, cioè, di tenersi egualmente lontano dai partiti estremi. «A questa politica fu fedele, lo fu nel 1849, quando, non essendo ancora quietato il tumulto delle passioni popolari, egli credeva dover sciogliere una Ca- mera, nella quale, a suo giudizio, lo spirito di eccessiva riforma predominava ; egli vi fu egualmente fedele quando nel 1852 ha giudicato doversi separare da una parte notevole del partito, col quale egli aveva fino allora combattuto. . . . Nel 1852 egli vede il pericolo di una soverchia tendenza, non solo a conservare gli ordini nuovi, ma a ricostituire gli ordini antichi; ed a questa tendenza egli ha creduto doversi risolutamente opporre, quantunque questo gì' imponesse il doloroso dovere di separarsi da persone per le quali egli professa, come individui, la più alta stima. » Cosi Cavour neutralizzava con un colpo d' audacia l'effetto del discorso pronunciato pochi giorni prima dal presidente del Consiglio dinanzi alla Camera. Il D'Azeglio ne fu impressionato, ma non osò ribellarsi ; infatti pochi giorni dopo accondiscese, come abbiamo già detto, al mutamento nel Ministero che gli propo- neva Cavour. Quando il 4 marzo del 1852 fu aperta la nuova sessione parlamentare, il capo del centro sinistro fu eletto vice-presidente della Camera, per l' influenza di Cavour secondato con molta abilità da L. Carlo Fa- rini, e il D'Azeglio, anche questa volta, benché rilut- tante, si acconciò al fatto compiuto. Ma 1' accordo tra i due non poteva ormai più a lungo durare. Era evi- dente da un lato che il Ministero non avrebbe conti- CAPITOLO VII. 229 nuato lungamente a vivere se ne fosse, in quelle con- dizioni, uscito Cavour, ma era anche evidente che questo e il capo del Gabinetto seguivano una politica opposta l'uno all'altro. Perchè non scoppiò allora la crisi? A noi pare che a impedirla intervenisse molto il Re. Vittorio Emanuele aveva già capito dove quel dissenso sarebbe andato a parare, ma reputava che non fosse ancora giunto il tempo di cambiare l'indirizzo del Gabinetto. Forse lo tratteneva dal permettere ciò anche un' istin- tiva diffidenza verso Cavour, certo non gli pareva con- forme alla leale esplicazione del governo parlamentare, accondiscendere ad un cambiamento che, per quanto certo e sicuro, non sì era però manifestato inevitabile con un voto aperto delle Camere. E questo voto Cavour cercò dì provocare. Venuto a morte il 23 d'aprile il presidente della Camera, Pier Dionigi Pinelli, si do- vette pensare a nominargli un successore. Il Ministero caldeggiava la nomina del Boncompagni, Cavour, dis- sentendo dai colleghì, invece, voleva che fosse nomi- nato Rattazzi. Principalmente per consiglio del Re, il D'Azeglio fini per disinteressarsi della nomina del presidente, an- che perchè riteneva sicura la riuscita del Boncompagni ; ma Cavour, che invano aveva tentato di convincerlo dell'opportunità di appoggiare la candidatura del Rat- tazzi, seguitò ad adoprarsi per questa, che infatti riusci. Irritati del contegno del collega, il D'Azeglio, il Galvagno e il Pernati diedero le dimissioni; il Rattazzi, saputo ciò, scrisse una lettera al Re profferendosi pronto a non accettare l'ufficio di presidente se la sua ele- zione doveva essere interpretata come atto ostile al Gabinetto. 230 CAPITOLO VII. Il Re, con molto buon senso, rifiutò le dimissioni dei ministri e quella del nuovo presidente della Camera, e a ciò forse non fu estraneo Cavour, che influì su Vit- torio Emanuele per mezzo del suo fidatissimo M. A. Ca- stelli, e parve che tutto fosse ritornato tranquillo. Quando cinque giorni dopo l'avvenuta nomina, cioè il 16 mag- gio, in una seduta del Consiglio dei ministri, avendo il Galvagno manifestata in forma aspra la sua assoluta sfiducia nel tatto politico delRattazzi, Cavour, irritato, diede immediatamente le dimissioni e abbandonò il Consiglio senza salutare i colleghi. Tutto il Ministero si dimise, e il D'Azeglio fu incaricato dal Re di for- mare un nuovo Gabinetto, escludendone, ben inteso, Cavour e Farini. Perchè questa improvvisa risoluzione di Cavour? Evidentemente non è spiegazione sufficiente il dissenso momentaneo col Galvagno; è più probabile che egli volesse trarre dall'elezione del Rattazzi molte e maggiori conseguenze di quelle che gli potevano essere consentite dai colleghi, e, irritato per ciò, si allontanasse bruscamente, certo com'era che in breve sarebbe stato richiamato, e non più come ministro, ma come capo responsabile del governo. Anche in questo caso, come sempre, Vittorio Ema- nuele mostrò un tatto finissimo. Convinto già da tempo che Cavour era l'uomo destinato a succedere al D'Aze- glio, egli non poteva togliere a questo la sua fiducia, perchè ufficialmente era sempre sostenuto da una mag- gioranza nella Camera, e poiché la crisi non era scoppiata per un voto parlamentare, ma per un dissidio interno, era naturale che il Re non cambiasse il presidente del Consiglio fino a che questo voto, o direttamente o in- direttamente, non fosse intervenuto. Il D'Azeglio fu CAPITOLO VII. 231 quindi incaricato di formare novamente il Gabinetto, e lo formò in parte cogli antichi ministri, esclusi Ca- vour e Farini, in parte con nuovi, i quali erano convinti che avrebbero dovuto ben presto cedere il posto a un Ministero presieduto da Cavour, e fu unicamente per sentimento d'abnegazione che accettarono in quelle con- dizioni di andare al governo. Si può anche aggiungere che, se la crisi provocata dall'uscita di Cavour fosse stata sciolta chiamando questi al potere, molto proba- bilmente si sarebbero suscitate contro il Piemonte serie diffidenze all'interno e all'estero. Quello di D'Azeglio era un gran nome e garantiva e assicurava ognuno sulle intenzioni del governo da lui presieduto, mentre il nome di Cavour non era ancora abbastanza conosciuto, e su quello del suo alleato, il Rattazzi, pesavano ancora i ricordi di Novara e le avventatezze che faceva temere il partito o il gruppo cui presiedeva. Bisognava che si determinassero un fatto e una situazione politica da cui apparisse chiaro che D'Azeglio non poteva, o non voleva, più rimanere capo del Gabinetto, bisognava che l'opi- nione pubblica si avvezzasse, per così dire, all'eventua- lità di vedere Cavour e Rattazzi insieme al governo, e per questo fu bene che il connubio ritardasse alcuni mesi ad avere effetti pratici. Alcuni si sono dimandati se questa condotta di Ca- vour nel Ministero d'Azeglio sia stata sempre, e in tutto, corretta. Indubbiamente egli assunse, appena ministro, un tono, un' importanza molto maggiore di quella che sogliono e debbono avere i ministri nel sistema parla- mentare, indubbiamente egli svolse spesso la parte che avrebbe dovuto svolgere il capo del governo, Massimo D'Azeglio. 232 CAPITOLO VII. Quindi il sistema parlamentare si attuava indubbia- mente, per ciò solo, in modo anormale, ma poiché que- sta preponderanza era accettata dai suoi colleghi, dal D'Azeglio stesso e gradita dalla Camera, è evidente che nessun appunto di scorrettezza si può fare a Cavour. Ma il caso non è pivi lo stesso, quando, dalla preponde- ranza in Parlamento e nei consigli del governo, si passa a quella serie di trattative, di accordi, di transazioni, cui venne Cavour per determinare l'unione col Rattazzi e col centro sinistro, trattative, transazioni, accordi, di cui manifestamente fu sempre, quasi del tutto, ignorante il D'Azeglio. Noi vediamo, leggiamo le discussioni par- lamentari da cui nacque il connubio, approviamo certa- mente questo importantissimo fatto che fu la fortuna d'Italia, ma, evidentemente, quei discorsi, quei voti non furono che la rappresentazione, la manifestazione uf- ficiale di fatti e atti che si svolsero, diremo così, nel dietroscena parlamentare, e per opera dì un ministro che faceva una politica sua propria indipendente e an- che, fino a un certo punto, contraria a quella dei suoi colleghi e del suo capo. Agiva correttamente questo ministro? Ecco il problema. Noi rispondiamo che, senza arrivare alla legittimazione della massima che il fine giustifica i mezzi, si deve ammettere che vi sono dei momenti nei quali l'uomo politico deve fare, o tollerare, atti che dalla morale privata non sarebbero approvati. In questi casi l'atto non si giustifica in sé stesso, ma nello scopo cui deve servire. Quando questo scopo è alto e nobile, quando esorbita dalla sfera dell'interesse e dell'egoismo individuale, quando è evidente che non sarebbe possibile, usando mezzi corretti, di raggiun- gerlo, l'uso del mezzo scorretto, che non sia delittuoso, CAPITOLO VII. 233 si giustifica pienamente. Ben inteso che si giustifica nel caso speciale, e non può mai essere allegato come pre- cedente per costituire una regola. Pur troppo però av- viene spesso che i piccoli uomini, i piccoli ambiziosi, nell'intrigo parlamentare, nell'inganno, nella scorret- tezza, trovano la ragione, il mezzo unico, almeno il principale, per andare al potere e per mantenervisi; ma questi non possono giustificarsi coli' esempio di Ca- vour, perchè ciò che in lui fu eccezione, in loro è regola, ciò che in lui fu giustificato da un'alta idealità, in loro è reso maggiormente biasimevole appunto dalla man- canza d'ogni idealità, dal basso e cieco egoismo che li muove, il quale non ha nulla a che vedere colla grande e nobile ambizione dello statista. Ma procediamo oltre. 234 Capitolo Vili. I. Contegno di Cavour dopo uscito dal Ministero. — Viaggio in Ingliilterra e in Francia. — Dimissioni del Ministero D' Azeglio, — Cavour incaricato di formare il nuovo Gabinetto. — Suoi rapporti con Vittorio Emanuele. — IL Periodi nei quali si di- vide l'opera di Cavour come capo del governo. — IH. Primi atti di governo di Cavour. — Discorso in Senato sul matrimonio civile. — Come egli nettamente rifiuta V aiuto della sinistra. — Opposizione che tro- vano i suoi progetti finanziarii. — Ragiofii colla quale egli li difende. — Manifestazioni popolari contro di lui. — Urbano Ratta zzi entra nel Ministero. — IV. Primi urti coir Austria. — // sequestro dei beni degli emigrati divelluti cittadini sardi. — Vantaggi che ne ricava Cavour. — V. Elezioni generali. — Discorsi e battaglie parlamentari di Cavour. — Come la sua posiziofie si faccia sempre piii salda. — VI. La guerra di Crimea. — A chi spetta il merito del- l'alleanza colle potenze occidentali. — Vittorio Ema- nuele e Cavour. — Discussioni alla Camera. — Di- scorso di Cavour. — La battaglia della Cernaia. — Sue conseguenze. I. Come abbiamo già accennato, Cavour si era sepa- rato bruscamente dal Ministero D'Azeglio, ma non per questo assunse subito un contegno apertamente ostile ad esso. Egli aveva troppo senno politico e anche, si CAPITOLO Vili. 235 può aggiungere, troppa rettitudine di carattere, per non capire che il dichiararsi contro il Ministero, del quale aveva fatto per tanto tempo parte, avrebbe prodotta cattiva impressione e diminuita quella stima che, per ritornare al potere, egli aveva bisogno invece di veder aumentata. Sicuro di arrivare, comprese che doveva essere paziente e, per quanto la pazienza non fosse una qualità molto predominante in lui, vi riuscì. Scrivendo al Salvagnoli, così si esprimeva : « La politica estera ri- chiedeva che fossi io il sacrificato. Azeglio, credo, si sarebbe volentieri ritirato ; lo sconsigliai dal farlo, per quanto potei, ed egli rimase ed io uscii, senza perciò cessare dall'essere amici privati e politici. A sua volta Azeglio dovrà uscire ed in allora si potrà costituire un Gabinetto francamente liberale. » In conseguenza egli appoggiò il Ministero nella nomina d'un vice-presidente in luogo del Boncompagni divenuto ministro, e nelle discussioni che avvennero nella Camera si condusse così lealmente che il Thiers, il quale diceva di lui che era « l'homme le plus capable du Piémont, » ebbe a dire, secondo ciò che riferisce M. A. Castelli, che tutto si poteva sperare « da un paese dove gli uomini più in- fluenti uscivano dal potere per appoggiare coi loro amici quel governo stesso che da loro si separava. » Appena finiti i lavori parlamentari, Cavour volle intra- prendere un viaggio in Francia e in Inghilterra, allo scopo, diceva, di distrarsi dai fastidi della politica. Nel fatto si trattava di ben altro. Egli voleva farsi cono- scere personalmente dai governanti e dagli uomini po- litici di quegli Stati, voleva smontare le prevenzioni che, per la sua unione col centro sinistro, erano sorte contro di lui, voleva, insomma, che alla sua andata al 236 CAPITOLO Vili. potere in un prossimo avvenire, non si potessero op- porre quelle preoccupazioni di politica estera cui allu- deva nella lettera al Salvagnoli. E qui cade in acconcio rilevare un episodio che rivela l'acutezza e il tatto finis- simo di Vittorio Emanuele. Il Re si prestò, non richie- sto, ma spontaneamente, a facilitare Cavour in questo suo divisamento. Parlando col Pernati, ministro dell'in- terno, disse (secondo quanto narra il Ghiaia): «Cavour è un gran furbacchione, bisogna tenercelo amico, » fa- cendo poi intendere che sarebbe stato suo desiderio che il governo gli affidasse qualche missione diplomatica ; evidentemente allo scopo che egli più facilmente po- tesse affiatarsi coi governi stranieri. Il desiderio del Re fu esaudito dalla gran bontà di cavaliere antico di Mas- simo D'Azeglio, il quale, neppur lui, s' illuse intorno allo scopo pratico che Cavour prefiggeva al suo viag- gio, e lo secondò affidandogli, in via ufficiosa, di trat- tare col governo di Francia e quello d' Inghilterra in- torno all' indennità chiesta dal Principe di Monaco pei distretti di Mentone e Roccabruna che erano stati an- nessi al Piemonte. Il Re e il D'Azeglio, il primo con maggiore avvedutezza, il secondo con grande lealtà, in fondo al loro animo sentivano che Cavour doveva di- venire primo ministro, ma volevano che si rendesse conto di tutte le difficoltà della politica estera, teme- vano r impetuosità del suo carattere e la sua audace fiducia in sé stesso, e cercavano, mettendolo a contatto coi governanti stranieri, che si moderasse. Inoltre, co- noscendone r ingegno e l'avvedutezza politica, non du- bitavano che sarebbe riuscito a conquistare una larga fiducia e a diminuire le prevenzioni che si avevano contro di lui. Insomma i due, che Cavour riteneva che CAPITOLO Vili. 237 lo volessero lontano dal potere, gli spianavano la strada; specialmente D'Azeglio, il quale raccomandava ai di- plomatici sardi di accoglierlo con grande cortesia, di fa- cilitargli la conoscenza e i coUoquii coi principali uomini politici, per « domare il poliedro (così scriveva al ni- pote Emanuele, ministro a Londra) e renderlo sensibile all'uso del tiro pel carro dello Stato. » Cavour, nei suoi coUoquii coi ministri stranieri e cogli uomini politici, trovò, da per tutto, la convinzione che fosse, più che utile, necessario che al governo in Piemonte rimanesse il D'Azeglio, e ciò lo irritò profondamente, anche per- chè gli parve di capire che tutto questo interessamento per Massimo fosse l'effetto d'una piccola congiura or- dita da questo contro di lui. In ciò egli s' ingannava, come abbiamo detto, perchè ben diversa era l'inten- zione di D'Azeglio. Gli uomini di Stato inglesi, però, pur affermando la necessità e l'opportunità che Mas- simo rimanesse al potere, riconoscevano che sarebbe stato altrettanto necessario che Cavour rientrasse nel Ministero, portando a questo l'aiuto dei suoi nuovi amici politici. Anche in tale insistenza egli vedeva l' in- fluenza di Massimo, e anche qui errava; ad ogni modo, però, capiva che se si aveva fiducia in D'Azeglio, non se ne aveva meno in lui, e che la sua alleanza col cen- tro sinistro non preoccupava più molto. Maggiore e più aperto favore trovò Cavour in Fran- cia, dove fu raggiunto dal Rattazzi, e pare che insieme conquistassero la fiducia dei ministri e anche dell' Im- peratore, che egli conobbe e studiò attentamente per le eventualità future. Nel complesso, in questo viaggio Cavour acquistò una maggior sicurezza di sé, si fece conoscere e co- 238 CAPITOLO vin. nobbe, tornò in patria convinto che il Piemonte go- deva larghe e intense simpatie, e quindi poteva proce- dere più arditamente nella via liberale all' interno e nelle affermazioni della sua politica italiana. Quindi, o il Ministero si decideva a procedere avanti o doveva essere da lui e dai suoi amici combattuto, costretto a ceder loro il potere. Per fortuna non vi fu bisogno di una battaglia par- lamentare; il Ministero D'Azeglio, principalmente il suo capo, erano più persuasi di Cavour che bisognava o cambiar programma o andarsene, e, poiché non vole- vano cambiar programma, se ne andarono alla prima occasione, coli' intendimento ben chiaro di lasciare il posto a Cavour. E l'occasione fu fornita loro dal Re. Era stata proposta, e si era discussa dalla Camera dei deputati, la legge intorno al matrimonio civile; la Santa Sede la condannò fieramente, ma il Re non aveva dato a questa opposizione un gran peso, quando bruscamente cambiò d'avviso e in un consiglio di ministri dichiarò che mai avrebbe sanzionata una legge che potesse di- spiacere al Papa. Questo accadde il 21 d'ottobre. Il giorno appresso, D'Azeglio, riuniti i colleghi, espose l' impossibilità in cui si trovava il Ministero di rima- nere al potere, avendo nella Camera l'opposizione, più o meno aperta, di Cavour, e, per di più, avendo il Re accennato a seguire una politica contraria alle tradizioni della parte liberale; propose quindi nettamente le di- missioni del Gabinetto. Tutti convennero e D'Azeglio e Cibrario, nella serata, si recarono a Stupinigi a pre- sentarle al Re. Questi, dice il Cibrario, dopo lungo contrasto, informò il D'Azeglio che avrebbe chiamato Cavour, seguendo, del resto, il consiglio che gli veniva CAPITOLO Vili. 239 dal D'Azeglio stesso. Cavour, che si era già posto d'ac- cordo col Rattazzi, il giorno 24 arrivò a Stupinigi e fu introdotto alla presenza del Re, il quale gli propose di formare un Gabinetto, col patto di entrare in negoziati colla Corte di Roma per risolvere d'accordo tutte le questioni pendenti, prima quella del matrimonio civile. Cavour rifiutò e consigliò Vittorio Emanuele a rivol- gersi a Cesare Balbo, che fu chiamato e accettò l' in- carico a patto d'andare d'accordo con O. di Rével. Il Rével rifiutò l'offerta, dichiarando che un Mini- stero così formato non avrebbe avuto alcun appoggio nella Camera; l'esempio del Rével fu imitato dagli altri uomini politici cui s' era rivolto il Balbo, e cosi questi fu obbligato a rinunziare l' incarico. Allora Vittorio Emanuele rimandò a chiamare Cavour e gli conferì ufficialmente il mandato di formare il Gabinetto. Cavour accettò e il giorno dopo (3 novembre) presentava la nota dei ministri che non sollevò obiezioni di sorta e fu firmata da Vittorio Emanuele, Cavour, adunque, divenne capo del governo, for- zando, per così dire, la mano al Re, cioè, non perchè il Re lo volesse, ma perchè dovette subirlo ; questo si sostiene comunemente. Noi facciamo le seguenti osser- vazioni in contrario. Anzitutto, non era ignoto ad al- cuno, e molto meno a Vittorio Emanuele, che il Mi- nistero D'Azeglio non avrebbe potuto reggersi a lungo, che Cavour ne era il successore designato dall'opinione pubblica, quindi, se il Re avesse avuto un'assoluta ri- pugnanza a chiamare Cavour, non avrebbe precipitata, resa inevitabile, con un suo atto d'autorità, la caduta del Gabinetto D'Azeglio, anzi l'avrebbe il più possibile ritardata. Invece fu proprio Vittorio Emanuele a prò- 240 CAPITOLO Vili. vocare la crisi, e su una questione nella quale egli sa- peva che Cavour aveva idee molto più diverse dalle sue, di quelle di Massimo D'Azeglio. Per noi, invece, è evidente che Vittorio Emanuele volle, di proposito deliberato, anticipare la chiamata di Cavour al potere, forse nella speranza di potergli piìi facilmente imporre delle condizioni. Non riuscì in tutto, ma in parte sì. Infatti Cavour rifiutò le condizioni messe dal Re, ben sapendo che il tentativo di formare un Ministero Balbo sarebbe fallito, e attese di essere richiamato. Ma quando questo avvenne, il Re, che non aveva nemmeno lui mai creduto al Ministero Balbo, non po.se più esplici- tamente condizioni, ma i suoi desiderii furono, in gran parte, esauditi da Cavour, il quale comprese che non bisognava stravincere. Infatti il nuovo presidente aderì a non mettere la questione di Gabinetto sull'approva- zione della legge sul matrimonio civile e accondiscese a nuove trattative colla Corte di Roma; i due, insomma, cedendo reciprocamente qualche parte delle loro idee, finirono per trovarsi d'accordo. E noi crediamo che sa- pessero già da un pezzo che si sarebbero accordati ; quindi anche non crediamo che siano nel vero quelli che, esagerando le antipatie dell'uno per l'altro, sosten- gono essere stato Vittorio Emanuele costretto, forzato a chiamare al governo Cavour. Erano due uomini ac- cortissimi, che naturalmente, perchè si conoscevano, forse un po' sospettavano l'uno dell'altro, ma, appunto perchè si conoscevano, invece che combattersi e cercare d'ingannarsi reciprocamente, erano destinati ad andare d'accordo. Nella storia non crediamo che si trovino un mini- stro e un Re più fatti l'uno per l'altro. Il ministro. CAPITOLO Vili. 241 genio potente, anima entusiasta, mente essenzialmente politica, audace più che prudente, non mai temerario; il Re, ambizioso, ma leale, furbo, conoscitore degli uo- mini, audacemente cavalleresco, persuaso che nessuna grandezza, nessun fastigio di potenza fosse a lui inac- cessibile; l'uno e l'altro innamorati della causa italiana, essi si persuasero ben presto che erano fatti per inten- dersi e che si erano reciprocamente necessari!. Senza Cavour, Vittorio Emanuele non sarebbe probabilmente divenuto Re d' Italia, morto in Roma e stato seppellito nel Pantheon, ma, senza Vittorio Emanuele, con un altro Re, che di questo non avesse avuto le qualità, ed anche i difetti, Cavour avrebbe avuto ostacoli insormontabili da superare, sarebbe forse riuscito alla guerra del 1859, ma molto difficilmente avrebbe potuto trarre, dalla pace di Villafranca, l'unità italiana e la proclamazione di Roma capitale. Senza ambedue, poi, 1' ideale di Maz- zini non si sarebbe concretato nei fatti, né Garibaldi avrebbe potuto compiere l'eroica impresa dei Mille, né r Europa conservatrice avrebbe permessa, e legalizzata col suo consenso, l'opera più rivoluzionaria della storia moderna, quale fu la costituzione dell' Italia una e l'abolizione del potere temporale. IL Dal 4 novembre 1852 fino al giorno della sua morte, Cavour fu sempre al potere, meno il breve periodo che va dall'armistizio di Villafranca al gennaio del 1860. Cambiò spesso ministri, ma il suo governo non cam- biò mai neir indirizzo e nel programma ; i mutamenti Cavour. ,< 242 CAPITOLO Vili. di persone furono fatti per mantenere l' indirizzo e at- tuare meglio il programma, non per mutare quello o questo. Ciò distingue il connubio di Cavour dai trasfor- mismi successivi. Cavour aveva un programma deter- minato nelle sue linee fondamentali, cercò uomini che lo accettassero senza badare alla loro provenienza e ai loro antecedenti politici, creò con questi un partito nuovo, di centro, che lasciava ad egual distanza i due estremi della Camera; nel partito suo entrarono nuovi elementi e furono sempre ben accetti; egli poi formava cogli uomini principali, o più indicati, il Ministero, che mutava secondo le opportunità del momento, non per mutamento di programma. Era un partito personale il suo, ma fondato su idee precise che da lui emanavano e nelle quali gli altri consentivano, e questo consenso nelle idee toglieva al partito stesso quel carattere che ebbero dopo, per opera di altri uomini di Stato, consi- mili movimenti parlamentari, i quali furono inspirati dal predominio di un uomo che, per rimanere al potere, mutava programmi e base politica. Il movimento di Cavour, alto e nobile nei suoi in- tendimenti, puro nelle sue estrinsecazioni, non corruppe il sistema parlamentare, bensì lo abilitò a determinare e guidare l'impresa italiana; gli altri movimenti con- simili successivi furono la causa principale della deca- denza e della corruzione delle istituzioni, nonostante le buone qualità e le rette intenzioni di molti dei loro pro- motori e seguaci. L'opera politica del Conte di Cavour, ministro di- rigente, si può dividere in tre periodi. Il primo arriva fino alla guerra di Crimea, il secondo dalla guerra di Crimea arriva a Villafranca, il terzo e ultimo comprende CAPITOLO Vili. 243 i plebisciti, le annessioni e la formazione dell'unità ita- liana. Nel primo, Cavour prosegue le riforme civili, economiche, finanziarie, che devono abilitare il Piemonte a farsi centro delle aspirazioni e delle speranze italiane, e si sforza e riesce a fare entrare il Piemonte stesso nel consorzio delle grandi potenze, e quindi a collocare la questione dell' Italia nel novero di quelle che ave- vano un' importanza internazionale ; nel secondo, lancia apertamente la sfida all'Austria, prepara e determina l'alleanza colla Francia, arriva, superando ogni osta- colo, alla guerra e, con questa e accanto a questa, suscita e dirige la rivoluzione dell' Italia centrale, finché è co- stretto ad arrestarsi dalla tregua di Villafranca ; nel terzo, determina, suscita, guida il movimento unitario e lo fa consacrare solennemente nei plebisciti, colla proclamazione del Regno d'Italia e di Roma capitale. In questi tre periodi noi abbiamo una concatena- zione logica di fatti, un logico svolgimento di idee, non vi è nulla di saltuario o di accidentale nell'opera dello statista, egli non si contraddice mai, ciò che fa oggi è la conseguenza necessaria di ciò che ha fatto ieri ; le circostanze, le opportunità momentanee, le condizioni improvvise sono da lui disciplinate e sfruttate come se le avesse previste, perchè egli non sì fa mai sorpren- dere impreparato, e anche che in realtà lo sia, colla meravigliosa agilità del suo ingegno supplisce immedia- tamente. Perchè ciò che è straordinario in Cavour è l'audacia, si direbbe, temeraria dei divisamenti e delle decisioni, che si congiunge all'accortezza e all'abilità diplomatica e parlamentare. Nel fatto, nel suo tempe- ramento, le qualità dello statista si uniscono a quelle del pensatore e del capo o tribuno popolare ; egli sa 244 CAPITOLO Vili, essere prudente e avventato, sente la profonda verità del detto che la fortuna è cogli audaci, e vi si conforma largamente, è, insomma, al governo e nella tempesta politica, un terribile atleta, dalle forze inesauribili, de- stinato ad essere sempre vincitore, perchè non si dà mai per vinto, né può essere mai domato. Egli ha la sicura percezione della sua forza, egli sente che è tutta sua personale, e in questo sta la ragione prima del suo liberalismo. Egli è sicuro di dominare quando possa di- scutere, accapigliarsi cogli avversarii, inspirare giornali, pubblicare note diplomatiche, ha bisogno dell'aria li- bera, aperta ; non è uno statista da Gabinetto, dagli avvolgimenti tenebrosi e sempre in mala fede, perciò non vuole pieni poteri, e confessa che se fosse ditta- tore non potrebbe far nulla di bene. In questo sta la caratteristica principale che lo distingue dai maggiori statisti del continente europeo, e lo assomiglia, però senza confonderlo, ai grandi statisti inglesi, e diciamo senza confonderlo, perchè nessun uomo politico inglese ha avuto da compiere un' impresa così ardua, difficile e complessa come quella di Cavour. Ma vediamolo all'opera. III. Tra i nomi dei ministri sottoposti all'approvazione del Re da Cavour non era compreso quello di Urbano Rattazzi ; e ciò, non perchè a lui avesse omesso di ri- volgersi Cavour, ma perchè il capo stesso del centro sinistro, pur promettendo il suo appoggio al Ministero, non aveva voluto entrarvi. Indubbiamente tra Cavour CAPITOLO Vili. 245 e Rattazzi era un' intesa perfetta, ma non tutti i seguaci dell' illustre avvocato alessandrino avevano piena fidu- cia nel primo, e negli uomini di destra che lo circon- davano. Inoltre, Cavour stesso, massime nelle questioni di politica ecclesiastica, doveva tener conto degli scru- poli del Re, e perciò era meglio che in quei primi tempi non avesse collega al governo l'alleato di sinistra. Ca- vour, come si è detto, aveva promesso al Re di non porre la questione di Gabinetto dinanzi al Senato sulla proposta di legge del matrimonio civile ; e infatti non la pose, sebbene pronunziasse un poderoso discorso in favore della proposta stessa. Egli nettamente determinò la questione, mostrando che 1' intervento dello Stato nel matrimonio non ledeva il concetto religioso del ma- trimonio stesso, né i diritti della Chiesa; rilevò la stra- nezza del contegno della Santa Sede che si opponeva in Piemonte a un istituto che, non solo tollerava, ma ammetteva e riconosceva in altri paesi, e, infine, con- cluse affermando il diritto dello Stato a regolare la ma- teria del matrimonio indipendentemente da ogni accordo con Roma. Anzi, a questo proposito, dichiarò che non sarebbe stata possibile nessuna di quelle riforme in ma- teria ecclesiastica che tutti invocavano, e per operare le quali era necessario trattare colla Santa Sede, se prima lo Stato non avesse operate da sé le riforme nella propria legislazione, per le quali non occorrevano questi accordi, come era appunto il caso del matrimo- nio civile, che non toccava né direttamente né indiret- tamente la religione e la Chiesa. Evidentemente con tale argomento Cavour mirava, più che a far breccia sul Senato, a impressionare l'anino del Re per l'avvenire. Il progetto fu respinto dal Senato, 246 CAPITOLO Vili. dopo prova e controprova, e unicamente perchè il pre- sidente, infrangendo la consuetudine, diede il suo voto contrario alla legge proposta. Questa votazione dimostra chiaramente che, sebbene Cavour non ponesse la que- stione di Gabinetto, pure fece quanto stava in lui per fare approvare il progetto, che fu dal Ministero ritirato esprimendo però « il rammarico di non aver avuto con- senziente il Senato in cosa che credeva prescritta dalle leggi e voluta dall'opinione del paese. » Quest'acquie- scenza del Gabinetto irritò fortemente la sinistra e di- spiacque anche al centro sinistro, e più si accentuò il malumore quando fu pubblicata una dichiarazione dei vescovi sardi che comminava la scomunica a chiunque avesse obbedito a una legge che stabilisse il matrimonio civile. Il BrofFerio, ed altri della sinistra, attaccarono fie- ramente il Ministero e per il ritiro della legge e più per non aver sottoposto a processo, come ribelli, i vescovi sardi, rilevando che in tal modo non si mantenevano le promesse, né si avveravano le speranze destate dal- l'avvento al potere d' un Gabinetto presieduto da Ca- vour, che si era annunziato come francamente liberale. Cavour si difese con molta abilità, dichiarò che non aveva abbandonata la causa delle riforme, che anzi era più che mai devoto ad essa e aggiunse queste parole molto significanti : « L'esperienza però e dei tempi an- dati e dei presenti ci ha fatti convinti che con maggiore certezza si raggiunge la meta, quando si procede con energia non discompagnata dalla prudenza. I soli po- poli che sieno riesciti a stabilire su salde basi le loro istituzioni, sono quelli che hanno saputo camminare sulla via delle riforme con fermezza e con cautela a un tempo ; sono i popoli che non hanno voluto accelerare di troppo CAPITOLO Vili. 247 le riforme, e tennero conto del grande elemento per esse necessario, voglio dire del tempo. » In quanto poi al non aver punito i vescovi sardi egli chiaramente ri- vendicò, non a favore di questi, ma del governo, il ri- spetto alla libertà. E ciò, non solo per principio, ma an- che per opportunità politica. La storia contemporanea, egli disse, ci dimostra « che quando il partito clericale si mette a combattere la libertà, non vi è altro mezzo più efficace per resistere ai suoi insulti, che di oppor- gli i principii di tolleranza e di libertà. » E, dopo aver addotto esempii e fatti ragionamenti acuti a conforto di questa sua asserzione, colse l'occasione per affermare che se il Ministero non calcolava sull'appoggio del gruppo più conservatore della destra, respingeva però anche quello della sinistra radicale. « Mi duole di dover quindi sin d'ora rinunziare a quell'appoggio che forse l'onorevole Brofferio sarebbe stato disposto a concederci, ma io credo che sia più opportuno, e pel partito che rappresenta l'onorevole Brofferio e pel partito che noi rappresentiamo, che le nostre posizioni siano nettamente stabilite. » Comunemente non si attribuisce una grande importanza al fatto che, mentre Cavour si distaccava da uno degli estremi delia Camera, si separava anche net- tamente dall'estremo opposto ; questo egli fece, perchè, essendo un vero e grande statista, non un politicante ambizioso, capiva che il primo suo dovere era quello di togliere ogni equivoco, di ripudiare gli aiuti infidi di uomini coi quali, se poteva avere qualche cosa di co- mune nella pratica parlamentare in certe eventualità, non aveva comune né le finalità, né i mezzi d'azione politica. Cavour teneva tanto a questo che mise quasi a repentaglio l'alleanza col centro sinistro pur di to- CAPITOLO Vili. gliere ogni equivoco in proposito, come si vide nella discussione della nuova legge sul reclutamento dell'eser- cito che diminuiva, ma non toglieva del tutto, le esen- zioni dal servizio militare per coloro che si davano al sacerdozio. Era tanto chiaro il suo concetto che l'unione col centro sinistro non fu rotta, ma si può dire che non avrebbe esitato a romperla quando per mantenerla avesse dovuto sacrificare, anche solo in parte, le sue idee. Un'aspra battaglia egli ebbe anche da sostenere in ma- teria finanziaria. Un poderoso oratore della sinistra, l'onorevole Saracco, sorse a combatterlo rimproverando il Ministero di non preoccuparsi che della finanza, di non presentare che leggi d' imposta, imponendo nuovi pesi ai cittadini, senza che fossero attuate quelle riforme che pure aveva promesso, e perciò concludeva negan- dogli la sua fiducia. Cavour rispose difendendosi con molta abilità e dichiarò che « la più urgente delle riforme per noi è il dare assetto al nostro ordinamento finan- ziario, perchè questa è per noi in certo modo questione di vita o di morte. Se dopo quattro anni di pace noi non giungessimo a ristabilire l'equilibrio fra l'entrata e l'uscita, se noi non riuscissimo a colmare il disavanzo, noi scapiteremmo altamente nell'opinione di tutte le na- zioni europee, noi perderemmo una gran parte di quella forza morale che abbiamo acquistata. s> Questo concetto egli ribadì alcuni giorni dopo e vi insistette sempre : occorreva che il Piemonte fosse forte finanziariamente ed economicamente, e ciò, con l' intento di prepararsi all' impresa italiana, ed anche per assicurare la sua po- sizione nella politica internazionale. Mostrando all'Eu- ropa che questo piccolo Stato, non solo conservava e CAPITOLO Vili. 249 svolgeva le istituzioni libere, ma, in esse e per esse, non rifuggiva da sacrifizi! pur di fare onore ai suoi impe- gni, si conquistavano davvero le simpatie dell'opinione pubblica e dei governi, e si aumentava la fiducia degli uomini d'affari, padroni del mercato internazionale e coi quali tutti i governi moderni devono fare i conti prima di cominciare qualunque rischiosa impresa. Per riuscire allo scopo di rafforzare le finanze del Piemonte Cavour non esitò a incontrare la impopolarità; appro- fittando della crisi agricola che infierì sul Piemonte nel 1853, i suoi avversarli, specialmente il Brofferio, gli concitarono contro le classi più disagiate. Io dipinsero come incettatore di grano e affamatore del popolo, e tanto riuscirono nell'opera malvagia e stupida che, la sera del 18 ottobre, una turba di gente circondò il suo palazzo, tentò di irrompere nelle scale e nell' interno, profferendo imprecazioni contro di lui e cercandolo a morte. Questi eccessi naturalmente eccitarono una rea- zione, la parte migliore della cittadinanza gli si strinse attorno, e, come per dare la prova che l'alleanza col centro sinistro era più salda che mai. Urbano Rattazzi accettò di entrare, proprio in quel momento, nel Mini- stero, assumendo il portafoglio di grazia e giustizia. IV. Fu in questo periodo che, per la prima volta dopo Novara, il Piemonte si trovò di fronte direttamente al- l'Austria. Appariva tanto evidente che la nuova politica piemontese esercitava come una specie di fascino sulle popolazioni italiane, specialmente sulle lombarde, e pre- 250 CAPITOLO Vili. parava gli elementi d'una nuova e più fortunata ri- scossa, che il governo austriaco non poteva non preoc- cuparsene vivamente. Dal punto di vista ufficiale i rapporti tra i due Stati erano corretti. II governo austriaco si lamentava che i giornali subalpini lanciassero continue ingiurie all' Impe- ratore, lamentava anche che gli emigrati lombardi an- nodassero e preparassero congiure sul territorio del regno contrarie all'Austria; il governo piemontese ri- spondeva che la sua legge fondamentale gli proibiva di sopprimere i giornali, che, del resto, era pronto a ini- ziare contro di questi processo quando il governo au- striaco lo chiedesse, e che, in quanto agli emigrati, non mancava di sorvegliarli e avrebbe preso misure ener- giche contro quelli i quali fosse provato che abusavano dell'ospitalità concessa loro; questo scambio di note, di dispacci, di conversazioni, se dinotava l'impossibi- lità d'un accordo tra i due Stati, non arrivava però a produrre un disaccordo, un urto violento tra essi. Spesso l'Austria presentava le sue rimostranze van- tando l'appoggio della Francia e dell'Inghilterra, e qualche volta l'appoggio era reale; allora le risposte a queste due erano diverse e miravano sempre a dimo- strare che l'Austria aveva torto e che essa era la causa prima, se non l'unica, degli eccessi della stampa, per Io sgoverno che faceva delle provincie a lei soggette. Intendimento della politica di Cavour nei rapporti internazionali era poi quello di separare l'Austria dalle altre due potenze, persuadendo queste a mettersi, per rispetto alle cose d'Italia, piuttosto dalla parte del Pie- monte. Perciò egli spiava tutte le occasioni favorevoli; fino a tanto che non fossero maturi i tempi per un'azione CAPITOLO Vili. 251 decisiva, era disposto a considerare questa separazione come il più grande dei successi diplomatici ; perchè avrebbe assicurato il Piemonte contro un improvviso as- salto dell'Austria e gli avrebbe permesso di rafforzarsi economicamente e militarmente per l'avvenire. Il go- verno austriaco non sapeva con quale avversario avesse a che fare, altrimenti non gli avrebbe così facilmente dato il pretesto che cercava per riuscire nell' intento. Il 6 febbraio 1853 scoppiava un moto mazziniano a Milano, il quale, come è noto, miseramente abortiva. Il governo piemontese, che ne aveva avuto sentore, aveva prese tutte le precauzioni necessarie ad impedire che bande armate partissero dal suo territorio in aiuto agli insorti ; imprigionò gli emigrati che, senza motivo, avevano abbandonato il luogo di loro abituale dimora ; e, perciò, nessun aiuto venne dal Piemonte ai rivoluzio- narli milanesi. L'Austria da prima si mostrò grata per queste precauzioni, poi, forse illudendosi sulla reale portata dell' amicizia sua colle corti di Parigi e di Lon- dra, pensò di provocare il Piemonte, costringendolo o ad una guerra che sarebbe riuscita disastrosa, o ad un'umiliazione simile a quella già inflitta ad Olmiitz alla Prussia. Perciò, repentinamente, il 13 febbraio il governo imperiale colpiva di sequestro i beni posseduti nel territorio lombardo-veneto dagli emigrati che erano stati naturalizzati cittadini sardi. Con questo l'Austria violava il trattato di pace di Milano, toglieva ogni ef- fetto all'amnistia accordata nel 1849, infrangeva il trat- tato di commercio del 1851 che assicurava ai sudditi sardi il pieno possesso dei loro beni situati nel terri- torio imperiale ; un simile modo di procedere non sa- rebbe stato giustificato altro che se si fosse avuta la 252 CAPITOLO Vili. prova che il moto mazziniano era stato tramato col- l'aiuto del governo piemontese, mentre invece era vero il contrario. Cavour vide subito ii partito migliore da prendere in questa grave congiuntura e fu mirabilmente secondato dal Re e dal Ministero. Poiché era evidente la provocazione austriaca, ed anche era evidente che qualunque rappresaglia avrebbe servito all'Austria per ricominciare la guerra, mentre il Piemonte non aveva alleanze che lo sostenessero, bisognava limitarsi a far rilevare il torto dell'Austria, denunciando all'Europa la sua condotta prepotente e lesiva del diritto delle genti. Fu inviata una dignitosa e fiera protesta al Gabi- netto di Vienna chiedendo che fosse tolto il sequestro ; non avuta risposta soddisfacente, il ministro piemontese abbandonò la sua residenza ; con ciò le relazioni diplo- matiche venivano rotte, senza però dare alcun pretesto alla guerra. Contemporaneamente era inviato un memo- randuìn alle grandi potenze, invocando, non la loro mediazione, ma il loro appoggio morale. Questo me- morandum, caldamente appoggiato a Londra da Mas- simo D'Azeglio, a Parigi presso l'Imperatore dal conte Francesco Arese, sortì l'effetto sperato: l'Austria fu costretta a dichiarare ai Gabinetti francese e inglese che non ammetteva che alcuno Stato si intromettesse nelle sue faccende interne ; con ciò peggiorò e aggravò i suoi torti, e fu fatto il primo passo verso quella situa- zione internazionale dalla quale doveva essere deter- minata la guerra del 1859. Il Conte di Cavour a un emigrato lombardo disse che l'Austria aveva, ordinando i sequestri, compiuto un grande errore e aggiungeva : «volendo farci male ci ha reso un grande servigio. Non dubiti : ne profitteremo ; passeremo più presto il Ticino. » CAPITOLO Vili. 253 V. Dalle discussioni parlamentari, dall' ingresso del Rat- tazzi nel Ministero e, infine anche, dal relativo successo ottenuto nella vertenza dei sequestri, riuscì rinforzata la posizione di Cavour, e questi pensò di approfittarne per consigliare al Re lo scioglimento della Camera e le elezioni generali. Parvegli opportuno interrogare il paese sulla poli- tica fino allora seguita dal suo governo, per trarne in- citamento e conforto a proseguire in essa, quando la risposta fosse, come credeva fermamente, stata favore- vole. La Camera colla quale egli era andato al potere, aveva già quasi quattro anni di vita, era sorta in altre e diverse circostanze, si poteva quindi dubitare che non rispondesse alle nuove tendenze del paese, e perciò la sua autorità morale veniva ad essere singolarmente di- minuita. Inoltre Cavour aveva troppo squisito il senso delle esigenze del sistema parlamentare, per non capire che uno statista, il quale abbia un programma vasto da svolgere, non può mai essere sicuro di sé se non ha formato su quello una maggioranza uscita, in modo di- retto e immediato, dal corpo elettorale cui il programma stesso sia stato sottoposto. Nel caso suo poi le elezioni generali si imponevano anche per vincere la opposizione persistente del Senato, nel quale perdurava una forte diffidenza verso la politica nuova del Ministero. Il corpo elettorale rispose all'appello rivoltogli, rin- viando alla Camera in gran numero i deputati dell'an- tica maggioranza e così Cavour potè più francamente proseguire nella via intrapresa. Il programma enunciato 254 CAPITOLO Vili. nel discorso della Corona comprendeva riforme econo- miche, riforme nei rapporti dello Stato colla Chiesa, riforme amministrative, nei codici, nell' insegnamento e infine il completamento e il rafforzamento dell' eser- cito. Fu subito proposta e approvata l'abolizione del dazio sui cereali, sebbene l'opinione di molti vi fosse contraria, a causa dello scarso raccolto del frumento che aveva fatto elevare il prezzo del pane ; poi, subito dopo, fu proposto di abolire quegli articoli del codice penale che sancivano pene criminali per le offese alla religione sostituendovi pene più miti, e di stabilire pene per quei ministri dei culti, i quali, nell'esercizio del loro ministero, censurassero le istituzioni dello Stato e pro- vocassero alla ribellione e alla disobbedienza verso le leggi. Su queste proposte vi fu aspra discussione alla Camera: i deputati di destra, specialmente il Costa di Beauregard, amico personale di Cavour, fu violento nei suoi discorsi di opposizione. Cavour rispose in termini fieramente dignitosi, dimostrò che la proposta ministe- riale non offendeva né la religione, né la Chiesa cat- tolica. « V'é chi crede che per essere cattolici sia ne- cessario di credere alla supremazia della Chiesa sullo Stato. Noi invece crediamo che si possa e si debba esser cattolici, mantenendo lo Stato assolutamente dalla Chiesa indipendente. . . , Noi crediamo avere la religione molto a guadagnare dalla sua unione coi principii di libertà; noi crediamo fermamente che essa non possa mante- nere la sua salutare influenza sugli animi, se non cessa quella lotta che è contraria al suo spirito, contraria alle massime del suo divin fondatore. » Combattuto dalla destra conservatrice, Cavour non era meno osteggiato dalla sinistra; e destra e sinistra CAPITOLO Vili. 255 spesso si univano non solo nel votar contro il Gabinetto, ma anche nei discorsi, sebbene questi fossero animati da opposti sentimenti. Egli teneva testa a tutti, le di- scussioni non lo stancavano, né lo trovavano mai im- preparato, la sua parola era sempre convincente, alle volte pungente contro gli avversarli fino al sarcasmo, alle volte bonaria ; la maggioranza, soggiogata, lo se- guiva con entusiasmo anche se la sottoponeva a dure prove, come avvenne quando, per compiacere al Re che sperava sempre di potere annodare, per le riforme ec- clesiastiche, trattative serie e fruttuose con Roma, ac- consentì ad elevare il grado del rappresentante sardo a Roma da incaricato d'affari a ministro plenipoten- ziario. Sul relativo stanziamento nel bilancio passivo del Ministero degli esteri, la sinistra diede battaglia incol- pando il Ministero di usare troppa longanimità nelle trattative con Roma, e insinuando che forse ciò era do- vuto a pressioni provenienti dall'estero. Cavour rispose che, senza voler destare soverchie speranze, era dovere del governo di proseguire nei ne- goziati, perchè « non bisogna credere che nel paese vi siano solo due opinioni, quella di coloro che non vo- gliono negoziazioni, né accordi a qualunque patto con Roma, e quella di coloro che li vorrebbero a qualunque condizione. Vi é un'opinione di mezzo ed è forse quella della maggioranza, la quale sta fra queste due contrarie ed estreme e . . . . questa maggioranza desidera 1' ac- cordo colla Corte di Roma; lo desidera a condizioni che mantengano intatto l'onore, l'indipendenza, la di- gnità nazionale; e quando, senza fondati motivi, e prima che vi fosse l'assoluta impossibilità di avere quest'ac- cordo, si venisse a rompere le trattative, questa mag- 256 CAPITOLO Vili. gioranza sarebbe offesa nei suoi più intimi sentimenti. » E in quanto alla insinuazione che il governo in tale questione avesse ceduto a pressioni esterne, egli disse che « le trattative con Roma fanno parte del sistema politico del Ministero, cioè del complesso delle sue re- lazioni con tutte le potenze d' Europa. » Poi dalla questione speciale passando alla generale, invitò la Camera a pronunciarsi nettamente intorno alla politica ministeriale, giudicandola, in quest' occasione, nel suo complesso. A grande maggioranza (100 contro 33 e 8 astenuti) la Camera approvò lo stanziamento in bilancio e quindi confermò la sua fiducia nel Ministero. Eguale vittoria riportò Cavour nelle votazioni delle leggi finanziarie che dovevano assicurare il pareggio e quindi la prima ses- sione della legislatura, che si chiuse il 15 luglio del 1854, lo riconfermò e fortificò nel governo, mostrando che la sua politica incontrava l'approvazione piena ed intera della rappresentanza nazionale. VI. Intorno alla partecipazione del Piemonte alla guerra, così detta, di Crimea, non v' è piìi alcuna discussione sulla sua utilità e sui beneficii che ha arrecato alla causa italiana. Anche quelli che più vi si opposero, fu- rono costretti a riconoscere che fu un' idea provviden- ziale, che, senza di essa, non sarebbe stata possibile la alleanza colla Francia e quindi la guerra e la rivolu- zione del 1S59. Piuttosto si discusse e si discute intorno alla persona che ne ebbe prima il pensiero; alcuni soste- CAPITOLO Vili. 257 nendo che fu Cavour, altri Vittorio Emanuele, altri Fa- rini ec. A noi pare che questa sia una discussione oziosa. Che la questione d'Oriente fosse strettamente con- nessa colla questione italiana, era idea vecchia, rinfre- scata e rinvigorita da Cesare Balbo nelle sue Speranze d'Italia; che il Piemonte avesse tutto l'interesse ad unirsi strettamente colla Francia e l' Inghilterra, era idea fondamentale nella politica piemontese, alla quale partecipavano egualmente Cavour, Vittorio Emanuele, e quanti non erano o retrogradi o mazziniani ; infine che si dovesse cogliere ogni occasione per fare della questione italiana una questione europea, era pure idea fondamentale della politica enunciata ed esplicata da Cavour, anche prima di entrare nella vita pubblica at- tiva. Per di più, corrispondeva alle tradizioni di Casa Savoia il mescolarsi in ogni grande questione europea, e Casa Savoia doveva appunto a questo se aveva po- tuto, nella vittoria e nella sconfitta, allargare i suoi do- minii e cingere la corona regale. Ciò essendo, a noi pare inutile investigare chi primo pensò all'alleanza colla Francia e l'Inghilterra; era un'idea, per così dire, nell'aria, comune a molti, e quindi non vi era un gran merito ad enunciarla per primo. Il merito, invece, con- sisteva nell 'attuarla e nel trarre i maggiori benefici! dalla sua attuazione ; e quindi questo principalmente deve essere riconosciuto a Cavour e a Vittorio Ema- nuele. Qui è, più che in altri fatti ed avvenimenti, chiara la perfetta concordanza tra il pensiero del Re e quello del Ministro ; se fra loro non vi fosse stata una perfetta identità di pensiero, non sarebbe stata possibile la partecipazione alla guerra. Anzitutto si trattava di inviare fuori di patria un forte contingente di truppe; Cavour. 17 258 CAPITOLO Vili. si doveva determinare la posizione dello Stato piemon- tese nell'alleanza, si dovevano stabilire gli obblighi e i diritti delle parti contraenti, infine si doveva persua- dere il parlamento e, al di là di questo, l'opinione pub- blica del paese. Ognuno capisce che, data la comples- sità e la difficoltà della questione, qualunque dissidio, anche in punti secondarli, tra Vittorio Emanuele e Cavour, avrebbe assunto un' importanza straordinaria, non sarebbe stato possibile tenerlo nascosto e avrebbe compromesso la buona riuscita dell' impresa. E questo tanto più perchè Vittorio Emanuele era un Re scrupolo- samente costituzionale, fin che si vuole, ma attivo, non inerte ; massime nelle questioni militari e nella politica estera. Inoltre, per quanto fosse, come abbiamo detto, co- mune r idea che la questione italiana era strettamente connessa con quella d'Oriente, che il Piemonte dovesse tenersi stretto alla Francia e all'Inghilterra, che, infine. Casa Savoia non poteva rimanere estranea ad una grande guerra europea, la partecipazione alla guerra sollevava molti e gravi dubbii. Se l'Austria, memore degli aiuti avuti nel 1849 dalla Russia, si fosse unita a questa, po- teva facilmente dall'alleanza del Piemonte colla Francia e r Inghilterra, trarre una ragione legittima per schiac- ciarlo. Se invece l'Austria si univa alle due potenze alleate, quale figura avrebbe fatta la bandiera tricolore accanto al giallo e nero austriaco? E, sempre in questa ipotesi, quale vantaggio avrebbe potuto sperare il Pie- monte dalla sua partecipazione alla guerra, essendo evidente che le due potenze alleate avrebbero serbato molta maggior gratitudine all'Austria che al Piemonte? E anche supponendo, come poi avvenne, che l'Austria CAPITOLO Vili. 259 si tenesse neutrale, la neutralità non avrebbe giovato alla Francia e all' Inghilterra assai più del debole aiuto militare del Piemonte, e quindi la gratitudine loro non sarebbe stata maggiore per la prima che pel secondo ? E poi conveniva al Piemonte mettersi in un' impresa costosa, mentre le finanze sue non erano ancora asse- state, né tutte rimarginate le piaghe della guerra d' in- dipendenza? Perchè lo scapito finanziario era certo, non potendosi pensare a mandare come mercenarii i soldati piemontesi, farli cioè mantenere dagli alleati. E poi il sangue piemontese era sacro alla causa italiana, perchè spargerlo in una guerra lontana, per interessi né ita- liani e neppure piemontesi ? A queste obbiezioni d'or- dine generale si aggiungevano, pei conservatori e i re- trogradi, il timore che, accampandosi contro la Russia, lo Stato sabaudo si allontanasse sempre più dai suoi principii tradizionali, procedendo verso la ruina; pei radicali la ripugnanza ad un' alleanza coli' Imperatore che aveva schiacciata la Repubblica Romana ed era salito al trono con un colpo di Stato, e, per di più, i pregiudizii tradizionali contro la perfida Albione, e il modo tutto retorico di considerare la questione di Oriente. Le prime trattative per l'alleanza mossero dall' In- ghilterra e dalla Francia, le quali, contemporaneamente, si assicuravano dell'Austria, sperando di averla alleata, e in ogni caso, certamente, di non averla nemica. Era una politica « a doppio fondo» come piaceva a Napoleone III, della quale, solo con un' abilità diplomatica straordina- ria, si poteva approfittare. Era evidente che le due po- tenze occidentali avevano interesse a non farsi nemica l'Austria, era anche evidente che questa avrebbe pò- 260 CAPITOLO Vili. tuto, tutt' al più, nonostante le promesse e gì' impegni in contrario, rimanere neutrale, non mai schierarsi con- tro la Russia ; l'alleanza piemontese serviva appunto a impedire all'Austria di prender parte a favore della Russia. Che se poi l'Austria si fosse unita alla Francia e air Inghilterra, la presenza del Piemonte avrebbe avuto bensì minor valore, ma non sarebbe mai stata a questo dannosa, perchè, a guerra finita, si sarebbe ope- rato un rimaneggiamento della carta d' Europa, del quale si sarebbe potuto approfittare, non in modo certo, ma almeno molto probabile. In ogni caso, però, e qui stava il punto debole che solo l'abilità diplomatica e politica poteva non rendere pericoloso, l'alleanza del Piemonte non poteva essere patteggiata in termini pre- cisi che contenessero promesse di compensi in Italia, perchè mai avrebbero acconsentito le due potenze a impegnarvisi, per non inimicarsi l'Austria. Come si vede era un' impresa rischiosa, quella in cui si metteva il Piemonte, una di quelle imprese che solo il genio politico può osare, perchè solo il genio può sentire in sé la forza d' incatenare la fortuna. Questo videro Vit- torio Emanuele e Cavour ; il secondo poi, in modo speciale, vide che in ogni eventualità, egli, colla parte- cipazione del Piemonte alla guerra, sarebbe riuscito a fare entrare la questione italiana nella politica interna- zionale, e questo gli sarebbe, nella peggiore ipotesi, ba- stato. Non s' illudeva sulla enorme responsabilità che si assumeva. « Ho assunto sul mio capo una responsa- bilità tremenda, scriveva al conte Oldofredi; non im- porta, nasca quel che sa nascere, la mia coscienza mi dice avere adempiuto a un sacro dovere. » E alla con- tessa di Circourt : « . . . . je sens tout le poids de la CAPITOLO vni. 261 responsabilité que cela fait peser sur moi ; mais elle nous était imposée par l'honneur et le devoir. Puisque la Providence a voulu que, seul en Italie, le Fiémont fùt libre et indépendant, le Piémont doit se servir de sa liberté et de son indépendance pour plaider devant l'Europe la cause de la malheureuse péninsule les coeurs généreux comme le vótre sympathiseront avec nos efforts pour rappeler à la vie une nation renfermée depuis des siècles dans un affreux tombeau. » Che la partecipazione alla guerra contro la Russia potesse servire a facilitare l' impresa dell'indipendenza italiana, capirono molti e sopratutto capirono gì' italiani soggetti alla do- minazione straniera e alle tirannie indigene o importate. Bettino Ricasoli e i liberali toscani. Marco Minghetti e i liberali romagnoli, quei generosi che il Borbone aveva sepolti nelle carceri dei suoi castelli, coloro che nella Lombardia e nella Venezia gemevano sotto l'op- pressione austriaca, gli emigrati in Piemonte che suppli- cavano non si tenesse conto dei loro interessi pur di sottoscrivere l'alleanza, tutti insomma applaudirono com- mossi a questa politica audace, che si affermava per opera di Vittorio Emanuele e del suo grande ministro. Era una politica italiana negl'intendimenti e nelle spe- ranze, non una politica piemontese, e questo spiega come parecchi tra gli amici stessi del Conte di Cavour non ebbero la forza di seguirlo. Il Dabormida, ministro degli affari esteri, fu il principale tra questi, e, infatti, prima che fosse sottoscritto il trattato, diede le dimis- sioni, e Cavour gli si sostituì assumendo V interim di quel ministero. Il trattato colla Francia e l' Inghilterra, firmato il 26 gennaio, fu presentato il giorno stesso alla Camera, 202 CAPITOLO Vili. che ne cominciò la discussione il 3 febbraio e lo ap- provò il IO con loi voti favorevoli e 60 contrarli. Sot- toposto poi all'approvazione del Senato, questo pure la concesse dopo ampia discussione, e così potè ben presto un corpo d'armata di 15,000 uomini imbarcarsi a Ge- nova, sotto gli ordini di Alfonso La Marmora, per la Crimea. La discussione che ebbe luogo nel parlamento sub- alpino fu una delle più alte e nobili che la storia ri- cordi. Oratori potenti a favore furono principalmente gli esuli illustri Cesare Correnti e L. C. Farini, contrarli altri molti delle due parti opposte della Camera e della parte più conservatrice del Senato ; ma, sopra tutti, con eloquenza fascinatrice, s'inalzò il Conte di Cavour. Presentando il progetto di legge alla Camera il 26 gen- naio, disse che tra i due partiti che si presentavano al Piemonte nel grande conflitto europeo, la neutralità, cioè l'isolamento, o l'alleanza colle potenze occidentali, il governo del Re aveva scelto il secondo, perchè « la neutralità talvolta possibile alle potenze di prim 'ordine, lo è rare volte a quelle di second'ordine.... la neutra- lità il cui men triste frutto è farvi in ultimo bersaglio ai sospetti e agli sdegni di ambe le parti.... » Gli esempi della storia, l'antiveggenza del futuro, le nobili tradi- zioni delia Casa di Savoia, tutto s' univa onde scostare il ^Ministero da una politica timida, neghittosa e con- durlo invece per l'antica via seguita dai padri nostri.... E così concludeva : « Alla croce di Savoia come a quella di Genova sono note le vie dell'Oriente. Ambedue si spiegarono vittoriose su quei campi che rivedono oggi, rifuse in una sola, sui colori della nostra bandiera. Posta ora fra i gloriosi stendardi d'Lighilterra e di Francia, CAPITOLO Vili. 263 saprà mostrarsi degna di così alta compagnia, e la be- nedirà quel Dio che resse da otto secoli la fortezza e le fede della Dinastia di Savoia. » Il discorso principale però fu pronunziato da Cavour il 6 febbraio. In esso esaminò sotto tutti gli aspetti la questione, spiegò come fosse richiesta l'alleanza col Piemonte, difese nei loro termini precisi la convenzione militare e la finanziaria, che accompagnavano il trattato d'alleanza, diede la prova che questa era accolta con entusiasmo in Francia e in Inghilterra, e poi venne ad esporre le ragioni che ave- vano indotto il governo all'alleanza, dimostrando che il Piemonte era interessato direttamente nella guerra che aveva lo scopo di impedire alla Russia la conquista di Costantinopoli e quindi di un predominio assoluto nel Mediterraneo, il cui possesso, per quanto in mano alla Francia e all'Inghilterra, interessava altamente l'Italia se non nel presente, nell'avvenire. Ma più che gì' inte- ressi materiali sarebbero stati, proseguiva il Conte di Cavour, compromessi dalla prevalenza della Russia gì' in- teressi morali del Piemonte. E lo provava rammentando la politica russa dopo la rivoluzione e, principalmente, quella seguita dallo czar Nicolò verso Carlo Alberto e Vittorio Emanuele. Poi, venendo a considerazioni poli- tiche, osservava che, essendo stato invitato ad accedere al trattato, il Piemonte doveva decidersi tra l'accettare l'alleanza o dichiararsi neutrale. « Onde una nazione possa rimanere neutrale senza pericolo, quando le po- tenze di primo ordine sono impegnate in una grande guerra, si richiede, a parer mio, una condizione asso- luta, ed è che la neutralità di quella nazione non torni né a danno, né a vantaggio più dell'una che dell'altra parte belligerante. » Questo non era il caso del Piemonte, 264 CAPITOLO Vili. pel quale gli oratori stessi contrarii al trattato avevano invocato una neutralità armata, che permettesse di sfrut- tare ogni eventualità favorevole. Ora con ciò si venivano ad indisporre le potenze occidentali e a giovare indiret- tamente alla Russia. Certo il Piemonte ha il diritto di stare neutrale, e nessuno può ragionevolmente fargliene colpa ; ma nei consigli della diplomazia, nei congressi delle grandi e delle piccole potenze, i destini dei popoli non sono sempre regolati a tenore di questo strettissimo diritto.... La repubblica veneta aveva certo il diritto di rimanere neutrale fra la Francia e l'Austria alla fine del secolo scorso ; essa non violò nessun principio né ri- spetto all'una, né all'altra; ma la sua neutralità essendo riuscita molesta a tutte due le parti belligeranti, fini per inasprire contro di essa 1' una e l'altra, e queste due po- tenze portarono contro l' infelice repubblica la fatale e, dirò pure, iniqua sentenza del trattato di Campoformio, della quale la povera Venezia, ad onta dell'eloquenza dei suoi figli, non potè mai ottenere la benché menoma riparazione. La neutralità farebbe perdere al Piemonte le simpatie del partito liberale europeo, che appoggia le potenze occidentali, e questa sarebbe grave sventura, perché « io penso che se il Piemonte occupa in Europa un posto forse maggiore di quello che gli compete per la ristrettezza del suo territorio, ciò é dovuto all'appog- gio dell'opinione, né questa potenza dell'opinione pub- blica può venir contestata.... giacché sarebbe discono- scere uno dei maggiori progressi del secolo nostro, una delle più grandi conquiste della civiltà, sarebbe d'al- tronde negar fatti della maggiore evidenza. » Quindi Ca- vour venne a combattere le opinioni di coloro che op- pugnavano il trattato per gli oneri finanziarli, i danni CAPITOLO Vili. 265 economici che avrebbe prodotti, e per i sacrìficii mili- tari cui si sarebbe andati incontro, massime in quel momento in cui le sorti della guerra non volgevano propizie agli alleati. L' ultima parte del discorso fu ri- volta a ribattere gli oratori che si opponevano al trattato perchè, secondo essi, implicava da parte del Ministero l'abbandono dell'indirizzo liberale fin allora seguito. Egli dimostrò luminosamente che il Ministero non aveva cam- biato politica ; poiché aveva sempre sostenuto 1' unione intima colla Francia e coli' Inghilterra, era naturale che con queste si alleasse. Anche l'Austria è alleata delle due nazioni occidentali, si osserva, ma questo non è un motivo per cambiare la politica piemontese. « E se mai accadesse che nello avvicendarsi degli avvenimenti la nostra bandiera non si trovasse lontana dalla bandiera dell'Austria, io direi che è l'Austria che ha cambiato principii non noi. » E poiché si era detto che l'alleanza avrebbe portato necessariamente a modificazioni nella politica interna, Cavour, tra gli applausi della Camera, dichiarò: «Noi siamo entrati nell'alleanza.... coi nostri principii, coi nostri sentimenti, senza disdire nessuna delle nostre azioni passate, nessuna delle nostre aspira- zioni avvenire ; noi ci siamo presentati ad essa colla nostra bandiera alta e spiegata. » E Ottavio di Rével avendo detto che il Ministero aveva stretto il trattato unicamente per scemare la diffidenza prodotta in Eu- ropa dal fatto che Cavour aveva abbandonata la de- stra conservatrice, egli fieramente si difese, spiegando le ragioni del connubio. Fino a che in Francia durò la repubblica giacobina, o quasi, non v'era alcun timore che il partito reazionario in Piemonte attentasse allo Statuto e al suo svolgimento regolare, ma dopo il 2 di- 266 CAPITOLO Vili. cembre, mentre da un lato lo spettro rivoluzionario non era più da temere, il partito reazionario diveniva peri- coloso. « E fu perciò che io credetti non solo oppor- tuno, ma necessario, indispensabile di costituire un grande partito liberale, chiamando a farne parte tutte le persone che, quantunque avessero potuto differire sopra que- stioni secondarie, consentivano però nei grandi principii di progresso e di libertà. Ed io penso (sono costretto a dirlo) di aver reso con ciò un servizio al nostro paese, perchè stimo di avere così innalzata una barriera abba- stanza alta onde la reazione non venga mai a superarla. » Affrettandosi alla conclusione, Cavour volle provare che l'alleanza era giovevole all' Italia e che anche per ciò era stata stretta. Dopo aver detto che le congiure, le rivo- luzioni, i moti incomposti avevano piuttosto danneg- giato che giovato all'Italia, così chiarì il suo pensiero: « Io credo che la principale condizione pel miglioramento delle sorti d'Italia, quella che sovrasta a tutte le altre, si è di rialzare la sua reputazione, di far sì che tutti i popoli del mondo, governanti e governati, rendano giu- stizia alle sue qualità. E per ciò due cose sono neces- sarie: primo, di provare all'Europa che l'Italia ha senno civile abbastanza per governarsi regolarmente, per reg- gersi a libertà, che essa è in condizioni di assumere le forme di governo più perfette che si conoscano : secon- dariamente che il suo valore militare è pari a quello degli avi suoi. Voi avete pel passato reso questo ser- vizio all'Italia colla condotta da voi tenuta per sette anni, dimostrando nel modo più luminoso all' Europa come gì' italiani sappiano governarsi con saviezza, con prudenza, con lealtà. Sta ancora a voi a renderle un eguale, se non maggiore, servizio; sta al nostro paese CAPITOLO Vili. 267 a dimostrare come i figli d'Italia sappiano combattere da valorosi sui campi della gloria. Ed io sono certo che gli allori che i nostri soldati acquisteranno nelle regioni dell'Oriente, gioveranno più per le sorti future d'Italia di quello non abbiano fatto tutti coloro che hanno cre- duto operarne la rigenerazione con declamazioni e con scritti. » Così il pensiero di Cavour si manifestava chiaramente ; così la guerra di Crimea era l'inizio dell'impresa ita- liana. Ma per ciò occorrevano due cose, cioè che il pic- colo esercito piemontese, nei soldati e negli ufficiali, dimostrasse quelle qualità d'ordine, di disciplina, che erano necessarie per conquistargli la stima degli alleati, e che inoltre avesse occasione di distinguersi combat- tendo valorosamente. Sotto la sapiente direzione di Al- fonso La Marmora la prima si ottenne subito, ma la se- conda fu più difficile perchè, naturalmente, gli alleati amavano di far figurare i loro eserciti. E mentre le truppe piemontesi erano tenute lontane dal fuoco, il co- lèra, la cui violenza era aumentata dagli stenti inevita- bili in una campagna di quel genere, menava strage nelle loro file. Giungevano in Piemonte le notizie delle morti e destavano una tristezza indicibile ; l'opinione pub- blica si commuoveva e pareva piegasse verso coloro che avevano avversata la guerra; sì chiamava responsabile Cavour dei disastri, se ne metteva in dubbio la preveg- genza e l'abilità. Cavour rattristato, preoccupato, arri- vava fino a dubitare di sé e a vedere la fortuna della patria e la sua travolte alla rovina, quando il 16 agosto giunse il telegramma che annunciava la battaglia e la vittoria della Cernaia, e poco dopo i giornali di Francia e d'Inghilterra contenevano le notizie ufficiali del valore 268 CAPITOLO Vili. dimostrato dal piccolo esercito subalpino. Fu un'esplo- sione di gioia, di entusiasmo in tutto il Piemonte e in tutta Italia; il valore, l'eroismo dei soldati aveva sanzionata e consacrata la sapiente politica di Cavour. II grande statista, ormai sicuro, dai campi della Cer- nala vide sorgere la fortuna d' Italia, che egli aveva preparata, e si apprestò a concretarla nei fatti. 269 Capitolo IX. Discussione al Senato della legge abolitiva di alcune corporazioni religiose. — Crisi ministeriale. — Ri- chiamo di Cavour. — Sua vittoria in parlamento. — II. Discussioni nella Camera. — Viaggio di Vit- torio Emanuele a Londra e a Parigi. — Lettera e memorandum di Cavour a Walewski. — III. // con- gresso di Parigi. — Cavour ottiene di esservi ammesso alla pari dei rappresentanti delle Grandi Potenze. — IV. Le contese e i contrasti tra le Potenze riunite nel Congresso. — Come Cavour se ne giova per isolare V Austria. — Suo successo. — Dichiarazioni sue in parlamento. — Effetto loro in Ltalia. — V. Come si dij^onde in tutta Italia la fiducia in Cavour e nella sua politica. — Sue lotte diplomatiche colf Austria. — Tentativi mazziniani. — La spedizione di Carlo Pi- sacafie. — Il porto militare alla Spezia. — // traforo del Moncenisio. — VI. Le elezioni del 1857. — Peri- colo che corre Cavour. — Uscita di Rattazzi dal Ga- binetto. — L'attentato di Felice Orsini. — Contegno di Vittorio Emanuele e di Cavour. — // disegno di legge sugli attentati ai Sovrani esteri e sulle modi- ficazioni alle leggi sui Giurati. — Dichiarazioni di Cavour. — Sua filippica contro Mazzini e i mazzi- niani. — VII. Nuovi contrasti in parlamento. — // prestito di 40 milioni. — Abilità tecnica e politica di Cavour nel mantenere compatta la maggioranza. — Suo predominio in parlamento. — VIII. // Convegìio di Plombìères. — Punti principali delV accordo . — Giudizio suir importanza sua. — Cavour è sicuro 270 CAPITOLO IX. di costringer r Austria a dichiarare la guerra. — IX. Prestito di 50 milioni. — La diplomazia iriglese si oppone alla guerra. — Suoi sforzi in proposito. — Pericoli che corre Valleanza franco-piemontese . — Vittoria di Cavour. — La guerra è dichiarata . — X. Andamento della guerra. — // ruoto rivoluzionario nei Ducati, in Romagna e in Toscana. — Carattere speciale del movimento toscano. — Cavour e Napo- leone III durante la guerra. — Ragioni per le quali Napoleone non prosegue la guerra. — La pace di Villafranca. I. Mentre le truppe piemontesi veleggiavano per la Cri- mea, la Camera elettiva prese a discutere un progetto di legge sulla soppressione di corporazioni religiose, che era imposta da ragioni economiche, finanziarie e anche da ragioni politiche e di carattere morale. Non era una misura radicale, non si sopprimevano tutte le corpora- zioni religiose, ma soltanto quelle che non avevano al- cuna utilità sociale ; Cavour, anche questa volta, dovette mettersi tra i due estremi e sopportare e ribattere gli assalti di ambedue. Votata la legge alla Camera, fu pre- sentata al Senato, nel quale, notoriamente, erano umori molto ostili ad essa, come ad ogni misura che avesse ca- rattere anticlericale. Cavour non ignorava questo e, tra le eventualità probabili, collocava anche la possibilità d'una crisi che l'obbligasse a lasciare il potere. E ciò perchè sapeva che il Re, sul quale erano piombati in pochi giorni lutti gravissimi : la morte della madre, della moglie e del fratello, non approvava la legge proposta e pareva prestar ascolto a quelli che gli sussurravano all' orec- chio che le disgrazie della sua famiglia erano un castigo CAPITOLO IX. 271 di Dio per le offese del suo governo alla religione e alla Chiesa. Posto tra l'opposizione del Senato e l'avversione del Re, Cavour sentiva di essere in una posizione in- sostenibile. Se fosse stato meno retto se la sarebbe ca- vata con un espediente parlamentare, oppure non avrebbe messa la questione di Gabinetto ; egli, invece, risolse di affrontare la tempesta; se la superava, si sarebbe raf- forzato per l'avvenire contro ogni intrigo dì sagrestia; se ne era vinto, scendeva dal potere a testa alta, sul suo programma liberale, e avrebbe atteso giustizia dall'opi- nione pubblica. Nel discorso al Senato egli parlò chia- ramente e, rammentando che non era quella la prima lotta che nella storia si combatteva tra lo spirito di pro- gresso e di libertà e il principio retrivo vestito del manto della religione, disse che il risultato della lotta nel se- colo XVIII in Inghilterra fu « la tremenda catastrofe che trascinò in irreparabile rovina l'antica e venerabile schiatta degli Stuardi, » che appoggiava quel principio; aggiunse che per la stessa causa era caduto in Francia il trono restaurato dei Borboni, e concluse esprimendo la certezza che « la sapienza dei grandi poteri dello Stato saprà evitare le indicate funeste conseguenze. » Invece Vittorio Emanuele, ritenendo che al Ministero premesse sopra tutto di ottenere dalla legge in parola un vantag- gio finanziario, aveva accettato la proposta presentatagli direttamente dal vescovo di Casale, monsignor Nazari di Calabiana, a nome di tutti i vescovi dello Stato, di ricavare un milione sull'asse ecclesiastico di terraferma, purché la legge venisse ritirata. Quando il Re comu- nicò a Cavour questa proposta molto si meravigliò che ad essa non fosse fatto dal suo ministro buon viso ; tuttavia insistette perchè fosse presentata al Senato, al 272 CAPITOLO IX. che Cavour acconsentì, pur riserbandosi piena libertà di azione. La proposta fu infatti svolta dal vescovo di Casale che era senatore ; Cavour pregò si sospendesse ogni deliberazione fino a che il governo non avesse fatto conoscere intorno ad essa i suoi intendimenti, convocò il Consiglio dei ministri, il quale deliberò di offrire le dimissioni per lasciare piena facoltà alla Corona di proce- dere come avrebbe creduto meglio, e le dimissioni furono annunziate il 27 aprile al parlamento. Vittorio Emanuele, evidentemente, si era ingannato od era stato ingannato : aveva creduto, o gli si era fatto credere, che il Mini- stero avrebbe accettato la proposta dei vescovi ; timo- roso di urti maggiori con Roma, aveva cercato una via di accomodamento ; ma non aveva alcuna intenzione di cambiare politica, tanto è vero che, invece di chiamare il Rével o altro uomo politico delle stesse idee, si ri- volse a Giacomo Durando ministro della guerra, succe- duto al La Marmora quando questi era partito per la Crimea. Il Durando era un vecchio liberale, in materia religiosa non certo dissenziente da Cavour, e quindi non v'era dubbio che egli avrebbe accettato ciò che a questi era apparso inaccettabile. Essendo certo il rifiuto del Durando, sorse in tutti il timore che il Re irritato si rivolgesse al Rével; l'opinione pubblica si commosse e di essa si fece autorevole interprete Massimo D'Aze- glio, che, avendo trovato chiuso l'accesso alla reggia, diresse una lettera coraggiosa a Vittorio Emanuele, esor- tandolo a non andare più avanti nella strada presa, a liberarsi da quell'intrigo di frati nel quale si era impi- gliato. «Questi intrighi hanno rovinato Giacomo Stuart, Carlo X e altri molti. Maestà, lo sa, le cose che le ho predette sono avvenute : mi creda, non si tratta di re- CAPITOLO IX, 273 ligione, ma di interessi ; Amedeo II discusse trent'anni con Roma e vinse. Sia ferma e vincerà anche V. M. Non vada in collera con me. Questo mio atto è atto di galantuomo, di suddito fedele, di vero amico. » Certa- mente il D'Azeglio, osando di scrivere in tal modo al Re, massime in favore dell'uomo che lo aveva sbalzato dal potere e d'una proposta che aveva giudicata inop- portuna, diede prova novella del suo animo generoso e della sua devozione alla patria e alla Casa di Savoia, ma crediamo che il Re, anche senza il suo intervento, avrebbe richiamato Cavour ; le sue esitanze provenivano, oltre che da scrupoli di coscienza rispettabili, massime nelle condizioni in cui si trovava, anche dalla ripu- gnanza a confessare di essersi ingannato ; ma gli uni e l'altra avrebbe, col suo finissimo senso politico, supe- rato. Comunque, Cavour fu richiamato, ricompose il Mi- nistero, il Senato prosegui la discussione della legge e, con modificazioni non sostanziali accettate dal Ministero stesso, l'approvò dopo lungo ed aspro dibattito, nel quale dovette intervenire più volte Cavour, che poi fu obbli- gato a difenderla nuovamente alla Camera dagli attacchi che le si mossero dalla destra più conservatrice per- chè giudicava la legge empia, dalla sinistra estrema perchè, nelle modificazioni subite dal Senato, la giu- dicava troppo blanda e timida. Egli, che aveva dovuto piegarsi a queste modificazioni per non far naufragare la legge, espose nettamente il suo pensiero : « Nei go- verni costituzionali i partiti che sono nell'opposizione, che non hanno la responsabilità del governo, non dico possono, ma debbono naturalmente propugnare il de- siderabile ; i partiti poi che partecipano al peso del go- verno, e alla responsabilità dell'andamento delle cose, Cavour. 18 274 CAPITOLO IX. mentre riconoscono il desiderabile, debbono attenersi al possibile. » Approvata la legge dalla Camera a grande maggioranza, nello stesso giorno fu chiusa la sessione parlamentare ; il giorno successivo il Re sanzionava la legge stessa, « avec une bonne gràce, scriveva Cavour a La Marmora, qui m'a fait oublier bien de mauvais quarts d'heure que cette maudite loi m'a fait passer. » Dalla prova Cavour usciva rafforzato, né mai più ebbe contrasti di tal genere col Re. II. Il Ministero fu rafforzato coli' ingresso di Lanza al dicastero dell' istruzione, di Cibrario agli esteri, porta- foglio cedutogli da Cavour, di De Foresta alla grazia e giustizia in luogo di Rattazzi, che tenne solamente il por- tafoglio dell'interno; Cavour prese alcuni giorni di ri- poso, poi ritornò al lavoro. Nel novembre di quell'anno, per quanto la vittoria della Cernala avesse rischiarato l'orizzonte, il compito suo fu ben lungi dal presentarsi più facile. Non erano più difficoltà interne che gli at- traversavano la via : egli le aveva vinte ; per quanto do- vesse chiedere nuovi sacrifìci al paese, resi necessarii dalle spese della guerra, dalla scarsezza del raccolto e dalla nuova epidemia colerica, la maggioranza lo se- guiva, fedele alla politica che oramai mostrava chiara- mente intenti italiani. Accusato, a proposito della legge su un prestito di trenta milioni, dal Solaro della Mar- gherita di tendere all'unità italiana, Cavour eluse la questione rispondendo senza affermare, né negare : « Per- ché vi è difficoltà a spiegarsi sopra quel punto ? Io ve lo CAPITOLO IX. 275 dirò con schiettezza : è perchè parlando dell' Italia, trat- tandosi di pronunziare un giudizio sul suo avvenire, è impossibile che un ministro piemontese possa separare interamente i suoi desiderii, le sue simpatie, da quello che egli considera come il suo dovere politico. » Nel fatto egli non sapeva in qual modo avrebbe potuto con- cihare le due cose, tutto dipendendo dall'esito della guerra. Sarebbe stato interesse del Piemonte che la guerra, pur mantenendosi vittoriosa per gli alleati, avesse continuato lungamente, perchè l'Austria, piuttosto che lasciar schiacciare la Russia, avrebbe dovuto intervenire, e in questo caso la questione italiana sarebbe stata sciolta dall'intervento attivo delle due potenze. Ma, appunto perciò, l'Austria raddoppiava gli sforzi per far cessare la guerra, e i suoi sforzi avevano probabilità di buon successo perchè le ostilità, prolungandosi, danneggia- vano fortemente gì' interessi economici dell'Inghilterra e offendevano le tendenze e le aspirazioni umanitarie di Napoleone, e inoltre tra i due alleati non esisteva più un perfetto accordo. Questo stato di cose non prometteva gran che di buono pel Piemonte e per l'Italia: bisognava tuttavia approfittarne il più possibile. A questo scopo mirò il viaggio di Vittorio Emanuele, accompagnato da D'Aze- glio e da Cavour, in Inghilterra e in Francia. A Londra il Re fu accolto entusiasticamente : il popolo, l'aristocrazia e la Corte mostrarono la maggiore simpatia pel Piemonte e l'Italia, ma nessuna promessa positiva di aiuto fu possibile. A Parigi vi fu eguale entusiasmo, ma l'Im- peratore non nascose che gli sforzi dell'Austria per ar- rivare alla pace corrispondevano ai suoi desiderii, e ciò, per le ragioni dette, dispiaceva sommamente a Vittorio 276 CAPITOLO IX. Emanuele e a Cavour; senonchè l'Imperatore, che si era accorto di questa impressione, il 7 dicembre del 1855, come scriveva Cavour a D' Azeglio : « à brùle-pour- point, mi disse : écrivez confidentiellement à Walewski ce que vous croyez que je puisse faire pour le Piémont et l'Italie. » Era qualche cosa di positivo, e Cavour coll'aiuto, anzi la collaborazione attiva, dell'amico Massimo, si diede subito a mettere insieme una memoria su ciò, e vi in- sistette maggiormente quando giunse l'annunzio che il 16 gennaio fiSsó) la Russia aveva accettato la media- zione, per ottenere la pace, proposta dall'Austria. Per essa si doveva radunare un Congresso delle grandi po- tenze a Parigi, al quale, come parte belligerante, doveva intervenire il Piemonte. L'annunzio ufficiale della ces- sazione della guerra dispiacque ma non scoraggiò Ca- vour, «La paix est déplorable pour nous. J'en suis dé- solé, mais ne pouvant l'empécher, il faut l'accepter et chercher de tirer tout le parti possible de la mauvaise position où nous a placés cette rusée commère de l'Au- triche. » Bisognava mostrarsi molto moderati, per non indisporre l'Imperatore, allora tutto favorevole all'Au- stria perchè era riuscita a por fine alla guerra, e Cavour seppe mostrarsi tale nella lettera confidenziale al Wa- lewski del 21 gennaio, che riassumeva i punti principali del memorandum compilato da lui insieme al D'Azeglio, e scritto da quest'ultimo per rispondere all' invito fatto dall'Imperatore di esporgli ciò che poteva fare pel Pie- monte e per l'Italia. Egli parte dal presupposto che non si possa dimandare all'Austria alcun sacrificio territo- riale in Italia, almeno per il momento. Però l'Impera- tore può almeno chiedere, ed esigere, da essa che renda CAPITOLO IX. 277 giustizia al Piemonte e si contenga verso i suoi sudditi italiani in modo meno oppressivo e più tollerabile. Cioè, deve essere richiamata ad osservare il trattato del 1851 e quindi a togliere il sequestro sui beni dei lombardi e veneti divenuti cittadini sardi, deve essere costretta a non opporsi più all' unione delle ferrovie dei due Stati, com' è stipulato da una convenzione formale, e a non impedire con misure poliziesche i rapporti commerciali e personali tra i piemontesi e i lombardi. Quei miglioramenti pei suoi sudditi che l'Imperatore può ottenere in via amichevole dall'Austria, può imporli al Re di Napoli, può esigere da questo che cessi di ren- dere odioso il principio monarchico, che apra gli erga- stoli dove da tanto tempo gemono vittime illustri e in- nocenti, che cessi di asservire tutta l'amministrazione pubblica ad agenti cattivi e corrotti. Lo stato di cose esistente nelle provincie soggette all'Austria e in quelle del Regno di Napoli, essendo conforme al trattato di Vienna che le potenze occidentali vogliono rispettato, l'azione della Francia per quelle provincie è forzatamente ristretta in limiti insormontabili, ma può spiegarsi in modo più libero negli Stati pontificii, e specialmente nelle Legazioni. Queste sono di nome sotto il governo del Papa; di fatto sono sotto la dominazione austriaca, e ciò è contrario allo stesso trattato di Vienna. L'occupa- zione permanente austriaca è una conseguenza necessaria del regime al quale sono soggette ; se si vuole far cessare quella bisogna cambiare questo. Il regime sacerdotale è insopportabile in paesi imbevuti delle idee che la ri- voluzione francese vi ha spar.se. Quindi unico rimedio è di toglierli al Papa e porli sotto il governo d' un prin- cipe temporale, che potrebbe essere o il Duca di Me- 278 CAPITOLO IX. dena o il Granduca dì Toscana. Se questa soluzione fosse inaccettabile, la Francia, ferma nell'esigere il ritiro delle truppe austriache, dovrebbe procurare la secolariz- zazione del governo delle Legazioni, organizzandole in modo autonomo sotto l'alto dominio del Papa, pressap- poco come s'intende fare nei Principati danubiani. Questo il contenuto della lettera al W'alewski, che è come l'esposizione d'un programma minimo, immedia- tamente attuabile, senza guerra e rispettando il trattato di Vienna. Del resto Cavour mostra chiaramente che non se ne accontenterebbe che per il momento, come un primo passo, e che ben altri sono i suoi desiderii e i suoi intendimenti. Ma l' importanza della lettera e del vievioraiidum che riassume e precisa, non consiste in ciò che chiedono, ma nel fatto che, per la prima volta, uno Stato italiano parlava in nome dell' Italia, per invito d'un grande sovrano straniero. In una forma più estesa, accampando maggiori esigenze, la lettera e il memorandum non sarebbero stati accettati ; occorreva invece che lo fossero, anche se dovevano essere desti- nati a non produrre un effetto immediato. Con questi atti la questione italiana era portata dinanzi all'Europa, che doveva giudicare la condotta dell'Austria, del Papa e del Re di Napoli, accusatore e vindice il Piemonte. Ora si trattava di provocare sollecitamente il giudizio in una forma pubblica; dopo si sarebbe pensato ad eseguirlo. III. Al Congresso di Parigi doveva intervenire il Pie- monte come parte belligerante, e quindi interessata nelle deliberazioni che sarebbero state prese. Ma il Piemonte, CAPITOLO IX. 279 più che gli affari d'Oriente, doveva trattare gli affari d'Italia, che non erano compresi nel programma del Congresso, e, per riuscirvi, doveva essere ammesso da pari a pari colle altre potenze. Ora questo l'Austria non voleva, e, appunto per impedirlo, era intervenuta a far cessare la guerra. La diplomazia austriaca riuscì a far dichiarare dalla Francia e dall'Inghilterra che il Piemonte sarebbe stato chiamato a partecipare alle sole conferenze nelle quali si fosse trattato direttamente dei suoi interessi, e ciò in omaggio ai precedenti degli altri Congressi europei e in considerazione dei rapporti che aveva coli 'Austria. Era un colpo gravissimo alla politica di Cavour : contraddiceva alle promesse solennemente fatte dinanzi alla Camera che il Piemonte avrebbe partecipato, alla pari colle grandi potenze, alle conferenze per la pace; nell'opinione popolare sarebbe apparsa inutile la guerra di Crimea, o ingannato o insipiente il governo che aveva proposta e fatta accettare l'alleanza; i retrogradi e gli esaltati, che vi si erano opposti, avrebbero viste giustificate le loro declamazioni e le loro accuse. Infatti D'Azeglio che aveva accettato di essere ple- nipotenziario pel Piemonte, conosciute come stavano le cose, rifiutava sdegnosamente l'incarico, e Cavour do- vette assumerselo, persuaso che sarebbe stato l'ultimo atto della sua vita politica. Come osserva il Chiala, la storia avrebbe resa giustizia a Cavour ; ma è evidente che, dopo questa missione, sarebbe rimasto sepolto politicamente. Invece non avvenne nulla di tutto ciò. Il suo genio lo salvò e, come aveva previsto Rattazzi, appena fu arrivato a Parigi, colla sua influenza personale, riusci a farsi ammettere al Congresso alla pari dei di- 28o CAPITOLO IX. plomaticì delle grandi potenze, e così d'un tratto riac- quistò quanto la paziente e avveduta politica dell'Austria gli aveva fatto perdere, e su di essa prese una splen- dida rivincita. « La questione della nostra ammissione alle conferenze senza riserva venne sciolta in nostro favore, così scriveva all'Arese. Walewski fu meco espli- cito nel primo nostro incontro. Ma ogni dubbio venne tolto dall' Imperatore che disse a Clarendon : Je ne concevrais pas qu'il pùt en étre autrement. » IV. Vinto questo punto, Cavour non ebbe a superare grandi difficoltà per assumere una parte preponderante nel Congresso. Gli giovarono in ciò così le sue qualità strettamente personali, il brio e l'arguzia della conver- sazione, la simpatia che emanava dalla sua persona, la signorilità del tratto, come l'acutezza dell'ingegno e la consumata esperienza nei maneggi politici; inoltre a suo favore stava questo che, tra tutti i diplomatici riu- niti in quel Congresso, egli era l'unico che avesse da concretare un grande ideale, non soltanto da tutelare degl' interessi, e perciò possedeva una forza morale su- periore agli altri, la quale, unendosi alla mente pode- rosa e infiammandola, doveva assicurargli la prepon- deranza. Egli non ebbe mai l'illusione che il Congresso potesse dare l' indipendenza all' Italia, gli bastava di riuscire a parlare, nell'assemblea delle grandi potenze, dell' Italia e di isolare l'Austria, di compromettere, sia pure solo indirettamente, l' Imperatore. Non era un risultato concreto che egli perseguiva, ma un risultato morale, che permettesse poi alla sua poli- CAPITOLO IX. 281 tica di svolgersi ampiamente e senza timori di improv- visi colpi di scena contrarii. Egli vide subito quali erano le forze e le tendenze che si contrastavano la prevalenza nel Congresso e pensò di approfittarne pei suoi fini. Tra la Francia e l'Inghilterra, già alleate, non correva un perfetto accordo ; anzi i rapporti loro erano molto freddi. La Russia dalla guerra aveva ritratta una profonda irritazione contro l'Austria, conservava rancori coli' Inghilterra, era più amica colla Francia. La Prussia, ancora fremente dell'umiliazione d' 01- miltz, non aveva la forza di mettersi contro l'Austria, ma, legata alla Russia da vincoli strettissimi, non avrebbe certo tenuto una condotta molto all'Austria favorevole. L'Inghilterra, interessata sopratutto alla pace, non si sarebbe mai schierata contro la nemica del Piemonte, ma i principii liberali cui s'informava il suo governo, e la pressione dell'opinione pubblica, le impedivano di appoggiare la politica austriaca, mentre la condotta della Francia necessariamente doveva inspirarsi alle idee e ai sentimenti del suo Imperatore. Questi, orgoglioso di veder radunato in Parigi un Congresso europeo, la qual cosa affermava la sua egemonia nella politica interna- zionale, era agitato da opposti pensieri : da un lato aveva una propensione decisa per la pace ad ogni costo e un timore profondo di. apparire rivoluzionario, dal- l'altro sentiva che il suo nome e la tradizione del primo Imperatore gì' imponevano di cogliere l'occasione per strappare il trattato di Vienna, mentre le sue propen- sioni personali erano per ricostituire 1' Europa sulla base del principio di nazionalità. In Napoleone III, uomo eminentemente complesso, la tradizione imperiale conquistatrice si univa alla tra- 282 CAPITOLO IX. dizione idealista della rivoluzione, la tendenza al do- minio assoluto si univa a un profondo sentimento libe- rale e democratico così nei rapporti politici come nei sociali, e su questa sua natura complessa s' innestavano la coscienza del suo dovere verso la Francia e l' inte- resse di non irritare gli elementi conservatori interni ed esteri per non averli contrarli alla consolidazione della sua dinastia. Da questo contrasto d' idee, di ten- denze, di sentimenti, derivava la sua politica oscillante, incerta e anche contradittoria ; occorreva che un uomo di genio, conoscendolo intimamente, sapesse dominarlo, piegandolo ai suoi fini. Quest'uomo fu appunto Cavour. Il quale nel Congresso sì rese amica la Russia, non ostile la Prussia, conservò e rinsaldò ì buoni rapporti coir Inghilterra, vinse, giovandosi dell' influenza del- l' Imperatore, le ostilità della diplomazia francese, e, come abbiamo detto, riuscì nell' intento di isolare l'Au- stria. I diplomatici austriaci, avvezzi ancora alla politica aulica, non si resero conto dell'importanza e del valore di questo ministro d'un piccolo Stato: la sua attività sembrava loro sconveniente o inutile, lo sapevano uomo accorto e loro nemico, ma si direbbe che non avvertis- sero la differenza che correva tra lui e gli altri oratori o rappresentanti dei popoli oppressi che si affollavano attorno ai congressi europei ; rimanevano meravigliati della sua inframmettenza, non capivano come gli si prestasse ascolto, non immaginavano neppure che po- tesse riuscire a preparare la rovina del dominio austriaco in Italia. Conoscendo i precedenti di Napoleone, non si stupivano che l' Imperatore lo ascoltasse, ma erano lon- tani dal supporre che avvincesse a sé l' Imperatore in modo da farsene, contro lo Stato austriaco, più che un CAPITOLO IX. 283 alleato, un complice. Sapevano inoltre che gli uomini politici francesi, gli stessi ministri e rappresentanti im- periali, erano contrarli ad ogni aiuto diretto al Piemonte per l'impresa italiana, e riposavano tranquilli. Invece Cavour riusciva completamente ; non a mo- dificare le condizioni d'Italia, ma a parlarne nel Con- gresso, a far notare che erano gravissime, tali che non potevano a lungo durare, a far rilevare che quelle po- tenze che costituivano gli Stati danubiani, che impone- vano alla Turchia riforme, le quali garantivano ai suoi sudditi le libertà civili, non potevano, senza grave loro disdoro, permettere che l' Italia fosse soggetta a go- verni come quello di Napoli, a una dominazione bru- tale come l'austriaca. Il Congresso non poteva delibe- rare, ma r Inghilterra, la Russia, e perfino la Prussia, avevano manifestata la loro simpatia per l'Italia, non avevano nascosta la loro riprovazione per i sistemi di governo dell'Austria, avevano deplorato il predominio di questa nella penisola; era un successo pieno, trion- fale ; e, appunto perchè non aveva concluso a nulla di pratico, permetteva le maggiori speranze per l'avvenire. Questo in apparenza ; in sostanza, poi, Cavour acqui- stava la certezza che Napoleone III era disposto ad un'alleanza col Piemonte per cacciare l'Austria dal- l'Italia. Ma perchè questo successo morale producesse efìfetti pratici occorreva ancora molta prudenza, o, per meglio dire, molta avvedutezza ; occorreva, insomma, che Cavour stesso rimanesse a capo di quel governo piemontese cui spettava trarre le conseguenze dalla po- litica audace e sapiente che, dalla guerra di Crimea, aveva portato il Piemonte al Congresso di Parigi. 284 CAPITOLO IX. Interpellato alla Camera dal deputato Buffa sui ri- sultati di quel Congresso, Cavour rispose precisando i vantaggi che se n'erano ottenuti nell'assetto politico generale dei popoli europei soggetti alla Turchia, i mi- glioramenti nei rapporti internazionali, massime per ri- spetto al commercio; poi, venendo a parlare dell' Italia, disse che il Congresso se n'era occupato, che parecchie potenze avevano deplorato lo stato cui era ridotta ; al- luse, forse troppo chiaramente, alle opinioni espresse in proposito dal plenipotenziario inglese, e così concluse: « Rispetto alla questione italiana, non si è, per vero, arri- vati a grandi risultati positivi ; tuttavia si son guadagnate, a mio parere, due cose : la prima che la condizione anomala ed infelice dell'Italia è stata denunziata al- l'Europa, non già da demagoghi, da rivoluzionarli esal- tati, da giornalisti appassionati, da uomini di partito; ma bensì da rappresentanti delle primarie potenze di Europa, da statisti che seggono a capo dei loro go- verni, da uomini insigni avvezzi a consultare assai più la voce della ragione che a seguire gì' impulsi del cuore. Ecco il primo fatto che io considero come di una gran- dissima utilità. Il secondo è che queste grandi potenze hanno dichiarato essere necessario, non solo nell' inte- resse d'Italia, ma in un interesse europeo, di arrecare ai mali d'Italia un qualche rimedio. Non posso credere che le sentenze profferite, che i consigli predicati da nazioni quali sono la Francia e l'Inghilterra, siano per rimanere lungamente sterili. » Poi venne a dire che se di ciò si poteva esser contenti, d'altra parte sorgevano pericoli, perchè il Congresso di Parigi non aveva certo migliorate le relazioni coll'Austria, anzi era sorta la con- CAPITOLO IX. 285 vinzìone che i principii dei due governi e la politica dei due paesi erano inconciliabili. Questo fatto era perico- loso ma inevitabile, perchè conseguenza della condotta sempre seguita dal Re Vittorio Emanuele e dal suo go- verno e sempre approvata dal parlamento. Però, aggiunse, non si deve mutare politica. « La via che abbiamo se- guita in questi ultimi anni ci ha condotti ad un gran passo : per la prima volta nella storia nostra la que- stione italiana è stata portata e discussa avanti a un Congresso europeo, non come le altre volte, non come al Congresso di Lubiana e al Congresso di Verona, col- l'animo di aggravare i mali d'Italia e di ribadire le sue catene, ma coli' intenzione altamente manifestata di ar- recare alle sue piaghe un qualche rimedio, col dichia- rare altamente la simpatia che sentivano per essa le grandi nazioni. Terminato il Congresso, la causa di Italia è portata ora al tribunale della pubblica opi- nione, a quel tribunale al quale, a seconda del detto memorabile dell'Imperatore dei Francesi, spetta l'ul- tima sentenza, la vittoria definitiva. La lite potrà esser lunga, le peripezie saranno forse molte, ma noi, fidenti nella giustizia della nostra causa, aspetteremo con fiducia l'esito finale. » Così Cavour bandiva la lotta, annunziava all'Europa che il Piemonte si metteva a capo dell' im- presa italiana; l'Austria e i principi italiani sentirono il colpo terribile che loro era portato, ma non poterono reagire, perchè Cavour, sebbene non avesse strette al- leanze, era padrone di tutte le fila della diplomazia europea : la stessa audacia del suo contegno e della sua parola impediva ogni reazione violenta, perchè faceva temere che nascondesse una perfetta sicurezza di essere appoggiato. 2S6 CAPITOLO IX. L' importanza del successo ottenuto da Cavour nel Congresso di Parigi, fu negata in parlamento dai capi dei due estremi della Camera, dal Solaro della Marghe- rita e dal BroiTerio, ma fu perfettamente compresa dalla grande maggioranza del parlamento stesso che attestò piena fiducia in lui, e dall' opinione pubblica cosi del Piemonte come dell' Italia. In tutta la penisola gli uomini liberali si sentirono rianimati, capirono che era prossima la riscossa, si uni- rono più strettamente al Piemonte, al suo Re e al suo grande Ministro. A Cavour fu offerto, con sottoscri- zioni d'ogni parte d'Italia, un busto in marmo, col motto suggerito dal Salvagnoli : « Colui che la difese a viso aperto, » e mai motto fu più appropriato ; egli era veramente stato il difensore d' Italia e si apprestava ad esserne il liberatore. V. Dopo il Congresso di Parigi Cavour, con molta mag- giore sicurezza che non pel passato, si mostra contrario all'Austria. Giovandosi del fatto che il Piemonte aveva acquistato nella politica internazionale il diritto di in- teressarsi in tutte le questioni più gravi, egli lotta aper- tamente. Da per tutto, in ogni affare diplomatico o politico, il governo austriaco si trovava di fronte il rappresentante del Re di Sardegna a contrastarlo; qua- lunque avversario avesse l'Austria, questi era sicuro dell'appoggio morale del Piemonte. Con un'abilità finis- sima Cavour scopriva ogni lato debole della politica austriaca, intravedeva le sue mire e i suoi intendimenti, e le suscitava contro ostacoli d'ogni genere, pur senza CAPITOLO IX. 2S7 dipartirsi dalla più corretta condotta diplomatica, e in- tanto rinsaldava l'amicizia coli' Inghilterra, si assicurava della Russia, preparava l'alleanza colla Francia. Uguale contegno teneva in Italia ; i liberali lombardi e i veneti ricevevano istruzioni e inspirazioni da lui ; lo stesso si dica di quelli delle altre parti d' Italia. Per coloro che erano soggetti al dominio straniero il pro- gramma da seguire era uno solo : non dare pretesti a sanguinose repressioni con moti rivoluzionarli che non potevano riuscire e che avrebbero allarmato l'opinione pubblica e i governi d' Europa, ma isolare i domina- tori, rifiutare qualunque contatto con essi, irritarli con questo contegno, tanto da obbligarli ad astenersi da ogni miglioramento e da ogni riforma, da spingerli ad eccessi, e contro questi non reagire altro che denun- ziandoli. Nel caso che i dominatori tentassero di blan- dire, di adescare con promesse, rifiutare ogni vantaggio, seguitare a trattarli come se usassero sempre la forca e il bastone. Questo contegno, che fu scrupolosamente seguito in Lombardia, non sarebbe stato possibile se il governo piemontese non avesse inspirato un' assoluta fiducia negli oppressi, e ad inspirarla lo abilitò unica- mente il Conte di Cavour ; non avrebbe bastato nep- pure la grande popolarità di Vittorio Emanuele. Né un tale contegno era senza rischi, perchè inferociva il governo austriaco, irritava i suoi agenti, i quali senten- dosi chiusi in una rete di congiure inafferrabili, trascen- devano qualche volta ad eccessi che apparivano ingiu- stificati. Ed anche i rischi aumentavano, perchè nelle forme più legali e più, all'aspetto, innocue, la prote- sta, da negativa diveniva forzatamente positiva, nei teatri, nelle vie, nei caffè, nei luoghi di ritrovo. Non 288 CAPITOLO IX. Brano più le società segrete, le congiure di pochi, ma tutti cospiravano all' aperto ; nessuno e tutti erano ri- belli. Ogni tanto al di là del Ticino si annunciava qualche atto o fatto iniziato nel lombardo-veneto con- tro all' Austria e d'adesione al Piemonte. Erano sot- toscrizioni per medaglie, erano doni, erano monumenti che venivano eretti a spese dei lombardi a Torino; il governo austriaco, irritato, non sapeva chi colpire : avrebbe potuto fare dei martiri, non spegnere una congiura a cui tutti partecipavano. Quando si pensa che, se nel 1848 il governo austriaco avesse trattato i Lom- bardi, come volle trattarli quando vi inviò 1' Arciduca Massimiliano viceré, avrebbe avuto la maggior parte del popolo, e, in specie, le classi alte consenzienti, e invece nel 1S57 non trovò aderenti di sorta, si capisce come fosse profondo il cambiamento dello spirito pubblico, e come solo un' intera, immensa fiducia in Cavour po- tesse mantenerlo così freddamente ostile al governo straniero. Presso a poco lo stesso accadeva nelle altre parti d'Italia; tutti i liberali, unitarii o no, guardavano a Cavour, il quale non li eccitava a ribellione, ma li confortava, li guidava : si unissero, si disciplinassero, si preparassero, non all'unità, che sarebbe stato lo stesso che consigliarli a divenire ribelli, ma ad approfittare delle circostanze prossime per ottenere la libertà e coo- perare all'indipendenza della patria comune. Non l'unità era nel programma pratico di Cavour, ma vi erano le condizioni necessarie a conseguirla; attenendosi ad esso, si diffondeva il sentimento unitario inconsciamente, ma efficacemente, perchè in Vittorio Emanuele, in Ca- vour, nel Piemonte si concentravano tutte le speranze d' Italia. I segni di tale concentramento si vedevano CAPITOLO IX. 2S9 chiaramente, molti repubblicani abbandonavano Maz- zini e in modo esplicito aderivano a Casa Savoia. Manin, il grande dittatore di Venezia assediata, Garibaldi, l'eroe grande e buono, erano primi tra questi, più ampiamente e con minori riserve l'eroe del dittatore, forse perchè, vivendo più a contatto col popolo, ne capiva meglio le aspirazioni e le tendenze. Ma, appunto per questa larghezza e intensità di ade- sioni e di consensi, i partiti estremi, i repubblicani mazzi- niani da un lato, i clericali assolutisti dall'altro, fecero ogni sforzo per abbattere Cavour e distruggerne la politica. Mazzini, esule, non bene a giorno delle condizioni reali dell'opinione pubblica in Italia, mente grande e potente di apostolo e filosofo idealista, capiva che ormai gli sfuggiva di mano la direzione del movimento ita- liano, le diserzioni continue dei suoi partigiani lo irri- tavano, e poiché egli in buona fede era convinto che nulla di veramente utile per l'Italia si poteva aspettare dall'alleanza francese, e non si era accorto, né voleva accorgersi, che la politica di Casa Savoia non era più quella del carciofo, ma aveva intenti altamente nazio- nali, faceva ogni sforzo per attraversare i disegni di Cavour suscitando moti repubblicani. Per lui era certo che Napoleone III avrebbe voluto cacciare il Borbone da Napoli per sostituirvi l'erede di Gioachino Murat e per questo si era accordato con Ca- vour, promettendogli, in compenso, un allargamento di territorio nell'alta Italia. Quindi, volendo ferire a morte l'alleanza francese, cercava di suscitare moti rivoluzio- narli nel mezzogiorno della penisola. Di qui il tentativo di insurrezione di Francesco Ben- tivegna in Sicilia, la spedizione di Carlo Pisacane e Cavour. 19 290 CAPITOLO IX. l'attentato di Agesilao Milano. La verità era che se a Napoli alcuni liberali parteggiavano per Murat, non era ben certo che Napoleone III lo caldeggiasse seriamente, ed era invece certo che Cavour era intimamente con- trario ad ogni restaurazione muratiana. Ma Cavour, non conoscendo interamente l'opinione dell'Imperatore in proposito, non poteva osteggiarla in modo aperto, do- veva contentarsi di non appoggiarla e di impedirla in segreto, massime suscitandole contro le gelosie dell'In- ghilterra. Cavour non aveva simpatie di sorta per i Borboni di Napoli ; fino dal 1848 aveva mostrata la sua avversione profonda per Ferdinando II, nella let- tera a Walewski e nel Congresso di Parigi lo aveva pubblicamente accusato e svergognato in faccia all' Eu- ropa, ma anche vedeva i pericoli e i danni che sareb- bero derivati all'Italia dalla sostituzione d'una nuova dinastia straniera a quella ormai indigena nel mezzo- giorno della penisola. Gli balenava di già nella mente l'idea dell'unità (lo disse egli stesso in quei giorni a Giuseppe La Farina, il fondatore della società nazio- nale), ma ignorava se sarebbe stata possibile attuarla immediatamente e insieme all'indipendenza. Questa gli pareva, ed era realmente, l'impresa cui si doveva, so- pratutto e avanti tutto, mirare. E per riuscirvi, e anche per contrabilanciare l'influenza della Francia, era ne- cessario poter contare sulle forze della maggior parte d' Italia, quindi anche su quella del più grande Stato della penisola, cioè del regno di Napoli. Perciò avrebbe desiderato sostituire un Principe di Savoia al Borbone su quel trono; se fosse stato impossibile questo, avrebbe magari fatto alleanza col Borbone stesso, purché avesse dato istituzioni rappresentative e migliorato il suo go- CAPITOLO IX. 291 verno, e questo partito, per quanto intimamente gli ri- pugnasse, preferiva alla restaurazione d'un INIurat, alla quale si sarebbe probabilmente piegato solo quando fosse apparso impossibile fare altrimenti, ed egli stesso, come abbiamo visto, cercava di allontanare quest'even- tualità in tutti- i modi che gli erano concessi. I tentativi mazziniani, massime quello di Pisacane, tramato a Genova insieme a un conato di ribellione militare, irritarono profondamente Cavour, anche per- chè, oltre ad allarmare inutilmente i jgoverni esteri, gli rendevano difificile la situazione parlamentare, perchè gli uomini di destra davano di essi la colpa a Rattazzi, ministro dell'interno, che non mai aveva potuto, dice- vano, rompere i legami che lo stringevano ai partiti estremi. E queste accuse, ripetendosi, finivano per es- sere credute e quindi alienavano dal governo le sim- patie di alcuni che erano nello stesso tempo conserva- tori e liberali, ma non avevano vinte le ripugnanze per l'uomo di Novara. Di qui la severità della repressione che egli volle usata contro i sollevati di Genova, la gravezza delle misure contro gli ufficiali pubblici che si erano lasciati sorprendere o si erano mostrati de- boli, e anche la crudezza di alcuni suoi giudizii su Mazzini e i mazziniani; cose tutte che parevano con- trastare colla nobiltà dei sentimenti liberali, 1' equani- mità e la tolleranza di cui aveva dato quasi sempre prova Cavour. Ma era troppo chiaro il danno e il pe- ricolo delle mene mazziniane perchè Cavour, che ne vedeva la ripercussione immediata nella politica estera, non protestasse in tutti i modi contro di esse e non cercasse di reprimerle fieramente. Per proseguire l'opera già iniziata, per impedire che l'Austria uscisse dal suo 292 CAPITOLO IX. isolamento, per avere, come diceva ad un amico, «l'at- mosfera europea favorevole » il giorno in cui si sarebbe scesi in campo per la suprema tenzone, in modo che tutti potessero dire : « Il Piemonte ha ragione, » occor- revano nello stesso tempo audacia e prudenza ; audacia nei propositi, prudenza nella scelta del tempo e dei mezzi, occorreva che le tendenze rivoluzionarie si di- sciplinassero e che fossero impedite quelle che non potevano ridursi sotto il freno della saviezza politica. Questo anche per non dare pretesti all'Austria di rom- pere guerra all'improvviso; la guerra si doveva prepa- rare, renderla inevitabile, fatale, doveva anche apparire provocata dall'Austria, ma solo al momento opportuno, non prima. Nel fatto il Piemonte faceva una politica rivoluzionaria, preparava, cioè, una prossima rivolu- zione (ne convenne lo stesso Mazzini in una celebre lettera ai giudici di Genova), ma se di ciò tutti, più o meno, erano persuasi, non bisognava che se ne avesse una prova ufliciale né che si desse un appiglio qua- lunque a riconoscere che la rivoluzione serpeggiante in Italia, e di cui tutti sentivano il fatale approssimarsi, era autorizzata dalla condotta del Piemonte. Per questo egli rispose al Brofiferio e al Pallavicino che lo inter- pellavano sulla condotta del governo piemontese in ordine ai moti rivoluzionarli scoppiati in Italia che, « finché saremo in pace cogli altri potentati d' Italia, mai non impiegheremo mezzi rivoluzionarli, non mai cercheremo di eccitare moti o ribellioni. » Ed aveva tanta maggior ragione di insistere in tale condotta, in quanto l' Inghilterra, timorosa che la Francia acqui- stasse coll'alleanza piemontese predominio in Italia, ap- poggiava l'Austria, otteneva da questa che mitigasse il CAPITOLO IX. 293 SUO regime, e manifestava chiaramente la sua avver- sione ad ogni moto o tentativo di privarla dei suoi dominii italiani. Ma se il Conte di Cavour si mante- neva scrupolosamente nella legalità, se si asteneva da provocazioni dirette e impediva che altri a queste tra- scorresse, non perciò rinunciava alla politica franca- mente italiana. Presentava e faceva approvare im pro- getto di legge per le fortificazioni d'Alessandria e in Lombardia si apriva subito dopo una sottoscrizione per dotare la piazza forte di cento cannoni, e poi, a chia- rire meglio i suoi intendimenti, proponeva il trasferi- mento della marina militare da Genova alla Spezia, allargando e fortificando il porto naturale di questo golfo. Era un'idea di Napoleone I questa e che poteva apparire imprudente e troppo superiore alle forze del piccolo Piemonte; l'unica giustificazione sua poteva trovarsi nell' intendimento di costituire un regno ita- liano, cacciando l'Austria dalla penisola. In tal senso fu difesa la proposta, non apertamente, ma coperta- mente, massime contro gli attacchi dei rappresentanti di Genova, timorosi che ne venisse danno alla loro città. E fu nel calmare appunto le apprensioni geno- vesi che, pare a noi, Cavour eccennasse più chiara- mente all'avvenire. Perchè egli parlò dello sviluppo commerciale del porto di Genova, come se questo non dovesse continuare ad essere il porto principale dello Stato sardo, ma fosse destinato a raccogliere il com- mercio di tutta r Italia. Ed altra impresa che sopra- vanzava le forze del piccolo Piemonte, e non poteva spiegarsi che con fondate speranze nell'avvenire, fu il traforo del IMoncenisio proposto e fatto approvare su- bito dopo. Era davvero un'opera troppo grave e co- 294 CAPITOLO IX. stosa, degna solo d' uno Stato di prim'ordine, quale non era il Piemonte, ma poiché nella mente di Cavour esso era il nucleo formativo dell'Italia e il processo di formazione era già molto avviato, appariva naturale che s'iniziassero imprese più proprie d'un grande che d'un piccolo Stato. Questo ardimento aveva anche un ef- fetto immediato politico, perchè ingenerava il convin- cimento che il Piemonte fosse garantito da alleanze e da consensi, che lo abilitavano a sperare con grande sicurezza in un prossimo avvenire. VI. Mentre Cavour procedeva in modo così sicuro nello svolgimento della sua politica italiana, i clericali e i con- servatori, traendo pretesto dai tentativi mazziniani di cui, come abbiamo detto, si teneva responsabile Rat- tazzi, dal quale Cavour non aveva voluto separarsi, e che avevano allarmato l'opinione pubblica, si prepara- vano, nel maggiore segreto, a dargli battaglia nelle ele- zioni generali che erano indette pel 15 novembre del 1S57 e, quel che è più, avevano speranza fondata di vittoria. Cavour sapeva che il partito clericale avrebbe spiegato tutte le sue forze, ma non supponeva che la destra co- stituzionale e conservatrice, per quanto non gli fosse amica, si sarebbe unita ai clericali, quindi, pur non dis- simulandosi la gravità della battaglia, non aveva serii timori sul suo esito. Quando seppe che 1' unione era stretta, era ormai troppo tardi per sventare il colpo. Le elezioni segnarono un trionfo pei candidati di destra e d'estrema destra, parecchi ministri entrarono in bai- CAPITOLO IX. 295 lottaggio, Cavour stesso riuscì con una piccola maggio- ranza, molti candidati ministeriali non furono rieletti. Il Ministero aveva sempre la maggioranza, ma molto di- minuita, mentre l'opposizione di destra era rafforzata di numero nell'assemblea e poteva vantarsi d'avere per sé l'opinione popolare. Se Vittorio Emanuele non sì fosse messo risolutamente dalla parte del Ministero, la situa- zione politica poteva cambiare radicalmente, ma per for- tuna il Re stette saldo. « Il Re è decisamente col Mini- stero, egli non farà un passo avanti in materia di leggi ecclesiastiche, ma non retrocederà d'un pelo.... La no- stra politica sarà nazionale e liberale, e ninno è più con- vinto e risoluto a mantenerla che il Re stesso, » così scriveva Michelangelo Castelli a I^Iarco Minghetti è così infatti fu. Il discorso della Corona pronunciato il 14 di- cembre rassicurò tutti i liberali. Vittorio Emanuele, con quell'accento vibrato che sa- peva assumere quando era necessario e che produceva sempre una immensa impressione perchè rivelava un convincimento personale infrangibile, disse ai membri del parlamento : « Non dubito rinvenire in voi il mede- simo forte e leale concorso nell'applicare e svolgere quei principii liberali sui quali riposa, oramai in modo irremovibile, la nostra politica nazionale. » Tutti capi- rono che queste parole significavano che qualunque spe- ranza, o timore, di cambiamenti in senso retrogrado era assurda perchè si sarebbe spezzata contro la volontà ferrea del Re. Il partito liberale, che si era già riscosso nei ballottaggi, applicando severamente nella convalida- zione delle elezioni le prescrizioni di legge, ne annullò parecchie degli avversarli, e nelle nuove potè ottenere vittoria, in modo da diminuire le forze contrarie al Mi- 296 CAPITOLO IX. nistero, e da aumentare le favorevoli. E fu così potente e determinata la reazione contro la minacciata preva- lenza clericale, che Cavour ebbe molto da fare per im- pedire che trascorresse ad eccessi, pur consentendo che si svolgesse tanto da togliere ogni velleità di prevalenza ai suoi avversarli. Ma, oltre che ì fatti di Genova involgevano in qual- che modo la responsabilità del Rattazzi ministro del- l'interno, appariva evidente che l'esito delle elezioni era principalmente dovuto alla sua presenza nel Ministero, e che in ogni modo a lui era mancata l'avvedutezza ne- cessaria, non avendo saputo prevedere quest'esito in tempo, per impedire la prevalenza degli avversarli ; per- ciò si rendeva opportuna la uscita di questo statista dal Gabinetto, tanto più che molti, anche dei più fidi amici di Cavour, diffidavano di lui. Bisognava però che 1' uscita avvenisse in modo da non apparire una concessione agli avversarli del Gabinetto e da non togliere a questo l'ap- poggio del centro sinistro. Cavour a questo scopo si rivolse direttamente al Rattazzi, e questi aderì di buon grado a dare le dimissioni, le spiegò alla Camera in modo soddisfacente e cosi la situazione parlamentare ri- mase inalterata, perchè lo statista alessandrino e i suoi amici dichiararono apertamente di continuare a far parte della maggioranza che sosteneva il Gabinetto. Pochi giorni dopo superata questa difficoltà, giunse in Torino l'annuncio dell'attentato di Felice Orsini alla vita di Na- poleone III. Non fu questo, come apparve da principio, un at- tentato mazziniano ; Orsini si era staccato da Mazzini e anzi era con lui in aperta inimicizia. L'ardente roma- gnolo, imbevuto di principii settarii che ne traviavano CAPITOLO IX. 297 l'indole generosa e ne oscuravano il senso morale, pensò l'attentato non illudendosi sul suo esito finale. Nel caso che riuscisse, come nel caso più probabile che avesse esito negativo, esso* doveva provare che mai i gover- nanti di Francia avrebbero potuto esser tranquilli sulla loro vita, finché non avessero fatto render giustizia al- l'Italia. Era evidente che, o inspirato da Mazzini o sorto spontaneamente nella mente dell'Orsini e dei suoi com- plici, non involgeva nessuna responsabilità, né diretta né indiretta, del governo piemontese e del partito libe- rale italiano, ma, naturalmente, quanti in Francia erano avversi all'Italia ne approfittarono per distogliere l'Im- peratore dalla politica favorevole a questa, e non è me- raviglia che facessero breccia sull'animo di Napoleone III e che lo spingessero a permettere che il suo governo rivolgesse serie rimostranze al Piemonte per l' ecces- siva libertà della stampa, la quale, si diceva, eccitava a commettere reati di simil genere. Analoghe rimo- stranze, del resto, furono rivolte all' Inghilterra, al Bel- gio e alla Svizzera, ma quelle al Piemonte furono più gravi e assunsero l'aspetto di intimazioni vere e proprie. Com' era naturale le intimazioni furono respinte fiera- mente da Vittorio Emanuele, il quale incaricò il gene- rale Della Rocca di dire all'Imperatore queste precise parole: « .... Que je n'ai jamais soufFert de violences de personne. Que je suis la voie de l'honneur toujours sans taches, et que de cet honneur je n'en rèponds qu'à Dieu et à mon peuple. Qu'il y a 850 ans que nous por- tons la téte haute et que personne ne me la fera baisser, et, qu'avec tout cela, je ne désire autre chose qu'étre son ami. » Il generale Della Rocca riferì fedelmente le parole del suo Re, e queste, pare, facessero un'ottima 298 CAPITOLO IX. impressione su Napoleone III, che si calmò immedia- tamente. D'altra parte Cavour faceva notare che se l'Im- peratore insisteva nel volere che fossero espulsi gli emi- grati e soppressi i giornali, potevaforse riuscire perchè il Piemonte non aveva forze per resistere, ma che egli, Cavour, avrebbe abbandonato il governo, e questo sa- rebbe stato preso dai legittimisti più o meno sinceri, e quindi l'Impero avrebbe perduto l'amicizia del Piemonte e guadagnatane l' inimicizia. Questo contegno fermo, congiunto alla fierezza del Re, abbonì, oltre che Napo- leone, anche il suo governo e a ciò contribuì anche la lettera scritta da Felice Orsini prima di salire il pati- bolo, la quale impressionò profondamente l'animo sen- sibilissimo dell'Imperatore. Dileguato così ogni pericolo di intimazioni ofìensive alla dignità dello Stato piemontese, Cavour pensò di dare qualche soddisfazione al governo francese, senza uscire dalla lettera e dallo spirito della costituzione che sanciva la libertà di stampa ; e questo tanto più per- chè, infatti, un giornale che si stampava in Piemonte, la Ragione, aveva apertamente esaltato e glorificato l'at- tentato d'Orsini. In questo senso presentò un disegno di legge che provvedeva alla definizione legale del reato d'apologia dell'assassinio politico, alla pena per la co- spirazione contro la vita dei sovrani e capi di governi esteri, e a modificare il modo di formazione delle liste dei giurati. Il progetto non fu bene accolto dagli ufficii della Camera, la commissione incaricata di riferire su di esso riusci in maggioranza composta di deputati d'oj^- posizione, ma quando si venne a discuterlo le cose cam- biarono. Combattuto dalla parte clericale di cui si fece interprete il Solaro della Margherita e da molti oratori CAPITOLO IX. 299 di sinistra, fu difeso con grande abilità da Rattazzi (che in quest'occasione si contenne in modo veramente no- bile), da Farini, da Mamiani e da altri, infine anche da Rével che, pur approvandolo, deplorava che la politica del Ministero lo avesse reso necessario e augurava che fosse indizio d'un cambiamento in essa. Cavour prese la parola il 16 aprile e il suo discorso cominciò dal re- spingere le accuse di Rével e dal rivendicare la conti- nuità e la perfetta coerenza della sua politica, difenden- dola contro le accuse che le si erano rivolte dai due estremi della Camera. Si era detto che questa politica non aveva portato ad alcun risultato positivo, ed era vero nell'ordine materiale, non nell'ordine morale. « Ora, o signori, io credo che se vi è un insegnamento che possiamo ritrarre dalla storia moderna, si è questo : che non vi è rivolgimento notevole, non vi è grande rivo- luzione che possa compiersi nell'ordine materiale, se preventivamente non è già preparata nell'ordine morale, nell'ordine delle idee. E se noi siamo giunti ad operare questo cangiamento nell'ordine morale e nell'ordine delle idee a favore dell'Italia, noi abbiamo fatto assai più che se avessimo guadagnato parecchie battaglie. » E, dopo aver provato che l'opinione pubblica era tutta favorevole all'Italia, che anche nei paesi più lontani si seguivano con interesse e simpatia gli avvenimenti e le discussioni che la riguardavano, venne a giustificare la politica delle alleanze che egli aveva sempre seguita. Quando una nazione non può disporre di grossi eser- citi, bisogna che cerchi di avere, all'occorrenza, l'ap- poggio di quei paesi che li possiedono. E poiché il BrofFerio aveva detto che si doveva fare alleanza solo coi popoli che avessero istituzioni libere, egli ribattè 300 CAPITOLO IX. che mai, ne in antico, né nei tempi moderni, gli Stati si erano preoccupati della somiglianza delle istituzioni nello stringere le alleanze, ma unicamente avevano ba- dato ai loro interessi. Avendo lo stesso BrofFerio ag- giunto che l'alleanza colla Francia sarebbe stata possibile quando questa fosse divenuta repubblica, Cavour, con esempii storici, provò che le repubbliche, molto meno delle monarchie, avevano aiutato i popoli a risorgere, e, parlando più specialmente della Francia, disse che nes- sun aiuto era venuto all'Italia dalla repubblica giacobina del 1848 e che dopo furono i repubblicani i quali im- pedirono a Luigi Napoleone di accettare la dimanda di Carlo Alberto per averne soccorsi morali e materiali nella seconda guerra d'indipendenza. Dopo ciò accennò a quelli che non vogliono alleanze di sorta né con prin- cipi, né con popoli, ma fidano solo nella rivoluzione e li chiamò insensati. « Che non veggono che una tale ri- voluzione avrebbe per effetto quasi sicuro di far scom- parire ogni vestigio di libertà sul continente europeo, e di ricondurci, forse, ai tempi di mezzo. Insensati! sì ma di buona fede che ci fanno conoscere le loro aspi- razioni, le quali non sono aspirazioni patriottiche, ma solamente rivoluzionarie ! Insensati ! perché amano la rivoluzione assai più che l'Italia. » Quindi il Ministero aveva avuto ragione di attenersi al sistema delle alleanze, e, per procurarle e mantenerle, aveva cercato dì inspirare la fiducia e di conquistare la stima delle altre nazioni. Ma, per renderle durature, bisogna « mostrarsi verso gli alleati benevoli e condi- scendenti, ed é mestieri talvolta ascoltare i loro consigli quando non sono dettati da spirito di prepotenza, ma da sentimento di sincera amicizia. » L'arrendevolezza ha CAPITOLO IX. 301 però dei limiti, negl' interessi, nella dignità, nell'onore del paese e nei principii fondamentali della politica, che non debbono mai essere sacrificati. Questi limiti furono rispettati, infatti varie volte il Piemonte contraddisse nel congresso di Parigi all'Inghilterra e certo non la seguì nel ravvicinamento che essa fece coll'Austria. Quindi Cavour venne a spiegare i motivi politici che avevano indotto il Ministero a presentare il disegno di legge in questione, descrisse l'impressione destata non solo sul governo, ma sul popolo francese dall'attentato d'Or- sini, spiegò perchè questo governo avesse creduto di indirizzare una nota agli Stati amici, incitandoli tutti a cooperare nell' impedire la rinnovazione di tali misfatti, dichiarò che non aveva mancato di far rilevare che la responsabilità di essi, almeno in parte, ricadeva sui si- stemi politici che usavano alcuni Stati italiani e special- mente il pontificio, i quali obbligavano molti ad esulare e, quindi, mettevano gli esuli irritati in contatto, quasi necessario, coi fautori delle rivoluzioni. Ma un fatto grave intanto s'era prodotto, e cioè un giornale piemontese, la Ragione, perseguito dal pubblico Ministero per l'apo- logia dell'attentato Orsini, era stato assolto dai giurati. Questo verdetto aveva prodotto una enorme impressione all' interno e all'estero e deciso il Ministero a presentare il progetto in discussione. E qui Cavour venne a par- lare della Giovine Italia, l'accusò di incitare all'assas- sinio politico, riconobbe però che i governi cattivi erano responsabili di questi traviamenti delle coscienze, e notò: « È un gran male per l' Italia che all'estero si possa dire : vi è in quella nazione una setta che professa la dottrina dell'assassinio politico, » e questo tanto più che le mi- sere condizioni di una popolazione italiana, la roma- 302 CAPITOLO IX. gnola, la predispongono mirabilmente a subirne l' in- flusso. « Ebbene, abbiamo creduto che, poiché vi era una setta che professava le dottrine dell'assassinio po- litico, poiché vi erano popolazioni che, forse per colpa altrui, erano disposte ad applicarle, abbiamo creduto che era opera necessaria, nell' interesse del Piemonte e del- l'Italia tutta, che nell'unico Stato italiano retto a li- bertà sorgesse altamente la voce, non solo del gov^erno, ma della Nazione dal parlamento rappresentata, a pro- testare solennemente, energicamente contro la scellerata dottrina. » Un altro motivo addusse Cavour, ed era che il Ministero aveva saputo, per notizie avute dal governo inglese, che si tramava un attentato contro Vittorio Emanuele. Urgeva quindi provvedere, anche perché se si fosse saputo che il Ministero esitava a colpire una setta che tramava contro la vita del Sovrano, si sarebbe potuta produrre nel paese una reazione non solo contro il Gabinetto, ma contro l' intero partito liberale. Poi venne a difendere il progetto, dimostrando che non offendeva lo Statuto, né la libertà di stampa, e neppure feriva mortalmente, come si era detto, l' istituzione della giu- ria, e a proposito delle frequenti assoluzioni le deplorò « perché crediamo sia un inconveniente immenso il ve- dere ogni giorno una legge apertamente violata senza che vi sia mezzo di portarvi rimedio. Io dico che l'esistenza di giornali repubblicani, di giornali che dichiarano aver per iscopo di rovesciare le nostre istituzioni, di pro- muovere, non solo nelle altre parti d' Italia, ma nel no- stro paese una rivoluzione; io dico che l'esistenza di questi giornali costituisce un'offesa perenne, continua alla legge; e questo é un gravissimo sconcio che è no- stro dovere di riparare e correggere. » Dopo aver detto CAPITOLO IX. 303 che le spiegazioni date dovevano aver fatto certo l'ono- revole Rével e i suoi seguaci che il Ministero non ne cercava l'appoggio, perchè non aveva alcuna intenzione di cambiare politica, pose in termini espliciti la que- stione di Gabinetto. La Camera con una forte maggio- ranza approvò la legge proposta, che ebbe poi i voti quasi unanimi del Senato. Così Cavour riuscì a superare una bufera che aveva minacciato di travolgerlo, e potè riacquistare la piena fiducia dell' Imperatore, dandogli una prova evidente e incontestabile che il Piemonte non aveva nulla di comune coi rivoluzionarii e molto meno coi seguaci di Mazzini. È evidente che Cavour esagerò nelle accuse contro l'agitatore genovese, forse lo fece per spirito di opportunità, ma certo egli aveva ragione di essere profondamente irritato contro di lui. A Maz- zini mancò, nella opposizione a Cavour, completamente il senso della realtà e della verità, non capì, o non volle capire, la grandezza e la sincerità dell' uomo che com- batteva, né si accorse che, se fosse riuscito a impedirne i disegni, avrebbe danneggiato irremissibilmente la causa italiana. E neppure si accorse che, come egli aveva avuto perfettamente ragione di sostituire la Giovine Italia alle vecchie sette carbonare, così era giunto il tempo di abbandonare anche la Giovitie Italia, i cui procedimenti segreti, se non propriamente settarii, erano incompati- bili colle mutate condizioni dei tempi. Non è vero che Mazzini predicasse la dottrina dell'assassinio politico, lo stesso attentato dì Orsini lo prova, ma era vero che nella Giovine Italia, ormai, non rimanevano, coscienti e operanti, che gli elementi torbidi; anche molti uomini di alto valore che rimanevano con Mazzini, meno i suoi più intimi amici, erano sfiduciati e cercavano ogni oc- 304 CAPITOLO IX. casione per cavarsene fuori. Per ciò era molto facile che gli elementi torbidi ed esaltati, non più trattenuti dal freno di compagni superiori intellettualmente e moral- mente, trascorressero a qualche eccesso, tanto più avendo Mazzini, come abbiamo visto, perduto completamente, nelle cose d'Italia, il senso della realtà. Quindi si spie- gano, se non si giustificano in tutto, le parole oltre- modo severe di Cavour, le quali, del resto, dal punto di vista politico produssero un'ottima impressione. VII. Superate le enormi difficoltà derivate dall'attentato di Felice Orsini, Cavour dovette, prima di trarre le con- seguenze ultime della sua politica d'alleanza colla Fran- cia, vincere altre battaglie in parlamento. Da destra e da sinistra si movevano aspre critiche alla sua politica finanziaria. Nel fatto egli era riuscito a migliorare l'or- dinamento tributario, a suscitare le industrie e il pro- gresso agricolo, a trasformare, insomma, il Piemonte da paese povero in paese ricco, ma aveva dovuto anche far sentire maggiormente il peso delle imposte e ciò senza poter raggiungere il pareggio. La guerra d'Oriente, le spese militari, le crisi, i disastri, le malattie nei pro- dotti agricoli, lo avrebbero forse ritardato, ma lo im- pedivano assolutamente le grandi imprese che Cavour aveva fatto votare, e cioè i lavori pel porto di Spezia e pel traforo del Moncenisio. Per assestare il bilancio fu necessario sottoporre all'approvazione delle Camere il progetto per un prestito di 40 milioni, sul quale s'im- pegnò una vivacissima discussione. Gli stessi uomini di CAPITOLO IX. 305 sinistra, quali il Saracco, il Depretis, che godevano ri- putazione di essere molto più avanzati del Ministero e di Cavour stesso nelle idee relative alla redenzione d' Italia, non si trattennero dal rimproverare il Gabi- netto e il suo capo di compromettere le sorti del Pie- monte, e da qualcuno fu anche detto che era giunto il tempo di pensare prima al Piemonte e poi all' Italia. Cavour dovette difendersi, e lo fece con parecchi di- scorsi, fra i quali due efficacissimi, pronunziati il 19 e il 20 maggio del 1858; in questi l'abilità tecnica si me- scola mirabilmente colla finezza politica. Nel fatto egli era superiore a tutti, non solo come statista nel più no- bile significato della parola, ma anche come finanziere e ministro tecnico, e, quindi, non poteva mai sfuggirgli il predominio in Parlamento, molto più che egli par- lava sempre un linguaggio denso di pensiero e nel quale i rapporti, anche più nascosti, tra i fatti si delineavano limpidamente. Cosi sotto al problema finanziario si ve- deva il problema politico, sotto alle questioni ammini- strative, anche più minute, sorgeva la questione nazio- nale, e il programma del Ministero si presentava così strettamente connesso in tutte le sue parti che non era possibile rifiutarne una senza intaccare il tutto. E que- sto non era effetto di artifizio dettato da ambizione, ma appariva, ed era in realtà, una conseguenza logica del programma stesso nel modo come era stato pensato e formulato. E, inoltre, se lo si rifiutava interamente, non si sarebbe da alcuno saputo, o potuto, sostituirne un al- tro; di ciò erano persuasi quasi tutti gli avversarli, al- meno i migliori tra essi, e quindi, nel mentre com- battevano e contrastavano, per così dire, palmo a palmo il terreno, non si auguravano certamente la vittoria. In Cavour. 20 306 CAPITOLO IX. questo mentre gli amici antichi e nuovi sentivano cre- scere la loro fiducia ognora più, e la fiducia si comuni- cava da loro a tutto il popolo del Piemonte e, passando i confini, a tutta l' Italia. Così Cavour assunse di fatto una dittatura non legale, la quale egli avrebbe rifiutata, ma morale, efficacissima, perchè si svolgeva conqui- stando i consensi, non imponendo l'obbedienza, e rispet- tava, nella forma e nella sostanza, le istituzioni libere dello Stato, la Monarchia e il Parlamento. Ed anche si può dire che questa dittatura era altamente educatrice, in quanto che non partiva, come in genere le dittature, da una persuasione d' incapacità del popolo su cui si esercitava, ma invece dal presupposto della sua piena capacità, e solamente questa integrava, dirigeva e disci- plinava per abilitare gli animi e i cuori a raggiungere la meta desiderata. Vili. Come si è già osservato, dalia bufera prodotta dal- l'attentato Orsini, Cavour uscì rafforzato e più che mai sicuro di sé, ma ciò che può parere più straordinario è che da essa trasse i motivi più forti per decidere Na- poleone III ad impegnarsi, definitivamente ed esplicita- mente, nell'impresa dell'indipendenza italiana. All'Im- peratore egli fece presente che l'agitazione in Italia era cresciuta al punto da far temere che scoppiassero, da un momento all'altro, nuove insurrezioni, che se ciò non era finora successo, lo si doveva unicamente alla in- fluenza del Piemonte, il quale, però, se si fosse prolun- gato lo stato attuale delle cose nella penisola, avrebbe finito per non essere più ascoltato. Se un'insurrezione CAPITOLO IX. 307 fosse scoppiata, o nei territorii soggetti all'Austria o in altro qualunque degli Stati della penisola, e l'Austria fosse intervenuta, sarebbe stato impossibile al Piemonte di non buttarsi, anche da solo, e col pericolo di essere schiacciato, allo sbaraglio di una guerra. Ed anche egli insisteva coli' Imperatore che, perdurando l'oppressione dell'Italia, i settarii italiani ne avrebbero fatta risalire a lui la responsabilità, e quindi non avrebbe mai potuto essere al sicuro dal pugnale o dalla bomba dei rivolu- zionarli. Quindi r interesse della Francia esigeva che egli intervenisse in tempo per impedire all'Austria di acquistare, schiacciando il Piemonte, un predominio as- soluto in Italia, 1' interesse suo personale imponeva che togliesse ogni pretesto ai rivoluzionarli di attentare alla sua vita. Questi argomenti, svoltigli in più modi e da varie persone per suggerimento di Cavour, scossero alla fine l'animo di Napoleone, sempre segretamente amico dell' Italia e desideroso di strappare, mettendo fine al dominio austriaco nella penisola, il trattato di Vienna, per riprendere cosi e vivificare con intendimenti più no- bili e disinteressati la politica del grande Imperatore. Perciò egli inviò sulla fine di maggio a Torino in mis- sione segreta il dottor Conneau, suo amico e confidente fidatissimo, e questi, dopo avere avuto parecchi col- loquii con Cavour, lo invitò, a nome dell' Imperatore, a recarsi a Plombières quando sui primi di luglio Na- poleone III vi fosse andato a passare qualche giorno. Tutto ciò fu detto nel massimo segreto. Cavour, quando si approssimò 1' epoca fissata, col pretesto di prendersi qualche giorno di svago, parti per la Svizzera, e di lì il 20 luglio andò al luogo fissato, dove ebbe due col- loquii col Sovrano della Francia. Dei ministri, il solo 3o8 CAPITOLO IX. La Marmora conosceva il fine segreto del viaggio di Ca- vour, gli altri ne ebbero notizie monche e parziali; esso fu ignorato dalla diplomazia europea e dallo stesso go- verno francese, che lo appresero solo da un laconico te- legramma dell'agenzia Havas in data del 24 : « S. E. il Conte di Cavour è partito da Plombières giovedì scorso dopo un soggiorno di 36 ore. » L'effetto di questo te- legramma fu immenso, non solo in Italia, ma in tutta Europa ; si ignoravano gli scopi e i particolari dei col- loquii avvenuti, ma sorse in tutti la convinzione che in breve, come conseguenza di essi, si sarebbe avuta la guerra. Ma che cosa si era veramente combinato a Plom- bières? Cavour stesso ne dà relazione in due lettere, l'una diretta a Vittorio Emanuele, l'altra diretta al La Mar- mora, ambedue in data del 24 luglio, e da Baden-Baden. Principalmente quella diretta al Re è d'un' importanza eccezionale, anche perchè rivela il profondo convinci- mento del suo autore. L' Imperatore si dichiarò pronto ad allearsi al Piemonte in una guerra contro l'Austria, purché fosse intrapresa per una causa non rivoluziona- ria, e potesse essere giustificata dinanzi alla diplomazia e all'opinione pubblica della Francia e d'Europa. Nes- suna delle cause che accampò Cavour, come l'occupa- zione austriaca nei Ducati e nelle Legazioni, le nuove fortificazioni fatte dall'Austria a Piacenza, parve suf- ficiente a Napoleone III; i due finirono per fermarsi su Massa e Carrara, soggette e mal governate dal Duca di Modena. Si sarebbe provocato un indirizzo degli abi- tanti di quei paesi al Re, per dimandarne la protezione e magari l'annessione dei loro territorii ai suoi Stati, il Re avrebbe rifiutata 1' una e l'altra, ma avrebbe indi- rizzato al Duca di Modena una nota altera e minac- CAPITOLO IX. 309 dosa, questi, sicuro dell'appoggio dell'Austria, avrebbe risposto malamente, di qui la guerra, che sarebbe po- polare in Francia e anche in Inghilterra per l'antipatia che godeva in Europa quel principotto. Il quale, non avendo riconosciuto nessuno dei governi succedutisi in Francia dopo la rivoluzione di luglio, non meritava alcun riguardo da parte del governo francese. Intorno alla condizione da farsi al Papa e al Re di Napoli si convenne che il primo avrebbe conservato il dominio su Roma, che si sarebbero lasciate insorgere le Romagne per sottrarle al suo governo, e il secondo sarebbe stato lasciato pel momento tranquillo, a meno che non si fosse unito all'Austria, sicuri come si era che, o prima o poi, i suoi popoli avrebbero pensato a sbarazzarsene. Scopo della guerra, cacciare l'Austria dal- l'Italia senza che ritenesse un palmo di terreno al di qua delle Alpi e dell' Isonzo. L' Italia, liberata dallo straniero, si stabilì che sarebbe stata ordinata nel modo seguente, salve le modificazioni che potevano esser con- sigliate dalle eventualità della guerra. La valle del Po, la Romagna e le Legazioni avrebbero costituito il Regno dell'alta Italia sotto la Casa di Savoia, si sarebbero con- servate al Papa Roma e il suo territorio, il resto dello Stato pontificio e la Toscana avrebbero formato il Regno dell' Italia centrale; i quattro Stati italiani sarebbero co- stituiti in Confederazione, sotto la presidenza del Papa. Nel caso poi che il Granduca di Toscana e il Re di Na- poli fossero stati obbligati, o avessero creduto opportuno, di non aderire alla confederazione, l' Imperatore espresse il desiderio che il Regno delle due Sicilie fosse dato a un Murat e avrebbe visto volentieri che a Firenze fosse insediata come regina la Duchessa di Parma. 3IO CAPITOLO IX. In compenso dell'aiuto che prestava, l'Imperatore chiese la cessione della Savoia e della contea di Nizza, Cavour aveva aderito alla cessione della prima, si era rifiutato a quella della seconda e si era convenuto di lasciare su ciò ogni decisione in sospeso. Dopo aver discusso intorno al modo di condurre la guerra a fondo contro l'Austria, 1' Imperatore intavolò il discorso in- torno al matrimonio, da lui desiderato, di suo cugino Napoleone Girolamo colla figlia del Re, la principessa Clotilde, di cui già in precedenza era stato fatto cenno a Vittorio Emanuele. La discussione tra i due fu lunga e, per quanto apparisse chiaro che Cavour era favorevole ad aderire, non potè impegnarsi perchè conosceva le ripu- gnanze del Re. Napoleone ebbe il tatto di non insistere, anzi dichiarò che avrebbe lasciata piena libertà di deci- sione a Vittorio Emanuele, che non ne faceva una con- dizione sine qua ìion dell'alleanza, ma Cavour capì che era appunto a questo che l'Imperatore teneva di più. Infatti egli impiega metà della lettera a convincere il Re della necessità di accondiscendervi, e adopera perciò tutti gli argomenti possibili e immaginabili, difende il principe Napoleone dalle accuse che gli erano rivolte, mostra che le condizioni della politica di Casa Savoia non permet- tevano alle sue principesse un matrimonio migliore di quello progettato, e insiste principalmente sul fatto che un rifiuto avrebbe mandato a monte, o tolto molto va- lore, all'alleanza. Questo il patto di Plombières, sul quale, quando ne furono conosciute le condizioni, molto varii furono i giudizii. Si disse che in esso era contenuta la prova che Cavour, non solo non credeva possibile l'unità dell' Italia, ma la escludeva in modo assoluto, ricono- scendo la necessità di conservare, sia pure in proporzioni CAPITOLO IX. 311 minori, il potere temporale, di lasciare sul trono di Napoli il Borbone o di sostituirvi un nuovo straniero, il Murat, e infine di costituire un regno dell'Italia centrale. A noi pare che la questione non vada esaminata in questo modo. La prima e principale aspirazione, si può dire il porro unum fieccssarium per l' Italia, era l' indipen- denza, e questa era in modo assoluto garantita dal patto di Plombières, pel quale non un palmo di terra italiana doveva più rimanere sotto l'Austria. Per ottenere questo scopo coU'aiuto della Francia si poteva ben transigere sulla questione dell' unità che appariva, ed era allora real- mente, d' un' importanza secondaria. E poi, mentre per r indipendenza l' impegno della Francia era assoluto, la Confederazione era subordinata ad eventualità che pote- vano e non potevano avverarsi, sopratutto era subordi- nata al consenso dei Principi e dei popoli. Se questi si fossero di buon grado acconciati all'assetto proposto, metteva conto, per impedirlo, di porre in forse l'indipen- denza? Ma se, com'era più probabile, i Principi e i po- poli non l'avessero accettato, o non si fossero trovati tra loro d'accordo, non vi era alcun impegno preciso e si poteva pensare ad un altro ordinamento, e magari al- l' unità. Perchè era evidente che, movendo guerra per liberare l' Italia dallo straniero. Napoleone, per ciò solo, s' inibiva qualunque coercizione sul popolo italiano e quindi il partito liberale aveva un largo campo d'azione nel quale muoversi liberamente, massime sotto la guida e r impulso d'un uomo come il Conte di Cavour. Questi, ripetiamolo, non aveva alcuna simpatia pel Papa sovrano temporale, aveva una ripugnanza vivissima pel Re di Na- poli, aveva copertamente, ma efficacemente, impediti i primi tentativi fatti nel Regno di Napoli a favore di 312 CAPITOLO IX. Murat, aveva in mano, per mezzo deWa Società nazionale e delle sue estese relazioni, tutte le fila del movimento italiano, conosceva e sapeva maneggiare la diplomazia europea, e avrebbe saputo, e potuto, a tempo opportuno, ricavare, dagli avvenimenti prevedibili e imprevedibili, i maggiori vantaggi che si potessero immaginare. Il convegno di Plombières ebbe un' importanza ca- pitale, avvinse in modo indissolubile Napoleone alla causa italiana, gì' impedì di mettersi contro ad essa, dif- fuse e radicò l'opinione in Europa che quanto si sarebbe fatto in Italia era da lui permesso, e perciò in esso fu il principio e la garanzia della fortuna d' Italia. E ben a ragione, dopo Plombières, il vecchio principe di Met- ternich diceva al principe Poniatovvsky : « La diplomatie s'en va; il n'y a plus maintenant en Europe qu'un Seul diplomate; mais malheureusement il est contre nous: c'est M.r de Cavour. » È certo che, dopo Plom- bières, il grande statista si sentì sicuro di riuscire a provocare la guerra. Lord Odo Russel, parlando in quel tempo con Cavour, espresse l'opinione che l'Austria non avrebbe dichiarata la guerra, bastandole di costringere il Piemonte a tenere sotto le armi molte truppe per ro- vinarlo finanziariamente e così averne ragione, si sentì rispondere : « Ma io saprò costringerla a dichiararci la guerra. » A questa sortita il nobile Lord, incredulo, di- mandò ironicamente quando Cavour credeva di poter operare un simile prodigio di diplomazia, ed ebbe da Cavour, imperturbabile, questa risposta : « Intorno alla prima settimana di maggio. » Il Russel notò nel suo taccuino il colloquio, e fu molto sorpreso quando apprese che l'Austria aveva proprio dichiarato la guerra al Pie- monte pochi giorni prima del tempo fissato da Cavour. CAPITOLO IX. 313 IX. Nel fatto molte e gravi difficoltà si opponevano alla guerra. Cavour, partendo da Plombières, pensava come Napoleone che l'Inghilterra, la Prussia e la Russia non vi si sarebbero opposte ; ora se questo era vero per quest'ul- tima potenza, finché la guerra fosse stata diretta contro l'Austria soltanto, non era altrettanto vero per le prime due. Il principe reale di Prussia (quello che fu poi l' impe- ratore Guglielmo) parve all'improvviso cambiasse di politica, appoggiandosi novamente all'Austria contro la Russia e la Prussia, mentre l' Inghilterra, più che mai in- fervorata per la pace, non voleva che si toccasse l'Au- stria, che essa considerava « l'épée destinée à tenir la Russie en échec, » e perciò premeva sulla Francia e il Pie- monte perchè non provocassero l'Austria, rendendo cosi inevitabile la guerra. Napoleone, preoccupato di questo stato di cose, non disdisse, ma moderò, le sue promesse di Plombières, tanto da indurre il Re e Cavour a fare dichiarazioni dalle quali appariva che, pur deplorando il contegno dell'Austria nel Lombardo- Veneto, si sa- rebbero astenuti da ogni provocazione diretta e indiretta. Infatti così si fece, Cavour diede consigli di prudenza al Lafarina, capo visibile della società nazionale che aveva ramificazioni in tutta Italia, e al Boncompagni, ministro in Toscana, scrisse nello stesso senso. All'im- provviso, secondo il De la Rive, anche ad insaputa del Conte di Cavour, nei ricevimenti di capo d'anno, l'Im- peratore rivolse al barone di Hubner le famose parole : « Je regrette que nos relations avec votre gouvernement 314 CAPITOLO IX. ne soient pas aussi bonnes que par le passe ; mais je vous prie de dire à l'Empereur que mes sentiments per- sonnels pour lui ne sont pas changés. » Queste parole produssero un' immensa impressione in tutta Europa, perchè parvero annunziare la ferma intenzione di Na- poleone d' indire la guerra e in tal senso furono anche interpretate in Piemonte ; invece pare (e diciamo pare perchè è molto difficile penetrare il pensiero segreto e vero d' un uomo così involuto come Napoleone, nel quale la natura di cospiratore non si smentiva mai) che tale non fosse l' idea di chi le pronunciò. Ad ogni modo da esse derivò un allarme generale, e mentre la stampa germanica reclamava altamente che si provvedesse, nel- r imminenza della guerra, alla sicurezza della frontiera del Reno, l' Inghilterra, irritata, assumeva verso il Pie- monte e la Francia un contegno quasi minaccioso, l'opinione pubblica in Francia si pronunciava unanime contro la politica italiana dell' Imperatore, e a Vienna e in Italia si lavorava alacremente a preparare quella guerra che si riteneva ormai inevitabile. Pochi giorni dopo, il IO gennaio, Vittorio Emanuele, aprendo il par- lamento, pronunciava il celebre discorso, coli' accenno ai gridi di dolore che parve agi' italiani il suono della tromba della risurrezione. Ebbene, anche questa frase fu suggerita da Napoleone III all' intento di moderare l'effetto d' una frase molto meno esplicita, di per sé con- siderata, che era stata inserita nello schema di discorso che gli era stato inviato. La frase era : « confortati dal- l'esperienza del passato, andiamo incontro risoluti alle eventualità dell'avvenire. » Senza l'amplificazione suc- cessiva, certamente, sarebbe passata inosservata o, al- meno, non avrebbe il discorso reale assunto il tono d'un CAPITOLO IX. 315 appello all' insurrezione in tutta Italia e d' una dichia- razione di guerra. Aveva ben ragione Cavour di scri- vere: «nous avons place l'Autriche dans une impasse dont elle ne peut sortir qu'en tirant le canon. » L' Imperatore, ormai convinto dell' inevitabilità della guerra, inviò il principe Napoleone a Torino, accompa- gnato dal generale Niel, a chiedere in isposa la princi- pessa Clotilde, cui aveva acconsentito il Re, e contem- poraneamente fu firmato dallo stesso Principe, come plenipotenziario del Sovrano della Francia, un trattato d'alleanza offensiva tra il Piemonte e la Francia stessa. Questa s'impegnava ad aiutare il Piemonte in caso d'ag- gressione da parte dell'Austria, e, quando la guerra avesse esito felice per gli alleati, era convenuto la formazione d'un Regno italiano dalle falde delle Alpi ad Ancona; in compenso il Re avrebbe ceduto alla Francia la Savoia. Le sorti della Contea di Nizza sarebbero state decise alla conclusione della pace. Al trattato d'alleanza se- guiva una convenzione militare, per la quale le ostilità dovevano essere iniziate non prima della metà d'aprile, non dopo il luglio. L' Imperatore avrebbe portato in Italia un esercito di 200,000 uomini e avrebbe avuto il comando in capo, non solo del suo, ma anche dell'eser- cito sardo. Non si dovevano costituire corpi irregolari. Per desiderio del Re, fu affrettato il matrimonio della principessa Clotilde, che ebbe luogo il 30 gennaio ; sul significato di questo non poteva cader dubbio, e veniva chiaramente espresso, e fatto capire, anche ai più in- creduli, dai discorsi del Re, del principe Napoleone e di Cavour stesso. Da tutti si credeva la guerra imminente, il popolo entusiasmato già acclamava a Vittorio Emanuele Re 3l6 CAPITOLO IX. d'Italia e all'indipendenza nazionale, molto più che il 4 febbraio era a Parigi uscito il famoso opuscolo : Napo- léon III et r Italie, vera rivelazione e illustrazione quasi ufficiale degli accordi di Plombières e del trattato d' al- leanza già stretto. Per di più, ad accentuarne l'officio- sità, l'opuscolo fu anche annunziato nel Moniteur. Nello stesso giorno era presentato alla Camera piemontese un progetto per un prestito di 50 milioni, motivato dalla probabilità che presto sarebbe scoppiata una guerra. L'Austria ingrossava il suo esercito d' Italia e lo accan- tonava in modo da lasciar credere che volesse invadere il Piemonte, e Napoleone, inaugurando la sessione del Corpo legislativo, in una forma involuta esprimeva la speranza che non sarebbe stata turbata la pace, usando parole che potevano anche indicare la prossimità d'una guerra. La discussione che avvenne alla Camera sul pro- getto di prestito si risentì evidentemente della convin- zione generale che gravi avvenimenti stavano preparan- dosi. Il Solaro della Margherita combattè il prestito perchè sonava provocazione verso l'Austria; il Costa di Beauregard e altri deputati savoiardi pure lo combatte- rono perchè implicava una guerra che alla loro regione non interessava; il primo, anzi, accennò con amarezza alla conseguenza probabile della guerra, cioè alla unione della Savoia alla Francia ; Rével dichiarò che avrebbe vo- tato il prestito, ma non per fiducia nel Ministero che espli- cava una politica provocatrice, bensì solo per necessità di Stato; Depretis lo approvò, invece, sperando che non servisse alla difesa, ma all'offesa, e Cavour nel suo di- scorso dovette tener conto dei varii umori della Camera, e anche delle difficoltà diplomatiche che all'attuazione dei suoi disegni venivano dagli sforzi dell' Inghilterra CAPITOLO IX. 317 per mantenere la pace. Cominciò dal dire che la politica del suo governo « non fu mai provocatrice o rivoluzio- naria, ma fu sempre liberale, nazionale e italiana.... Noi siamo stati convinti essere nostro dovere, non solo di svolgere all' interno del paese i principii di libertà e di nazionalità sui quali riposano le istituzioni largite da Carlo Alberto al suo popolo, ma altresì di farci, a fronte dell'Europa tutta, gl'interpreti dei bisogni, dei dolori e delle speranze d' Italia. » Questa politica non fu mai ritenuta provocatrice dagli uomini di Stato giù gravi d'Europa, né lo era allora che in essa si proseguiva. Nel parlamento inglese tutti « hanno unanimemente ri- conosciuto, ministri e oppositori, conservatori e libe- rali, che lo stato d'Italia era del tutto anormale. » Senza che la politica del Piemonte fosse avventata e provoca- trice, l'Austria ammassava truppe al confine, quindi era necessario provvedere alle eventualità possibili e diffidare delle proteste di pace che quella Potenza va facendo presso tutti i Gabinetti. Ma gli avversarli volevano vedere una ga- ranzia di pace nell'attitudine del governo e del parlamento inglese, quindi Cavour dovette venire a parlare della po- litica inglese e lo fece in termini che esprimessero net- tamente il suo pensiero, pure senza offendere le suscet- tibilità britanniche. « Io non nego che vi sia stata una modificazione nell'opinione di molti uomini di Stato del- l'Inghilterra dal 1856 a questa parte. Il popolo inglese ha molte grandi virtù, fra le quali primeggia il patriot- tismo. L' inglese considera tutte le questioni dal lato nazionale, e quando giudica che l' interesse dell' Inghil- terra sia in giuoco, le altre considerazioni perdono molto di peso. Disgraziatamente, dopo il 1856, l' Inghilterra ha creduto essere nell' interesse della sua politica il riavvi- 3l8 CAPITOLO IX. cinarsì all'Austria.... Giudica ora come giudicava tre anni or sono il governo di Napoli e quello di Roma, ma seppe vedere, nel reggimento delle altre Provincie sulla sinistra del Po, una trasformazione che noi che siamo ad esse più vicini non abbiamo potuto scoprire. Il grido di dolore che s' inalza da Napoli e da Bologna giunge tutt'ora con eguale intensità sulle sponde del Tamigi ; mentre, disgraziatamente, ai lagni e ai pianti che prorom- pono da Milano e da Venezia è opposta un' inesorabile barriera dalle Alpi austriache. » Questo cambiamento è grave, ma non deve sconfortare perchè le cause propu- gnate in nome della giustizia e della libertà hanno sem- pre finito col trionfare in Inghilterra. E, dopo aver ram- mentate le avversioni per il miglioramento dell' Irlanda e per l'emancipazione dei neri, che pure avevano finito col trionfare, Cavour osservò : « La causa dell' Italia non è men sacra, non è meno valevole a scuotere gli animi generosi di quella degl' irlandesi, di quella della razza nera; trionferà anch'essa al cospetto del tribunale del- l'opinione pubblica inglese. » Accennando poi a Lord Derby, capo allora del governo inglese, disse di non poter credere che egli, che aveva avuto la fortuna di unire il suo nome illustre alla gran causa dell'emanci- pazione dei neri, voglia compiere la sua carriera «ren- dendosi complice di coloro che vorrebbero condannare gl'italiani ad un'eterna servitù. » Quindi, dopo aver ri- sposto al Costa che non era opportuno, quando la patria era in pericolo, mettere in campo questioni che potevano dividere gli animi, così concluse : «Nel chiedervi ora i mezzi di resistere, non abbiamo intenzione di mutare politica, né di procedere ad atti di sfida, ma non vo- gliamo nemmeno abbassare la voce allorquando l'Au- CAPITOLO IX. 319 Stria minaccia, allorquando invia ed aduna ai nostri con- fini armi ed armati.... Io confido che la risposta che l'urna del Parlamento sarà per dare, dimostrerà lumi- nosamente all' Europa che, qualunque sieno le nostre in- terne dissensioni, noi siamo unanimi nei nostri voleri, quando si tratta di difendere, non solo la sicurezza e r indipendenza, ma altresì l'onore della Nazione. » Uguali dichiarazioni fece in Senato e in ambedue le Assemblee il prestito fu votato a grande maggioranza. L'opinione pubblica era tanto favorevole a Cavour che il prestito ebbe un esito brillantissimo, fu collocato, cioè, a ottime condizioni per quanto i principali banchieri d' Europa rifiutassero d'occuparsene. A quest'azione palese, si univa, da parte di Cavour, un'altra più o meno segreta; i volontarii affluivano da tutte le parti d' Italia in Pie- monte, specialmente dalla Lombardia, sì annodavano rapporti sempre più stretti con Garibaldi, si pensava al- l' istituzione d'un corpo speciale sotto i suoi ordini, tutto sì preparava per la guerra. Ria, appunto quando Cavour sì riteneva sicuro, gli sforzi da parte della diplomazia inglese in favore della pace raddoppiarono d' intensità e parvero per un momento riuscire. Cavour si vide a un pelo di dover assistere alla rovina di tutta la sua politica, pensò forse anche per un momento ad uccidersi, ma la sua fibra meravigliosamente forte di lottatore reagì su sé stessa e arrivò a incatenare la fortuna che accennava a sfuggirgli. Fu una lotta diplomatica, ma terribile, che egli dovette combattere coli' Inghilterra che aveva sa- puto conquistar l'appoggio della Prussia, e per mezzo dì questa intimorire Napoleone colla minaccia d'una guerra sul Reno, e dovette combatterla da solo perchè aveva contro, o almeno tutt'altro che favorevoli, i di- 320 CAPITOLO IX. plomatici francesi, gli stessi ministri dell'Imperatore; eppure riuscì nello scopo che s'era prefisso, cioè a spin- ger l'Austria a provocare la guerra e a farlo in modo da toglierle ogni parvenza di ragione. Fu certamente aiu- tato dalla piccolezza di mente dei governanti austriaci e dalla burbanza del partito militare, ma, senza la forza del suo genio e la sua sicura intuizione degli uomini e delle cose, non era possibile aver vittoria contro diplo- matici e ministri come quelli che allora aveva l' Inghil- terra. Cavour mostrò veramente in quest'occasione di essere il più grand' uomo politico che allora fosse in Europa, perchè, ministro dirigente d' un piccolo Stato, riuscì ad imporsi alle più grandi Potenze del mondo, a piegare alla sua politica quelle favorevoli, a neutraliz- zare l'azione di quelle contrarie, a fare, insomma, quanto appariva possibile soltanto a un ministro d' un grande Stato che potesse, colla sua forza materiale, essere ar- bitro supremo della pace o della guerra nel mondo. Ci manca lo spazio per narrare distesamente questa campa- gna diplomatica, ci limiteremo ad accennarla per sommi tratti. Il Gabinetto di Lord Derby, nel mentre faceva ogni sforzo per rimuovere l'Imperatore dall'idea della guerra, chiese a Cavour una specie di memorandum sui desiderii delle popolazioni italiane soggette all'Austria e al Papa per vedere di indurre l'Austria a soddisfarli, e Cavour, sicuro che l'Imperatore voleva fermamente la guerra, vi aderì, ma, naturalmente, il governo austriaco non si mostrò disposto a prenderlo in seria considera- zione e proseguì i suoi preparativi guerreschi. Improv- visamente le disposizioni di Napoleone apparvero cam- biate. Il suo ministro Walewski era riuscito a persuaderlo, almeno in apparenza, dell'opportunità di aderire alla CAPITOLO IX. 321 politica inglese, e perciò apparve in questo senso un comunicato ufficiale nel Moniteur del 4 marzo. Questo non fece grande impressione su Cavour; infatti, mentre consigliava al Re di scrivere personalmente all'Impera- tore lagnandosi della sua condotta incerta, sottoponeva alla sua firma un decreto che chiamava sotto le armi i contingenti. La sera stessa del giorno in cui il decreto era uscito, giungeva al ministro inglese a Torino un dispaccio ufficiale da Vienna, nel quale Lord Cowley lo assicurava che l'Austria non aveva alcuna intenzione di aggredire il Piemonte. In base a questo dispaccio il mi- nistro chiedeva a Cavour di sospendere la chiamata dei contingenti, ma ne aveva un rifiuto. Intanto Napoleone, che nel suo segreto desiderava che la guerra scoppiasse, ma anche avrebbe voluto che ritardasse, per cercare in- tanto di renderla popolare in Francia, ed impedire la possibilità d' un accordo tra l'Austria e l'Inghilterra, sug- gerì alla Russia di farsi iniziatrice d' un Congresso delle grandi potenze per regolare le questioni del giorno. Egli, naturalmente, sperava che il Congresso non riu- scisse a nulla ; si sarebbe quindi imposta la guerra che si sarebbe potuta combattere, oltre che in Italia, anche sul Reno e perciò sarebbe stata meglio apprezzata dal- l'opinione pubblica fiancese. L'Inghilterra, per quanto si fosse accorta che la proposta del Congresso non era fatta in buona fede, vi aderì e fece ogni sforzo per in- durre anche l'Austria ad accettarla. Il cancelliere au- striaco acconsentì ponendo due condizioni: 1° che non si discutessero mutamenti territoriali; 2° che, prima della riunione, la Sardegna disarmasse e pigliasse impegno di rispettare tutti i trattati territoriali esistenti. Quando giunse il 18 marzo la notizia a Torino che stava per Cavour. 21 322 CAPITOLO IX. riunirsi un Congresso europeo, dal quale, essendovi in- vitate le sole grandi potenze, il Piemonte sarebbe escluso, Cavour ne fu turbato e mise ogni mezzo in opera per im- pedire che questo accadesse. INIentre Vittorio Emanuele e Cavour insistevano per ciò, 1' Inghilterra cercava di indurre l'Imperatore ad accettare le condizioni poste dal- l'Austria, e quindi indurre il Piemonte al disarmo. Na- poleone invitò Cavour a recarsi a Parigi e, nello stesso tempo, incaricava il suo ministro a Londra di dichiarare che accettava in massima quelle condizioni, ritenendo però opportuno di non far parola per ora del disarmo. Cavour arrivato a Parigi il 26 marzo ebbe due colloquii, uno col Walewski, l'altro coli' Imperatore; del primo il Chiala dà notizie precise, desimiendole da quelle rife- rite nella vita del Principe Consorte di H. Martin, del secondo non si hanno ragguagli che in un dispaccio di Lord Cowley a Lord Malmesbury. Al Walewski, che gli parve risoluto a tentare ogni mezzo per distogliere 1' Imperatore dalla guerra, Cavour rispose svelando quanto era passato tra lui e Napoleone, e che questi aveva tenuto nascosto al suo ministro; gli disse che aveva documenti scritti in mano per provare che spet- tava all' Imperatore, e non a lui, la responsabilità d'aver destate speranze di guerra in Italia. Dopo che si era su- scitato, per suggerimento e consiglio dell' Imperatore, il movimento nazionale e incontrate spese enormi, egli non poteva più rimanere al governo se la Francia lo abbando- nava. Sarebbe tornato a Torino, avrebbe dato le dimis- sioni che sarebbero state seguite dall'abdicazione del Re, e se ne sarebbe andato in America dove avrebbe pub- blicati i documenti comprovanti la mancanza di fede dell'Imperatore. Con questo poi, e con Lord Cowlej^, CAPITOLO IX. 323 che vide dopo, si mostrò irremovibile nel rifiutare ogni proposta di disarnao e nel reclamare la ammissione al Congresso. Non partì però da Parigi, per non abbandonare la par- tita prima che fosse assolutamente perduta, si abboccò coi capi dell'emigrazione magiara per un'eventuale in- surrezione ungherese, e novamente parlò il 29 marzo coir Imperatore e con Walewski riportandone la convin- zione, come scrisse al La Marmora, che la guerra era ine- vitabile, che solo sarebbe ritardata e che si sarebbe com- battuta contemporaneamente sul Reno e sul Po. E ciò perchè egli aveva in mano tanto da esercitare una in- fluenza decisiva sull' Imperatore, come aveva detto a Walewski e come era noto all' Inghilterra. Ma era evi- dente che, in queste condizioni, la guerra appariva peri- colosa e sarebbe stata combattuta dalla Francia contro voglia, e perciò era necessario che il Piemonte facesse i più grandi sforzi. « Les Frangais, entraìnés contre leur gre, ne nous pardonneront jamais si la plus grande partie des poids de l'entreprise tombe sur leur dos. Malheur à nous, si nous triomphons uniquement au moyen des Fran- ^ais. Ce n'est qu'en nous battant mieux qu'eux, qu'en mettant sous les armes des forces supérieures aux leurs, dans le cas de la guerre generale, que nous sauverons notre pays. » Tornato a Torino il 1° aprile e accoltovi da una dimostrazione popolare entusiastica, sorsero nuove difficoltà per la guerra anche nei termini sopradetti, meno vantaggiosi al Piemonte di quelli sperati e fissati. L' In- ghilterra insistette presso l'Austria, perchè non facesse una questione sine qua non, per l'adesione al Congresso, del disarmo del Piemonte. Avuto un rifiuto, propose che i due eserciti, il piemontese e l'austriaco, si ritiras- 324 CAPITOLO IX. sero a un'eguale distanza dalla frontiera; prevedendo un nuovo rifiuto, che infatti non tardò ad avverarsi, propose alla Francia che, insieme alle tre altre grandi potenze, facesse un invito collettivo al Piemonte di di- sarmare; il governo francese dichiarò che avrebbe po- tuto aderire purché uguale invito si rivolgesse anche al- l'Austria, ma questo non era possibile che fosse accettato e quindi non se ne fece nulla. Con quella tenacia, che è una caratteristica nazionale, il governo inglese non si diede per vinto, propose il disarmo generale delle grandi potenze, compresa la Sardegna, prima che si riunisse il Congresso. La Francia aderì, purché i particolari del disarmo stesso fossero discussi nella prima seduta del Congresso, e questo perché l'Imperatore era informato da Cavour dei movimenti dell'esercito austriaco e vo- leva avere il tempo di preparare a marciare alcune di- visioni. L'Austria non accettò la proposta francese, in- sistette sul disarmo preventivo della Sardegna, oppure sul disarmo generale da effettuarsi completamente prima del Congresso. La Francia, vivamente pregata dall' In- ghilterra, dichiarò che avrebbe disarmato prima della riunione del Congresso, ma anche che non voleva invi- tare la Sardegna a farlo. E allora il ministro inglese telegrafò a Torino insistendo perchè il governo piemon- tese accettasse il disarmo. Cavour prese tempo a rispon- dere, poi dichiarò risolutamente che non accettava il di- sarmo : « Mieux vaut tomber vaincus les armes à la main que de nous perdre misérablement dans l'anarchie. » Poiché il gabinetto inglese sospettava che questa resi- stenza del Piemonte fosse consigliata dalla Francia, l'Im- peratore, a togliere ogni dubbio sulla sua buona fede, fece dire dal suo ministro all'ambasciatore inglese che CAPITOLO IX. 325 la Francia consentiva a consigliare il disarmo alla Sar- degna, purché tutti gli Stati italiani fossero invitati a mandare rappresentanti al Congresso con autorità eguale a quella delle grandi potenze; e questa proposta fu ac- cettata dall' Inghilterra che cercò di avere l'assenso ad essa anche dell'Austria, la quale, però, continuava i suoi armamenti e proseguiva i negoziati solo per guadagnar tempo. Non era possibile, del resto, che la proposta fran- cese fosse accettata, sia perchè gli Stati italiani, meno il Piemonte, per suggestione dell'Austria, avevano rifiu- tato d' intervenire al Congresso, sia anche perchè era inammissibile che gli Stati di second'ordine avessero in un Congresso diritti pari a quelli di prim' ordine. Per ciò, convinta l'Inghilterra che mai le grandi potenze vi avrebbero aderito, e avendo saputo che l'esercito au- striaco era già in marcia per passare la frontiera, fece un ultimo sforzo in prò della pace, e riuscì ad avere l'assenso della Francia su questi punti : 1° disarmo effettivo simultaneo e prima del Con- gresso ; 2" commissione di ufficiali superiori per effettuarlo ; 3" ammissione degli Stati italiani nelle stesse con- dizioni che a Laybach nel 1821. La Francia aderì anche ad imporre, insieme all' In- ghilterra, l'accettazione di queste condizioni al Piemonte. Massimo D'Azeglio, che era a Londra in missione straor- dinaria, non aveva trovato nulla a ridire su queste condi- zioni, che, considerate, per rispetto alla politica generale, non implicavano nessun danno morale o materiale pel Piemonte ; ma, per rispetto alla politica italiana, sopra- tutto riguardo al movimento da Cavour preparato in tutta Italia, alle speranze date, alle promesse fatte, la 326 CAPITOLO IX. cosa era molto diversa, l'accettarle significava rinnegare tutta l'azione precedente, cambiare radicalmente poli- tica, dar ragione ai mazziniani e quindi condurre a ro- vina, molto probabilmente, la monarchia piemontese. Questo vide Cavour, quando gli fu comunicata l' in- timazione, e fu allora che, dopo aver risposto che il governo del Re la subiva e accettava, « tout en pré- voyant que cette mesure pourra avoir des conséquences fàcheuses povir la tranquillité de l'Italie, » pensò, dicono alcuni suoi biografi, al suicidio. Noi, a questo proposito, osserviamo che certamente Cavour rimase molto impres- sionato nel ricevere quell' intimazione che gli era giuoco- forza accettare, sebbene, se avesse avuta l'adesione an- che dell'Austria, significava la rovina completa della politica fino allora da lui seguita, ma, con pari certezza, al suo spirito apparve ben presto l'impossibilità per l'Au- stria di accettare il disarmo che, per lei pure, avrebbe significato, massime di fronte alle popolazioni italiane, una grande umiliazione. Cedere, pel Piemonte, a un im- perioso consiglio della Francia e dell'Inghilterra poteva essere doloroso, ma non umiliante, data la sproporzione enorme che esisteva tra le sue forze e quelle dei due Stati; poteva, tutt' al più, anche indurre la persuasione che la politica che aveva adottata era stata temeraria o avventata, ma per l'Austria grande potenza era altra cosa, avrebbe implicitamente significato una confessione di grande debolezza. E questa confessione avrebbe pro- dotto tristissimi effetti nell' Ungheria non ancora pa- cificata e nell'Italia fremente. Se poi si rammentino le parole gravide di minaccie che conteneva il telegramma d'accettazione del disarmo: « tout en prévoyant que cette mesure pourra avoir des conséquences fàcheuses etc. » CAPITOLO IX. 327 che indicavano la possibilità di moti rivoluzionarii che avrebbero minacciata la pace e l'ordine, le quali non furono certo messe a caso, si ammetterà che se Cavour ebbe un momento di scoramento, non disperò mai nep- pure in quella grave congiuntura, e perciò gli accenni a un possibile suicidio, se mai furono da lui fatti, come pare, non rappresentavano che una condizione momen- tanea, fugace del suo animo, non una crisi grave che attraversasse e fosse tale da lasciar traccie. Forse an- che insistette nel mostrare un profondo abbattimento, per impedire che i suoi colleghi del Ministero e il Re finissero per acconciarsi all' idea del disarmo senza troppo protestare. Napoleone III aveva accettato di fare la proposta in- sieme all'Inghilterra perchè era sicuro che l'Austria non vi avrebbe mai aderito e questo suo convincimento co- municò a Cavour, contribuendo così non poco a tran- quillarlo, col provargli che, a trovar modo d'uscir dal- l'impaccio, sarebbe stato aiutato anche dall'Imperatore. Il cancelliere austriaco, al quale i ministri di Francia e d' Inghilterra avevano partecipato che il Piemonte ade- riva al disarmo, si limitò a dichiarare, il giorno 20 aprile, che l'Austria non poteva accogliere nessuna proposta che racchiudesse la ammissione degli Stati italiani al Congresso. Agli ambasciatori di Inghilterra, di Russia e degli Stati tedeschi poi dichiarò che, nella sera ante- cedente, aveva dato incarico ad un ufficiale di recare al Conte di Cavour l'intimazione di congedare i volontarii e di rimettere l'esercito sul piede di pace. Era Vulti- niattim tanto aspettato e desiderato da Cavour, era il casus foederis previsto nel trattato d'alleanza colla Fran- cia, l'Austria si faceva provocatrice, si avverava la pre- 328 CAPITOLO IX. dizione che il grande ministro aveva fatto a Lord Russel : « Io saprò indurre l'Austria a dichiararci la guerra. » L'Inghilterra fece gli ultimi sforzi, cercò di indurre Cavour a non respingere in modo assoluto V ultimatum austriaco, e questo le rispose che, non conoscendone ancora il tenore, non poteva prendere alcun impegno; cercò di far pressione sull'Austria perchè sospendesse rinvio o, almeno, desse ordine al generale in capo del- l'esercito d' Italia di non fare movimenti di truppa e di non indirizzare loro proclami bellicosi ; tutto fu inutile; il cancelliere austriaco dichiarò nettamente che il suo Imperatore non poteva più recedere neppure dinanzi al pericolo di perdere le simpatie dell'Inghilterra, neppure dinanzi alle sue proteste per quanto energiche, ed era vero ; tanto più che Napoleone III e Cavour, procedendo in perfetto accordo, avevano dato e davano la massima pubblicità alle notizie che preannunciavano, e poi assi- curavano, i rifiuti dell'Austria, e quindi tagliavano ogni via onorevole di ritirata. L'audacia degli alleati in quei giorni era tale che Massimo D'Azeglio, il quale era sem- pre a Londra, ne pareva impensierito, temendo, come dice suo nipote il marchese Emanuele, che potesse avere cattivi risultati. Quando Cavour fu sicuro del giorno e dell'ora in cui sarebbero arrivati da Milano i messi imperiali latori dell '«//«««/«;«, cioè il 23 aprile, convocò, per quel me- desimo giorno, in seduta straordinaria la Camera, per sottoporle la proposta di accordare al Re pieni poteri. Dopo aver detto che il Piemonte aveva aderito alla pro- posta del Congresso e al disarmo, per amore della pace, a condizione che l'Austria pure l'avesse accettata, ac- cennava al rifiuto dell'Austria e alla risoluzione che CAPITOLO IX. 329 aveva presa di intimare al Piemonte il disarmo e il con- gedo dei volontarii. Questa intimazione doveva esser respinta e ognuno capiva quali dovessero essere le con- seguenze del rifiuto. « In questa condizione di cose, in presenza dei gravi pericoli che ci minacciano, il governo del Re credette suo debito di presentarsi senza indugio al Parlamento e di chiedergli quei poteri che reputa ne- cessarii a provvedere alla difesa della patria.... In que- ste circostanze le disposizioni prese da S. M. 1' Impe- ratore dei Francesi sono per noi ad un tempo e un conforto e un argomento di riconoscenza. » E, dopo aver detto che confidava la Camera avrebbe accettata la proposta del Ministero, soggiungeva riferendosi al Re: « Chi può esser miglior custode delle nostre libertà ? Chi più degno di questa prova di fiducia della nazione ? Egli, il di cui nome dieci anni di regno fecero sinonimo di lealtà e di onore, egli che tenne sempre alto e fermo il vessillo tricolore italiano, egli che ora si apparecchia a combattere per la libertà e l' indipendenza. » La Ca- mera si riunì immediatamente negli ufficii per esami- nare la legge; alle 3 pomeridiane fu riaperta la seduta e, dopo breve discussione, la legge fu approvata con no voti favorevoli e 24 contrarii. Nel momento in cui veniva proclamato l'esito della votazione, giunse notizia a Cavour che gl'inviati austriaci erano arrivati alla sta- zione. Cavour a quest'annunzio uscì dalla Camera di- cendo : « Esco dalla tornata dell'ultima Camera piemon- tese ; la prossima sarà quella del Regno d' Italia. » Poco dopo, alle 5 ^4 , riceveva il barone di Kellersberg e il conte Ceschi di Santa Croce che gli rimisero la lettera del cancelliere austriaco che conteneva Vultiinatuin, termine perentorio alla risposta tre giorni. Letta la lettera, Ca- 330 CAPITOLO IX. vour, cavato di tasca l'orologio, osservò che erano le 5 1/2. diede quindi appuntamento agli inviati imperiali fra tre giorni alla stess'ora. Poi, rimasto solo, telegrafò all' Im- peratore il testo della lettera ricevuta, e questi, nella sera stessa, adunato il Consiglio dei ministri, ordinò che cominciassero immediatamente i movimenti delle sue truppe verso la frontiera piemontese. Nei tre giorni che l'Austria aveva lasciato al Piemonte per disarmare, l' In- ghilterra fece gli ultimi disperati tentativi per impedire la guerra, reiterando proteste, insieme alla Russia e alla Prussia, presso il Gabinetto di Vienna, e infine inviando il suo ministro di Berna al campo austriaco per indurre il maresciallo Giulay a non iniziare le ostilità. Tutto fu inutile, la guerra era decisa, né forza umana poteva più impedirla; i tentativi dell' Inghilterra erano riusciti, per quanto diretti contro la causa italiana, ad uno scopo utile per l'Italia; avevano, cioè, molto diminuita l'ami- cizia inglese per l'Austria, avevano novamente isolata questa, costringendola a provocare la guerra e a com- batterla da sola. Il 26 aprile, prima che spirasse il ter- mine fissato per la risposta, il Senato all' unanimità vo- tava la legge dei pieni poteri ; Cavour aveva ricevuto l'annunzio che le prime colonne francesi avevano pas- sata la frontiera ; il generale Frossard, dopo essersi mo- strato per Torino in divisa, si era recato a Chivasso a esaminare i lavori di difesa fatti dal genio piemontese, e in quello stesso giorno, respinti in una forma cortesissima gli ultimi consigli pacifici dell' inviato inglese, Cavour consegnava al barone di Kellersberg la risposta piena- mente negativa aXVtdtimattim, si congedava dagli inviati austriaci, e, fregandosi le mani com'era solito fare, si ri- volgeva agli amici presenti con queste parole : « Alea CAPITOLO IX. 331 jacta est. Nous avons fait de l'histoire et maintenant al- lons dìner. » L' Inghilterra, non ancora del tutto persuasa dell'inutilità dei suoi sforzi per evitare la guerra, fece un ultimo tentativo offrendo la sua mediazione ; il cancel- liere austriaco l'accettò, ma, di fronte alla pubblicità che Cavour diede alla sua risposta bellicosa, l' imperatore Francesco Giuseppe troncò gl'indugi e, con un manife- sto ai suoi popoli, indisse la g.uerra. Nello stesso giorno Vittorio Emanuele indirizzava il celebre proclama ai po- poli del Regno e a quelli d'Italia e, pochi giorni dopo, Napoleone solennemente si metteva a capo dell'esercito d' Italia. X. La guerra dal punto di vista diplomatico si presen- tava sotto buoni auspicii per gli alleati; l'Austria era isolata, non poteva contare che sull'appoggio di alcuni piccoli Stati germanici, che la Russia e 1' Inghilterra s'erano incaricate di tenere a posto ; la Prussia aveva bensì mobilizzato alcuni corpi d'esercito, ma non certo per venire in aiuto dell'Austria, bensì solo per garan- tire, in ogni evenienza, l'integrità del suolo germanico; non si presentava ugualmente favorevole sotto l'aspetto militare perchè la Francia non era pronta, ma il perì- colo, che da questa impreparazione poteva venire, fu evitato, mercè l' inabilità del comandante austriaco, che non si mosse quando poteva facilmente sfondare l'eser- cito sardo e marciare su Torino. Il piano di agitazione formato da Cavour per met- tere in rivoluzione tutta l'Italia centrale cominciò, ap- pena certa la guerra, ad attuarsi, e molto vi concorse 332 CAPITOLO IX. la società nazionale che egli, con molta abilità, guidava, lasciandone in apparenza la direzione al Lafarina, che a poco a poco si persuase seriamente d'esserne proprio lui l'inspiratore, e, oltre alla società nazionale, molto vi concorsero gli amici che Cavour s'era procacciati dap- pertutto. Il programma per i Ducati e le Romagne era questo : appena le necessità della guerra avessero richia- mati al campo i presidii austriaci, insorgere, costituire governi provvisorii, ma regolari, ordinare truppe, in- viarle al campo e proclamare la ferma volontà di unirsi al Piemonte. Questo programma fu scrupolosamente at- tuato, ma, prima anche che ciò avvenisse, la Toscana, per suo conto, impresse un indirizzo più energico e de- terminato al movimento italiano. Cavour non poteva mettersi contro in modo diretto al Granduca, né pre- pararne la caduta; l'autonomia toscana interessava l'Eu- ropa, il governo del Granduca, nonostante il suo anda- mento austriacante e la fede violata dopo il 1848, era incontestabilmente migliore degli altri governi italiani e aveva, almeno in apparenza, ima larga base nel popolo; inoltre v'era una stretta parentela tra Vittorio Emanuele e il ramo degli Absburgo regnante a Firenze, il quale aveva cordialmente ospitato e difeso Carlo Alberto nel 1821; per tutte queste ragioni, ripetiamo, Cavour non poteva mettersi contro il Granduca e prepararne apertamente la caduta, benché non avesse alcuna simpatia né per Leo- poldo né pei suoi ministri. Avendo relazioni strette coi capi del partito liberale toscano, si servì di loro e del Boncompagni, ministro piemontese a Firenze, per at- tuare un piano molto simile a quello già fissato per la Romagna. Bisognava invitare il Granduca ad allearsi col Piemonte per muovere guerra all'Austria, cioè bisognava, CAPITOLO IX. 333 all'azione diplomatica del governo di Torino diretta a questo scopo, accompagnare un'azione popolare che si proponesse di intimare al Granduca il dilemma : o ri- voluzione, o alleanza col Piemonte e bandiera tricolore. Questo fu fatto, il Granduca e i suoi ministri insistet- tero nella neutralità, né si rimossero neppure quando il popolo adunato chiese la stessa cosa, e il 27 aprile la dinastia lorenese aveva cessato di regnare in Toscana. Fu istituito un governo provvisorio, che offerse imme- diatamente la dittatura a Vittorio Emanuele ; Cavour l'avrebbe volentieri accettata come un primo passo verso l'annessione, ma, per non insospettire Napoleone III, si contentò che il Re assumesse il protettorato durante la guerra, salvo a decidere dopo sulle sorti del paese. Fu delegato a esercitare gli uffici inerenti al protettorato, come commissario straordinario, il Boncompagni. Ab- biamo detto che Cavour era propenso all'annessione ed è vero ; ciò appare da parecchi tratti delle sue lettere e di quelle degli illustri Toscani che con lui avevano confi- denza, ma sopratutto si arguisce dal fatto che Bettino Ricasoli, prima di accettare di prender parte al governo provvisorio, volle abboccarsi con lui, e solo dopo que- sto colloquio accettò ; ora è certo che il Barone non vo- leva più sentir parlare della Toscanina e aveva in mente un ideale molto più alto e tutto italiano. Ma avrebbe r Imperatore mantenuto le sue promesse, avrebbe con- tinuato la guerra fino a che l'Austria avesse dovuto ab- bandonare del tutto l'Italia? Cavour lo sperava ferma- mente, ma ben presto dovette accorgersi che Napoleone non aveva la stessa fermezza di propositi, per rispetto all'Italia, del tempo di Plombières. Anzitutto le diffi- coltà della guerra erano maggiori di quelle che appari- 334 CAPITOLO IX. vano prima di cominciarla; l'esercito francese già mo- strava quei difetti e quei vizii che dovevano condurlo alle sconfitte del 1870; Napoleone aveva una cono- scenza teorica profonda dell'arte della guerra, ma non le qualità d' un comandante in capo : gli mancavano il colpo d'occhio, il sangue freddo, l'impassibilità di- nanzi alla morte, la vista d' un campo di battaglia lo im- pressionava fortemente, e, da ultimo poi, egli sentiva che in ogni battaglia, piìi che la vittoria o la sconfitta del suo esercito, era in giuoco la sua corona. Gli eser- citi alleati vincevano, ma Napoleone aveva troppa finezza d' intuito per non capire che massimi coefficienti della vittoria erano il valore dei soldati e gli errori del ne- mico, non la sapienza della direzione ; e ogni vittoria assottigliava il suo esercito, mentre la guerra eccitava lamenti in Francia per le perdite che causava, e da Pa- rigi r Imperatrice e i ministri insistevano che facesse pace perchè la Prussia e gli altri Stati germanici mi- nacciavano sulla frontiera del Reno. Questi i motivi che indussero Napoleone alla tregua e quindi alla pace di Villafranca, ma forse altri se ne aggiunsero dei quali importa far cenno. Nel fatto egli dovette accorgersi che in Italia non avrebbe potuto eser- citare quell'alta e determinante influenza politica che, forse, era nei suoi intendimenti e nelle sue speranze. Cavour non gliene lasciava né il tempo, né il mezzo. Dappertutto dove il suo esercito entrava, l'autorità ammi- nistrativa e politica piemontese s'installava e assumeva le funzioni governative in nome di Vittorio Emanuele ; i generali francesi erano accarezzati, riveriti, festeggiati, ma non avevano nulla da fare oltre che curare i soldati e pensare alla guerra; neppure la polizia urbana, il ser- CAPITOLO IX. 335 vizio di sicurezza era loro lasciato. All' infuori del tea- tro della guerra, dovunque voleva spiegare la sua in- fluenza, trovava il terreno preoccupato da Cavour e dai suoi agenti. Nelle Romagne e nei Ducati si acclamava il suo nome ma si guardava solamente a Torino, e da Cavour si ricevevano inspirazioni e consigli che erano considerati come comandi. In Toscana anche peggio. Napoleone aveva pensato di fare un regno francese nel- r Italia media, nucleo principale la Toscana, per suo cugino ; qualche anno prima aveva avute profferte e as- sicurazioni in proposito, ora invece le cose erano cam- biate, nessuno degli uomini veramente influenti voleva sentir parlare d'un regno francese, e lo stesso principe Napoleone se n'era convinto al suo passaggio per la Toscana a capo del V corpo d'esercito. Quindi r Imperatore poteva certo aspirare alla gloria di liberatore d' Italia, ma era gloria in pura perdita per- chè r Italia, costituendosi, accennava, sotto la potente direzione di Cavour, a sciogliersi da ogni tutela verso il suo liberatore. Quindi a che proseguire la guerra? A che mettere in repentaglio la corona e trascurare gl'inte- ressi della Francia? Meglio era fermarsi dopo una grande vittoria, dimezzare il programma di Plombières; questo consigliava del resto l'umanità, imponeva il dovere verso la propria dinastia e il proprio paese. Di qui la tregua e poi la pace di Villafranca, che sorprese e disorientò completamente Cavour facendogli perdere, per un mo- mento, quella chiara percezione della realtà che era una delle maggiori sue doti. 336 Capitolo X. La pace di Villa/ranca. — Sue cause. — Cavour e Vittorio Emanuele di fronte ad essa. — Dimissioni di Cavour. — Sue dichiarazioni e sue azioni prima di abbandoìiare il potere. — II. I popoli e i governi dell' Italia centrale. — Azione personale del Re. — Debolezza politica del Ministero piemontese . — Ne- cessità del ritorno di Cavour al govertio. — III. Ca- vour in Svizzera. — Come egli giudica la situazione in Italia dopo la pace di Villaf ranca. — Suo ritorno in Piemonte. — Suoi rapporti col 3IÌ7iistero. — Ac- cetta V iìicarico di rappresentare il Piemonte al Con- gresso. — Mutameìito della politica francese. — Non si riunisce piii il Congresso . — Dimissiofii del Mini- stero Rattazzi. — Ritorno di Cavour al governo. — IV. Circolare agli age^iti diplomatici del 27 gennaio. — Nuovi ostacoli e tergiversazioni di Napoleone . — Sono fissati i plebisciti. — Resultato di questi. — Trattato segreto del 12 viarzo per la cessione di Nizza e Sa- voia. — Perchè fu necessaria questa cessione. — • Trattato pubblico del 24 marzo. — Quali conseguenze per V Italia Cavour pensa di trarre dalla cessione. — Primo dissidio con Garibaldi. — Discussione alla Camera del trattato del 24 marzo. — Discorso di Ca- vour. — ■ V. Spedizione dei Mille. — Cavour e Vitto- rio Ematiuele rispetto a questa. — Aiuti di Cavour alla spediziofte. — Condotta diplomatica di questa. — Giudizio su di essa. — VI. Garibaldi a Napoli. — Intrighi contrarii all'annessione. — Pericoli d' una reazioìie borbonica. — Cavour delibera la spedizione CAPITOLO X. 337 delle Marche e dell' Umbria per arrivare nel Regno di Napoli. — Sconfitta dell'esercito papale. — Pro- clami di Vittorio Emanuele . — Garibaldi cede ed ordina il plebiscito. — Suo incontro con il Re. — VII. Napoleone e Cavour nella spedizione delle Marche e dell' Umbria. — Convocazione del parlamento. — Legge sull'annessione delle Provincie meridionali. — Dichiarazioìii di Cavour. — Resa di Gaeta. — Ele- zioni generali. — Trionfo di Cavour. — Legge che costituisce il Regno d'Italia. — Vili. La questione Romafia. — Idee e concetti di Cavour in ordine a que- sta. — La dottrina della libertà della Chiesa e la formula : Libera Chiesa in libero Stato. — Discorsi di Cavour in parlamento. — IX. Pensieri e idee di Cavour rispetto all' ordinamento dell' Italia e al- l'acquisto di Venezia. — Suo dissenso con Gari- baldi. — Discussione alla Camera. — Sacrificio di Cavour. — X. Morte di Cavour. — Giudizio comples- sivo sull'opera sua. I. Abbiamo accennato ai dissensi che fatalmente do- vevano avverarsi tra Napoleone III e Cavour nell'asse- stamento delle cose italiane, per la diversità degli scopi che l'uno e l'altro perseguivano. L'Imperatore voleva bensì la indipendenza dell' Italia dall'Austria e la rico- stituzione della sua nazionalità, ma. desiderava anche che non si sottraesse alla supremazia e alla influenza della Francia; invece Cavour, dal canto suo, come voleva l' in- dipendenza dall'Austria del suo paese, così intendeva che la nuova Italia fosse indipendente nella sua politica avvenire dal predominio, anche solo morale, d'ogni altra nazione, compresa la Francia stessa, e, per di più, che Cavour. 22 338 CAPITOLO X. la volontà dei popoli italiani, manifestandosi liberamente, fosse rispettata, anche se, contrariamente ai patti e ai desideri! dell'Imperatore, dovesse allargare il regno del- l'alta Italia fino a comprendere anche l' ipotetico regno centrale. Di qui il dissidio tra i due. Ma, appunto perchè Cavour voleva la piena assoluta autonomia per l' Italia e riteneva necessario che l'Au- stria fosse ricacciata del tutto oltre l'Alpi e l'Isonzo, perchè solo in questo caso lo Stato che sorgeva sa- rebbe divenuto abbastanza forte per resistere ad ogni pressione esterna, si capisce come l'annunzio di Villa- franca lo colpisse di profondo dolore. Egli, che aveva una esatta conoscenza dell' Imperatore, seguiva, con una attenzione vivissima, l'andamento della guerra, e non si lasciava sfuggire nessuno degl'intrighi della diplo- mazia; capì ben presto che difficilmente Napoleone avrebbe proseguito nelle operazioni militari se non vi fosse stato costretto, capì che avrebbe volontieri accon- disceso à une demi-paix , quando a lui se ne presen- tasse l'occasione. Perciò cercò di comprometterlo ac- cordandosi con Kossuth, per suscitare un'insurrezione in Ungheria, ad aiutare la quale l' Imperatore si era già formalmente impegnato, ma non arrivò a tempo. Napoleone colse l'occasione che la Prussia si era accordata colla Russia e l'Inghilterra per offrire una mediazione pacifica, ne esagerò le possibili conseguenze, in ciò fu molto aiutato dal governo e dalla diplomazia francese, e, dopo aver tentato inutilmente di acquistare l'appoggio dell'Inghilterra per consigliare, e, al caso, imporre la demi-paix all'Austria e al Piemonte, risolse di agire da solo. Nel fatto l'Inghilterra, che si era fino all' ultimo opposta alla guerra, capì benissimo che le CAPITOLO X. 339 proposte dell'Imperatore non sarebbero state ben ac- cette agl'italiani e quindi non avrebbero ristabilita du- revolmente la pace, perchè consistevano nel dare la Venezia e Modena a un arciduca austriaco sovrano in- dipendente, la Lombardia e il ducato di Parma al Pie- monte, la Toscana novamente al Granduca, le Legazioni mantenute sotto la sovranità del Papa ma governate da un luogotenente di Vittorio Emanuele, e tutti gli Stati italiani riuniti in confederazione sotto la presidenza del Papa. Con quel buon senso che ha sempre guidato la politica inglese, il governo della Regina vide quanto v'era d'assurdo, di chimerico in tali proposte e, inoltre, vide che l'interesse dell'Inghilterra ormai esigeva che r Italia si costituisse come pareva meglio al suo popolo ; perciò, ripetiamo, rifiutò nettamente la sua adesione, e non cedette nemmeno a nuove insistenti preghiere che gli furono rivolte alcuni giorni dopo. L'Imperatore, abbiamo detto, decise di agire da solo, e il Ghiaia osserva che a ciò fu determinato anche dal principe Napoleone, il quale, giunto al campo, s' av- vide dello stato di disgregazione in cui era l'esercito, e, per di più, forse, era irritato per la cattiva accoglienza che le prime proposte intorno alla sua candidatura al trono dell'Italia centrale avevano incontrato in Toscana. Comunque, l'iniziativa s'imponeva a Napoleone per im- pedire possibilmente che Cavour approfittasse della me- diazione allo scopo di strappare vantaggi maggiori di quelli che egli intendeva concedere, eliminando per di più r influenza della Francia. Male si segue la tortuosa poli- tica del fosco figlio d'Ortensia, politica sempre incerta ed oscillante, dalle intenzioni buone e dagli avvedimenti obliqui, che nascondevano una debolezza strana di fibra 340 CAPITOLO X. e dì volontà. Egli, vincitore, chiese pace per amicarsi l'Austria, e non vi riuscì, allo scopo di liberarsi da ogni maggiore obbligo verso l'Italia e arrivò solamente a di- minuire, e quasi a togliere, ogni sentimento di gratitu- dine verso di lui nell'animo degli italiani, pur rimanendo sempre legato alla fortuna d' Italia, impotente a danneg- giarla o ad impedirla nel suo fatale andare, costretto, volente o nolente, spesso ad aiutarla, sempre a garan- tirla nelle sue audacie rivoluzionarie. Il giorno 6 luglio, dopo aver dato ordini precisi per uno schieramento generale dell'esercito in previsione d'un nuovo attacco su tutta la linea di battaglia, ciò per ingannare tutti sulle sue reali intenzioni. Napoleone inviò il generale Fleury a Verona a proporre all'Im- peratore un armistizio per preparare la pace, minac- ciando, in caso che fosse negato, di continuare la guerra con maggiore vigore, oltre che per terra, anche per mare contro Venezia. Francesco Giuseppe, la mattina del 7, rispondeva con lettera autografa che accettava la sospensione d'armi e di ciò era dato avviso immediata- mente alle truppe e anche al Re, perchè mandasse il giorno appresso a Villafranca il suo capo di stato mag- giore a segnarne i patti, che furono infatti stabiliti la mattina dell' 8. Vittorio Emanuele, che non aveva po- tuto rifiutarsi alla tregua, dimandò però in termini ri- sentiti all' Imperatore delle spiegazioni in proposito, e questi gli rispose che, infatti, egli intendeva proporre condizioni di pace all'Austria, ma era molto dubbio che fossero accettate perchè non variavano i patti già fis- sati tra il Piemonte e la Francia, e quindi la tregua era utile perchè permetteva di accrescere gli eserciti portando l'effettivo dei francesi a 200,000 uomini, men- CAPITOLO X. 341 tre quello piemontese doveva arrivare a 100,000 soldati presenli. 1-; Vittorio Emanuele, tranquillato da queste dichiara- zioni, comunicò la notizia ai suoi generali e la fece telegrafare a Cavour. Intanto Napoleone mandò una nuova lettera a Francesco Giuseppe invitandolo a in- viare persona di fiducia a Yaleggio per fissare i prelimi- nari di pace. Questo fu fatto, ma, com'era facile imma- ginare, i negoziatori non poterono mettersi d'accordo e allora, con una nuova lettera. Napoleone chiese un ab- boccamento personale a Francesco Giuseppe, che fu subito concesso e fissato a Villafranca per la mattina dell' II. L'Imperatore di Francia sperava di indurre Francesco Giuseppe ad accettare quei patti che aveva proposti all'Inghilterra come base della mediazione di questa, ma era naturale che trovasse nel Sovrano au- striaco un' invincibile resistenza. Chiedendo la tregua, proponendo la pace, Napoleone appariva al nemico, non come vincitore che detta patti, ma come vinto che li chiede, rivelava troppo la sua tendenza verso la pace, autorizzava l'avversario a credere che gli fosse neces- saria e quindi era naturale che questo se ne prevalesse. D'altra parte Napoleone, pel suo carattere debole e sentimentale, non poteva a lungo resistere alle richieste dirette d'un grande Sovrano, egli che, dopo tutto, era un « parvenu » tra i regnanti e doveva il trono a un colpo di Stato. Anche il suo grande zio, che pur aveva altra fibra, era stato invischiato dai Sovrani di razza, tanto più doveva esserlo lui molto minore di quello. Ricordiamo che in occasione dell'attentato Orsini aveva bastato una lettera fiera di Vittorio Emanuele, rammen- tante che i Savoia da S50 anni portavano la testa alta. 342 CAPITOLO X. per abbonirlo ; era quindi inevitabile che cedesse di- nanzi all'erede degli Absburgo. E così avvenne; i pre- liminari della pace fissati in quel colloquio contenevano il riconoscimento d' una confederazione italiana presie- duta dal Papa, e inoltre era stabilito che l' Imperatore d'Austria cederebbe a quello dei francesi la Lombardia, meno Mantova e Peschiera, e questo la passerebbe al Re di Sardegna; che la Venezia entrerebbe nella confe- derazione italiana, però rimanendo unita alla Corona d'Austria, che il Granduca di Toscana e il Duca di Mo- dena rientrerebbero nei loro Stati, che i due Impera- tori avrebbero insieme dimandato al Papa di attuare le riforme indispensabili al miglioramento del suo go- verno. Non si fece parola del Ducato di Parma e Pia- cenza, ma rimase inteso tra i due Imperatori che nes- suna opposizione si sarebbe mossa all' unione sua al Piemonte. Quando Napoleone tornato a Valeggio diede lettura di questi preliminari a Vittorio Emanuele, que- sti, vivamente indignato, rimproverò all'Imperatore di averlo ingannato e accennò a proseguire la guerra da solo. Ma, l'Imperatore avendogli risposto che in questo caso avrebbe potuto avere contro due nemici invece d' uno solo, Vittorio Emanuele si calmò e, con quel profondo intuito politico che era sua caratteristica, pensò già al profitto che si poteva trarre da quei preliminari senza disgustare e irritare il potente alleato. Infatti, come è noto, aderì poi ad essi aggiungendo alla sua firma quella famosa frase: en ce qui me concerne che significava che li accettava solamente negli utili, non nelle disposizioni che non lo riguardavano direttamente, e con questo si riservò piena libertà d'azione nelle cose d'Italia. Cavour, saputo dei preliminari, piombò come CAPITOLO X. 343 un fulmine a Monzambano, dove era il quartiere ge- nerale del Re. Sospettava già che l'armistizio militare nascondesse trattative di pace; si era recato per since- rarsene a Desenzano, qui apprese la verità e ne fu in- dignatissimo. A Monzambano ebbe un colloquio col Re: non se ne conosce esattamente il tenore, ma pare che fosse molto, troppo vivace ; e si ha fondata ragione per credere che Cavour mancasse di rispetto al Re, tanto da indurre questi a voltargli le spalle. Il grande mi- nistro, evidentemente, era in preda a una collera così violenta che gì' impediva di rendersi conto della realtà delle cose. Avrebbe voluto che Vittorio Emanuele non accettasse i preliminari, che ritirasse le sue truppe dalla Lombardia, che abdicasse, cose queste irragionevoli e che si spuntarono contro il buon senso del Re, e che, del resto, appena un po' calmato, Cavour stesso rico- nobbe assurde. Se egli eccedette, si deve convenire che personalmente ne aveva fondato motivo. Napoleone III mancava a promesse formali, tradiva la causa italiana, lasciava lo straniero in Italia. Il Re certamente allar- gava i suoi dominii, ma come avrebbero potuto fare i suoi antecessori, attuando la politica dinastica del car- ciofo, non la politica nazionale che da dieci anni si se- guiva, per la quale il Piemonte aveva combattuto in Crimea, Cavour aveva perorato in parlamento e nel Congresso di Parigi, e per la quale anche aveva pre- parato la rivoluzione regia in tutta la penisola. Cavour poi, personalmente, era colpito. Egli aveva fatta l'al- leanza francese, aveva compromesso il Piemonte, si era lanciato contro Mazzini e i mazziniani, aveva garantito che tutta Italia sarebbe stata libera dal dominio stra- niero. Egli, quindi, era personalmente tradito, offeso. 344 CAPITOLO X. ferito politicamente a morte. Perciò la sua indignazione non solo si spiega, ma anche si giustifica. Si noti però che, appena tornato a Torino e date le dimissioni che gli erano imposte dall' impossibilità morale di rendersi responsabile dei patti di Villafi'anca, e anche dal suo violento dissenso col Re, prima di abbandonare il go- verno riprese, se non la calma, la esatta percezione della realtà delle cose. Presente Kossuth, il grande un- gherese, a Pietri uomo di fiducia di Napoleone, il Conte disse: « Cette paix ne se fera pas. Ce traité ne s'exé- cutera pas. Je prendrai par une main Solaro della Mar- gherita, par l'autre Mazzini, s'il le faut. Je me ferai con- spirateur. Je me ferai révolutionnaire. Mais ce traité ne s'exécutera pas. Non! mille fois non! Jamais! Jamais! » E infatti, meno che per la Venezia, il trattato non s'ese- guì. Non si restaurarono i principi cacciati, non si fece la confederazione, si arrivò invece all'unità. Egli ab- bandonò per pochi mesi il governo, ma la sua politica non cessò un istante di inspirare l'Italia. Prima di la- sciare il Ministero, inviò istruzioni ai liberali dell' Italia centrale che lo stesso Saffi è costretto a dire degne di Mazzini. Non solo erano degne, ma migliori di quelle che avrebbe potuto dare il grande genovese. Nel mentre che, come ministro, telegrafava ai commissari regi di Modena, Bologna e Firenze, di lasciare il posto, come cittadino incitava alla resistenza contro ogni restaura- zione, magari colle armi. Massimo D'Azeglio abbandonò Bologna, e fu minore di sé stesso ; ma Carlo Farini rimase a Modena al suo posto, giurando che, lui vivo, il Duca non sarebbe ritor- nato ; unì poi sotto la sua potente direzione Parma e Bo- logna, chiamò Gari'oaldi e fu dittatore audace e sapiente. CAPITOLO X. 345 come se Cavour seguitasse a inspirarlo e a guidarlo, come se i patti di Villafranca non avessero esistito. Bet- tino Ricasoli assunse il governo a Firenze, dichiarando che avrebbe fatto saltare Palazzo Vecchio prima di per- mettere al Granduca di tornare, e resse la Toscana per preparare 1' unità. Cavour aveva trovato interpreti degni di lui, essi lo sostituirono, la sua politica apparve trion- fante mentre egli era caduto dal potere, e quando, per compiere 1' unità e per imporla all' Europa, fu necessa- rio il suo ritorno al governo, potè, nocchiero impavido e sicuro, farlo continuando, non correggendo, l'opera dei governanti e del popolo dell' Italia centrale. IL Realmente non i soli governanti, ma il popolo tutto, massime nelle classi dirigenti, dell' Italia centrale si mo- strò compenetrato della politica cavouriana e la seguì, senza cedere a lusinghe o a minacele di sorta. Fu com- preso che, per quanto Napoleone avesse nei preliminari di Villafranca accettata la restaurazione del Granduca e del Duca, poiché non vi era nessuna clausola che l'ammet- tesse anche, se necessaria, in forma coattiva, quella re- staurazione, quando non fosse voluta dai popoli, non poteva avvenire. Un intervento austriaco non era possi- bile, avrebbe contradetto alla lettera e allo spirito dei preliminari e non poteva esser permesso da Napoleone perchè avrebbe significato il ristabilimento del predomi- nio dell'Austria nella penisola. L' intervento si sarebbe imposto nel solo caso che queste provincie dell' Italia cen- trale piombassero nell'anarchia o nel disordine, ma poi- 346 CAPITOLO X. che il senno del popolo e l'energia dei governanti impedi- vano che ciò accadesse, ogni probabilità di coercizione esterna svaniva. Un solo intervento sarebbe stato legit- timo, quello del Papa, per riacquistare le legazioni, ma, oltre che Farini aveva saputo riunire una forza sufficiente ad impedirlo in ogni caso, lo Stato pontifìcio non aveva un esercito di cui disporre, e la Francia, pel fatto che presidiava Roma, non lo avrebbe permesso, perchè, sia pure solo in via indiretta, vi avrebbe partecipato essa stessa. Sicure che né l'Austria, né altre potenze sareb- bero intervenute, le provincie dell' Italia centrale dove- vano riordinarsi, distruggere ogni vestigio delle domi- nazioni cessate, rendendone così, anche nei rapporti amministrativi e sociali, impossibile la restaurazione, e manifestare chiaramente la loro volontà. Questo infatti fecero e la loro volontà apparve reiteratamente sempre la stessa: unione, non al Piemonte, ma alla monarchia italiana di Vittorio Emanuele. Ma, poiché questi voti s'infrangevano contro il veto della Francia, bisognava non scoraggiarsi e perseverare in essi fino che potes- sero essere accettati. Questa costituiva la maggiore dif- ficoltà che solo con una grande saviezza e una grande e sicura coscienza potè essere superata. Nel fatto, il veto della Francia si accompagnava a pressioni della Fran- cia stessa, a consigli di altre potenze che tendevano a persuadere la costituzione d' un regno centrale indipen- dente, il quale trovava anche appoggio nelle tendenze autonomiste radicate massime in Toscana, e si presen- tava come un mezzo pratico per uscire dal provvisorio e impedire, in modo definitivo, le restaurazioni temute. Pure anche questo pericolo fu superato, e in ciò alla fermezza eroica dei governanti e alla fiducia del popolo CAPITOLO X. 347 si unì, con importanza determinativa, l'azione personale del Re. Vittorio Emanuele in quest'occasione spiegò veramente ingegno, intuito, audacia e accortezza di grande Sovrano. Egli seppe tener desta la fiducia, in- spirare la sicurezza, sventare gì' intrighi, impedire le decisioni precipitate, non pregiudicare, e insieme pre- parare, l'avvenire. E fu azione sua personale, quindi più segreta che palese, ma efficacissima appunto perchè si svolgeva al difuori e al disopra di quella del suo go- verno responsabile. Il quale appariva incerto, oscillante, impari sempre più alla gravità della situazione. Il Rattazzi, presidente del Consiglio dei ministri, avrebbe voluto imitare l'audacia sapiente e prudente di Cavour, ma perciò gli mancavano la vastità e l'acu- tezza dell'ingegno, la chiarezza dell'intuito e, sovrat- tutto, la grande autorità politica. Napoleone da Cavour finiva per essere dominato, i diplomatici, dinanzi a que- sto, sentivano di essergli inferiori, lo temevano e lo ri- spettavano, perchè sapevano che, se costretto a cedere su un punto, si sarebbe rivalso su un altro punto più importante; ma con Rattazzi era altra cosa. Napoleone parlava alto e forte, da padrone, i diplomatici davano consigli con aria di superiorità, né lo statista d'Ales- sandria sapeva come difendersi, né rivalersi ; il suo in- gegno sottile, ma sofistico, le sue attitudini curiali non lo soccorrevano in ciò, e, poi, egli non aveva tempe- ramento né coscienza di dominatore, non sapeva im- porsi con quella forza, si direbbe magnetica, che pos- siede il genio, il quale avvince e piega al suo volere gli uomini e la fortuna. Di qui la debolezza, la deficienza del governo pie- montese, alla quale alla lunga non potevano sopperire 348 CAPITOLO X. né l'azione del Re, né il senno e la prudenza dei go- vernanti e dei popoli dell' Italia centrale. Questi pote- vano bastare per impedire le restaurazioni, per pro- lungare lo stato provvisorio, per preparare l'unione, ma non per determinarla in un fatto concreto, per imporla e farla riconoscere, con tutte le necessarie conseguenze, dall' Europa. Per far ciò occorreva Cavour. III. Il grande statista, abbandonato il governo, si ritrasse, per ritemprarsi, nella sua tenuta di Leri, dove, facendo l'agricoltore, aveva passato tanti anni della sua gioventìi e dove, anche da ministro, tornava sempre con piacere quando voleva riposarsi dalle fatiche della politica. Da Leri scrisse alla contessa di Circout: « Ma posi- tion m'impose le devoir de me tenir aussi tranquille que possible. Je m'étais acheminé vers la Suisse, cet hòpi- tal des blessés poliques, mais l'annonce du congrès de Zurich pouvant donner à mon innocent projet une cou- leur suspecte, je me rabattrai sur la Savoie, et j'irai m'établir au pied du Mont Blanc pour y oublier, au milieu des merveilles de la nature, les misères des af- faires menées par les hommes. » Però non resistette alle attrattive che per lui aveva la Svizzera, dove, sapeva, avrebbe trovato la compagnia carissima dei suoi congiunti De la Rive e, dopo pochi giorni passati in Savoia, s'avviò verso Pressinge. William De la Rive ne descrive l'arrivo e lo stato d'animo, in cui era ancora, esaltato e indignato, poi osserva che a poco a poco si calmò, riacquistando tutta la lucidità del suo CAPITOLO X. 349 spirito positivo, che non si perdeva dietro ai rancori e ai rimpianti, ma guardava all'avvenire. Le lettere sue di quei giorni pubblicate dal Ghiaia provano la verità di quest'osservazione. « Ce n'est pas en arrière (così ri- ferisce il De la Rive i suoi discorsi a Pressinge) qu'il convient de regarder, mais en avant. Nous avons suivie une voie, elle est coupée, eh bien ! nous en suivrons une autre. Nous mettrons vingt ans à faire ce qui aurait pu étre accompli en quelque mois. Qu'y pouvons-nous? D'ailleurs l'Angleterre n'a encore rien fait pour l'Italie. C'est à son tour maintenant. Je m'occuperai de Naples. On m'accuserà d'étre un révolutionnaire, mais avant tout il faut marcher, et nous marcherons. » Come ben dice il De la Rive, dai discorsi che in quei giorni teneva e, aggiungiamo noi, dalle lettere che scriveva, si rileva che Cavour apprezzava in modo retto e sano la condizione fatta all' Italia da una pace che involgeva termini contraddittorii, e quindi tale da pre- sentare la possibilità di risorse d'ogni genere. L'Italia, lasciata da una pace affrettata sotto la minaccia inces- sante dell'Austria, non poteva costituirsi libera e indi- pendente che a condizione di essere politicamente unita, né la Francia poteva impedirne l'unità, perchè non le era moralmente lecito rinnegare le conseguenze naturali, inevitabili delle sue vittorie. Era vm cambiamento com- pleto di politica che s' imponeva. Il programma di Plom- bières e del trattato d'alleanza era netto, preciso, mirava dritto allo scopo. Cacciato lo straniero oltre le Alpi e l'Isonzo, l'ordinamento, l'assetto dell'Italia si sarebbe fatto senza difficoltà. Gli Stati e i popoli italiani avreb- bero fatalmente, o volentieri o no, gravitato intorno al Regno dell'alta Italia, si sarebbero posti sotto la sua 350 CAPITOLO X. preponderanza e quindi l'unità, o nella forma specifica sua o larvata sotto la forma federale, si sarebbe avverata. Vittorio Emanuele, di fatto, se non nel diritto ufficiale, sarebbe divenuto il Re di tutta l'Italia, e il grande ri- sultato si sarebbe ottenuto per la forza delle cose, senza bisogno di infingimenti, di furberie, di sopraffine e troppo sottili abilità diplomatiche. Invece dopo Villafranca era necessaria una politica complessa, involuta, lenta e temeraria nello stesso tem- po, che determinasse gli avvenimenti senza averne l'aria, che non avesse scrupoli, che sembrasse alle volte tra- scinata, alle volte incitatrice, in una parola una politica, nello svolgere la quale lo statista mostrasse di posse- dere le qualità del cospiratore. Non era ciò che piaceva a Cavour, ma, poiché era necessario, vi si adattò mi- rabilmente. Tornato in Piemonte alla fine d'agosto, trovò che, mercè l'opera di Farini, al quale aderiva e si inspirava L. Cipriani a Bologna, e di Ricasoli e sopratutto pel senno delle popolazioni e l'energia del Re, la situa- zione politica era molto migliorata da quello che egli l'aveva lasciata dopo Villafranca, e gli parve che, l'Im- peratore, appoggiato dall' Inghilterra, rimanendo fermo nel non permettere alcun intervento austriaco in To- scana, le cose si mettessero bene. E anche non giudicò che il Ministero si conducesse male, e, poiché questo si rivolgeva a lui per consigli, non ristette da darli. Però, nel suo intimo, sentiva che l'ora di tornare al potere per lui era prossima: «Je n'ai pas renoncé à la politique, scriveva a M. A. Castelli, j'y renoncerais si l'Italie était libre; alors ma tàche serait accomplie, mais tant que les Autrichiens sont de ce coté des Alpes, c'est un CAPITOLO X. 351 devoir sacre pour moi de consacrer ce qu'il me reste de vie et de forces à réaliser les espérances que j'ai travaillé à faire concevoir à mes concitoyens. » Come si vede egli riteneva un dovere tornare nella politica e, perchè, quando vi fosse entrato novamente, non poteva esser che capo, era ovvio ritenesse di dover ritornare presto al governo. Il Ministero Rattazzi-La ÌNIarmora- Dabormida era giudicato severamente in tutta Italia. Massimo D'Azeglio, che pur non aveva molti motivi per essere contento di Cavour e più volte ne aveva avversata la politica, di fronte alle indecisioni del Ministero che non si risolveva a nulla e chiedeva ad ogni momento istru- zioni e consigli a Parigi, non sapeva trattenere la sua indignazione. Le Assemblee dei Ducati, delle Romagne e della Toscana votavano entusiasticamente l' unione al Regno di Vittorio Emanuele, ma i ministri tentenna- vano o si rifiutavano, timorosi di disgustare Napoleone, e Massimo scriveva al nipote : « Mad. Putiphar aveva da fare con un Giuseppe, l' Italia centrale ne avrebbe sei. Caro mio, non mi fa paura né l'Austria, né i gesuiti, né la diplomazia. Mi fa paura di vedere le nostre ec- cellentissime zucche arbitre d'una delle posizioni più belle, ma più difficili di quante n'abbiam passate. » La principale ragione della perplessità in cui versava il Ga- binetto, secondo quanto dicevano i ministri, consisteva nel fatto che ancora non s'era firmato il trattato di pace a Zurigo, e quindi non conveniva pregiudicare le que- stioni pendenti. Ma, anche dopo che questo fu firmato, le incertezze non cessarono, perché non avendo la forza di dominare, o meglio di indovinare e compromettere Napoleone, e volendo andar sempre preventivamente d'accordo con lui, la incertezza che era nella natura del- 352 CAPITOLO X. l'Imperatore unendosi alla loro, l'aumentava oltre misura. Incontestabilmente la posizione era intricata e difficile e si intricava e diveniva difficile sempre più. Non rifaremo la storia di quel periodo, che è stata già più volte am- piamente svolta, ci basti dire che, di fronte alla volontà ferma dell'Italia centrale, si trovavano la confusione a Torino, un continuo cambiamento d'opinioni e' di pen- sieri a Parigi, l' insidia nascosta, ma perenne, dell'Au- stria, gl'intrighi dei clericali, dei federalisti, dei parti- giani _dei governi cessati, la propaganda segreta dei mazziniani, che solo una politica ardita e francamente italiana avrebbe potuto sventare, le impazienze gene- rose di Garibaldi. Fu proposto un Congresso che avrebbe dovuto riunirsi a Parigi per deliberare intorno alle cose d' Italia, a cui sarebbe stato ammesso il Piemonte e sa- rebbero intervenuti i rappresentanti dell' Italia centrale, e subito l'opinione pubblica si mostrò chiaramente fa- vorevole alla nomina di Cavour come rappresentante. Il Ministero non si dimostrò contrario a questa nomina che Cavour accettava, pur non nascondendo che si esi- geva da lui un gran sacrifizio, mettendolo in una po- sizione subordinata a uomini che gli erano di tanto inferiori. Ma, poiché la nomina di Cavour a plenipo- tenziario indicava chiaramente che egli sarebbe tornato al governo, gli uomini della sinistra, quelli che lo ave- vano sempre avversato, a capo il Brofterio, aprirono una violenta campagna contro di lui, si strinsero at- torno a Rattazzi e ai rattaziani per impedirlo, dando così nuova prova di quella mancanza di senno politico, di quella ristrettezza di vedute, di quella cieca e stupida partigianeria che era sempre stata loro caratteristica. Per Brofferio, i governanti dell' Italia centrale erano CAPITOLO X. 353 inabili e malfidi, Cavour era inferiore a Rattazzi e sa- rebbe stata un'immensa sventura per il Piemonte e per r Italia che fosse tornato al potere. Sapendo che il tempestoso colloquio di Monzambano aveva irritato contro di lui l'animo di Vittorio Emanuele, abilmente cercarono, in questa campagna, di avere dalla loro parte il Re ; non vi riuscirono, perchè Vittorio Ema- nuele, sebbene non avesse certo molta benevolenza per Cavour, aveva troppo senno per compromettersi in quella compagnia di retori e di legulei ; approfittando che Gari- baldi aveva dovuto dimettersi da comandante l'esercito dell' Italia centrale, perchè impedito da Farini e dal Re di passare il confine della Cattolica, lo circuirono, e, collo sfruttarne le generose impazienze, poterono, per vm momento, credere di averlo conquistato alla loro causa ; questa indegna campagna, alla quale certo non partecipavano alcuni ministri, come La Marmora e Da- bormida, ma che era troppo debolmente sconfessata da Rattazzi, e troppo apertamente appoggiata da parecchi rattazziani, irritò profondamente Cavour e allarmò l'opi- nione pubblica in Piemonte e nell' Italia centrale. Il dis- sidio tra Cavour e Rattazzi, di cui i primi indizii si erano mostrati fin dal 1S58, quando il secondo dovè uscire dal Ministero, si accentuò maggiormente, e se ne videro gli effetti subito dopo, e perdurarono anche morto Ca- vour, dividendo quel partito saviamente liberale che egli aveva saputo creare. Intanto Napoleone, preoccupato dell'andamento delle cose in Italia, persuaso che un Congresso non avrebbe saputo mettervi riparo, accordatosi coli' Inghilterra, de- liberò di consentire le annessioni e far abortire il Con- gresso, e ne fu indizio la pubblicazione d'un altro opu- Cavour. 2^ 354 CAPITOLO X. scolo celebre, scrìtto sotto la sua ispirazione : Le Pape et le Congrès, che impediva al Pontefice di parteciparvi, perchè includeva la necessità che rinunziasse a gran parte dei suoi Stati. L'Imperatore, però, a questo suo con- senso metteva per condizione la cessione, non solo della Savoia, ma anche di Nizza. Il Ministero Rattazzi avrebbe potuto compiere le annessioni se avesse voluto prima acconsentire alla cessione della Savoia, ma vi si era sempre rifiutato, perchè, com'era naturale, se la ces- sione della Savoia era efifettiva, il consenso non poteva essere che implicito, e, non accontentandosi di questo, si era lasciato sfuggire l'occasione favorevole, né erano giovati a rimuoverlo i consigli di Cavour. Ma queste disposizioni dell'Imperatore subirono una nuova oscilla- zione, quando si seppe che l' Inghilterra, la quale era stata tenuta all'oscuro di questa condizione posta dal- l'Imperatore, protestava contro di essa. La confusione giunse al colmo; l'opinione pubblica allarmata si pronunciò con crescente energia, reclamando che Cavour fosse chiamato al governo. Intanto il Mini- stero, per vedere di uscire da quell' imbroglio senza di- chiararsi vinto e impotente a superarlo, profiferse a Cavour una legazione straordinaria a Parigi e a Londra per ve- dere di sciogliere il nodo gordiano dell'Italia centrale. Questi accettò, non per far piacere ai ministri, « car, come scrisse al De la Rive, je me soucie fort peu de m'associer à des ministres aussi ineptes que les nòtres, » ma perchè sapeva che il suo invio era stato chiesto dal governo inglese, e accettò convinto che, partendo, « se avrebbe allungato di qualche settimana la vita al Ministero, scriveva al Cugia, ne avrebbe anche resa la morte più sicura. » Pose alcune condizioni per la riu- CAPITOLO X. 355 nione del parlamento, che credeva fossero accettate; in- vece non lo furono, perchè il Gabinetto non si sentiva di presentarsi in quelle condizioni alla Camera, e pre- ferì dare le dimissioni la sera del i6 gennaio, propo- nendo al Re che chiamasse Cavour a comporre il nuovo Ministero. Il Re aderì alla proposta, si rivolse a Cavour e questi, dopo un breve colloquio con Vittorio Ema- nuele, accettò r incarico proffertogli. Questa notizia sol- levò gli animi dei liberali in Italia, si ritenne da tutti che la causa dell' unità italiana avrebbe trionfato d'ogni ostacolo, e infatti così avvenne. IV. Il richiamo di Cavour fu accolto con grande soddi- sfazione e plauso anche all'estero, specialmente in In- ghilterra dall'opinione pubblica in modo deciso favore- vole all'Italia, e anche dal governo. Il ministro degli esteri della Regina tenne ad informare direttamente Cavour che avrebbe potuto contare sull' appoggio del- l'Inghilterra, purché non intendesse di ricominciare o di preparare una nuova guerra coU'Austria. Il governo inglese stava fermo, per l' Italia, al principio del non intervento. Nel discorso inaugurale del parlamento la regina Vittoria lo disse espressamente. Nel Congresso l'Inghilterra avrebbe sostenuto che nessuna forza straniera doveva impiegarsi per imporre all' Italia la forma del suo governo e della sua costitu- zione. Andato a monte il Congresso, la politica inglese non cambiava: si sarebbe adoperata ad impedire qual- siasi intervento armato straniero negli affari interni della 356 CAPITOLO X. penisola. Queste dichiarazioni esplicite della Regina fu- rono confermate dinanzi al parlamento, pochi giorni dopo, dal suo primo ministro Lord Palmerston. In Francia pure le disposizioni verso l' Italia pare- vano più decisamente favorevoli. Il Walewski era stato costretto a dare le dimissioni ; a lui era succeduto il Thouvénel che si sapeva molto meglio disposto del primo ; anche le notizie che si avevano da Parigi sulle in- tenzioni personali dell'Imperatore erano buone, e quindi parve a Cavour che si potesse in breve, senza pericoli, arrivare alle annessioni. Ma non si illudeva sugli osta- coli improvvisi che avrebbero potuto sorgergli contro, e perciò con un colpo di audacia cercò di smascherarli, e anche di prevenirli, facendo appello all'opinione pub- blica europea che sapeva essergli favorevole. Il 27 gen- naio egli inviò ai rappresentanti diplomatici del Piemonte all'estero una circolare, alla quale diede la massima pub- blicità. In essa ricapitolava gli avvenimenti succeduti alla pace di Villafranca e metteva in rilievo le cause che avevano impedito il Congresso, la cui proposta era, del resto, prova che 1' Europa riconosceva la necessità di metter fine alla condizione incerta e provvisoria in cui si trovava l' Italia. Il governo del Re aveva accettato d'intervenire al Congresso, ipopoli dell' Italia centrale ne aspettavano con calma e fiducia le deliberazioni. Il Congresso non s'era riunito, la Francia stessa lo aveva impedito colla pubblicazione dell'opuscolo Le Pape et le Congrès e con fatti successivi, che avevano indotto il Papa a dichiarare che mai vi sarebbe intervenuto. Contemporaneamente, l'alleanza anglo- francese, che pa- reva rotta, riappariva più salda di prima e Lord Pal- merston dichiarava al parlamento inglese: « L'entente la CAPITOLO X. 357 plus cordiale règ:ne entre l'Angleterre et la France par rapport à la question italienne. » Questi fatti hanno indotto la persuasione in Italia « i" Qu'il faut renoncer à l'idée d'une restauration qui ne serait pas plus pos- sible à Bologne et à Parme, qu'à Florence et à Mo- dène. 2" Que la seule solution possible consiste dans l'admission legale de l'annexion déjà établie en fait dans l'Emilie comme en Toscane. 3-^ Ou'enfin les po- pulations italiennes, après avoir attendu longtemps et en vue que l'Europe mit ordre à leurs affaires sur la base des principes de la non-intervention et du respect des vceux populaires, ont le devoir de passer outre et de pourvoir par elles-mémes à leur gouvernement. » In que- st'opinione i popoli dell'Italia centrale furono anche confermati dal fatto che identicamente si esprimevano gli organi più accreditati della stampa europea. Per questo essi hanno deliberato di uscire dal provvisorio, dando all'annessione completa esecuzione e, cioè, i loro go- verni hanno pubblicata la legge elettorale piemontese e si dispongono a indire le elezioni dei deputati al par- lamento di Torino. « Le gouvernement du Roi s'est servi jusqu'à ce jour de tonte l'influence morale dont il pouvait disposer pour conseiller aux gouvernements et aux populations de l'Italie centrale d'attendre; main- tenant.... il n'a plus le pouvoir d'arréter le cours na- turel et nécessaire des événements. » Il giorno dopo spedita questa circolare, Cavour ebbe notizia che non aveva prodotta nessuna impres- sione contraria, che anzi coincideva colle idee dell'In- ghilterra e della Francia, in quanto queste esigevano soltanto un nuovo voto fatto da nuove assemblee elette negli Stati dell'Italia centrale, purché, beninteso, il go- 358 CAPITOLO X. verno piemontese si astenesse dal mandare truppe che avrebbero avuto l'aria di fare pressioni, e anche che non suscitasse, o incoraggiasse, disordini o ribellioni nella Venezia, negli Stati romani ancora soggetti al Papa e nel Regno di Napoli. Cosi pienamente rassicu- rato, si capisce com'egli potesse scrivere il i" febbraio al Ricasoli : « Queste avventurose notizie che, non senza pro- fonda commozione dell'animo, partecipo all'È. V. pro- vano che l'annessione può dirsi oggimai un fatto com- piuto e che è raggiunta la meta dei comuni desiderii. » Ma, appunto quando credeva d'essere già in porto, ri- sorse a impedirlo la questione di Nizza e Savoia. Il Ministero Rattazzi non aveva, lo abbiamo già accennato, presa alcuna decisione non soltanto per la cessione di Nizza, che, si può dire, ignorava se ne fosse parlato, ma anche per quella della Savoia. Ma invece Vittorio Emanuele sapeva, per mezzo dei suoi agenti segreti e per i suoi rapporti diretti coli' Imperatore, che questi era fermo neh' idea che quelle due provincie fossero ce- dute alla Francia, e vi aveva già consentito, come ri- velò a Cavour il i6 gennaio quando gli diede l' incarico di formare il Ministero. Cavour, cui non era ignoto che r Imperatore teneva a questi acquisti territoriali e fin da Plombières aveva capito che non era possibile salvare Nizza, e nel trattato d'alleanza del io gennaio aveva ac- consentito in una forma più esplicita alla cessione di que- sta, non rimase meravigliato dalla dichiarazione del Re; solamente, quando venisse la domanda ufficiale del go- verno francese, secondo lui, si dovevano fare alcune riserve sulla estensione dei territorii da cedere, e cercare che l'annessione dell'Italia centrale precedesse 1' unione di Nizza e Savoia alla Francia. E ciò perchè se si poteva. CAPITOLO X. 359 quando il programma dell'alleanza franco-sarda era di far r Italia libera dall'Alpi all'Adriatico, esser larghi nel ce- dere alla Francia purché l'avesse attuato, nelle nuove circostanze sopravvenute tanto in Italia quanto in Eu- ropa, bisognava andar molto cauti nel promettere e nel rinunziare a territorii, cercando di cavare dal sacrifizio il maggior utile possibile. Quindi egli era d'avviso che non si parlasse pubblicamente della cosa per non allar- mare l'opinione pubblica; e in questo senso furono le sue istruzioni e il suo contegno, mentre procurava che si concretassero le annessioni. Ma invece il governo francese, nei suoi giornali, cominciò apertamente a par- lare della Savoia e di Nizza come se dovessero in breve essere Provincie francesi, e così mise, come si dice co- munemente, sul tappeto la questione. L'opinione pub- blica in Italia e in Europa ne fu commossa: comincia- rono nelle due provincie stesse e nei giornali piemontesi le proteste in senso contrario, il governo francese si irritò per queste accusando quello piemontese di fo- mentarle, l'agitazione, propagandosi, s'inacerbiva da una parte e dall'altra, tanto che l' Imperatore tentò di attenuare l'impressione delle sue pubblicazioni antece- denti ma non vi riusci. Intanto l' Inghilterra indirizzava reclami a Parigi lagnandosi novamente d'essere stata ingannata, e a Torino faceva presente che mal prov- vedeva il governo piemontese alla sicurezza del futuro Stato italiano cedendo le sue frontiere, e il Re mac- chiava lo stemma glorioso della sua Casa abbandonando la culla di essa alla Francia. Dice il Ghiaia che, se Ca- vour non fosse stato persuaso che l'Imperatore era irre- movibile nel volere Nizza e Savoia, avrebbe approfittato dell'appoggio dell'Inghilterra per togliersi dalla penosa 360 CAPITOLO X. e dolorosa necessità di cedere le due provincie, per- chè egli non temeva di contrastare, anche apertamente e acerbamente, con Napoleone; invece cedette perchè convinto di fare cosa utile all' Italia, perchè non si sen- tiva sicuro che l'appoggio inglese sarebbe andato oltre le proteste platoniche, e anche, diciamo noi, perchè nella sua mente s'era già formato il disegno di appro- fittare, per r Italia, in modo piij largo di quello che pen- sasse l'Imperatore, del sacrificio che questo gì' impo- neva. Napoleone desiderava che il trattato di cessione fosse firmato, se non pubblicato, prima che avvenissero le annessioni dell' Italia centrale, almeno in tal senso pare a noi si debbano interpretare le nuove tergiver- sazioni e difficoltà che opponeva la diplomazia impe- riale all'unione della Romagna e della Toscana. Per la Romagna tornava in campo l'idea del vicariato, per la Toscana si proponeva di farne un regno separato sotto un principe di .Savoia, queste ed altre proposte si suc- cedevano allo scopo di guadagnar tempo. Cavour rimaneva fermo nell'idea dell'annessione pura e semplice nella quale, del resto, era sicuro del- l'appoggio dell'Inghilterra, e quando gli fu comunicato un dispaccio ufficiale del Thouvénel nel quale si diceva che, se non rinunciava alla Toscana, la Francia avrebbe ritirate le truppe dalla Lombardia e avrebbe lasciato il Piemonte « courir des meilleures chances à ses ri- sques et pèrils, » rispose che, piuttosto che abbando- nare la Toscana, il Re e lui erano disposti ad affrontare da soli l'Austria. E non solo fece questo, ma incitò i dittatori dell'Italia centrale ad affrettare gli armamenti per far fronte ad ogni eventualità, perchè, come scrisse al Lafarina e a Manfredo Fanti, il voler fare assegna- CAPITOLO X. 361 mento sulla sola diplomazia è cosa assurda. Per suo consiglio la stampa dell' Italia centrale insistette forte- mente perchè si mettesse fine agl'indugi, e, mentre ciò si faceva, egli rispondeva alle intimazioni francesi che avrebbe ricorso all'espediente del suffragio universale e diretto, cioè al plebiscito per fare le annessioni. Quando i popoli dell' Italia centrale si fossero pronun- ciati con un plebiscito in favore di esse, certo non poteva r Imperatore, che doveva il trono appunto al suffragio universale, misconoscerne i risultati. Infatti, accordatosi con Farini e con Ricasoli, fu fissato che il plebiscito sarebbe stato indetto pei giorni 11 e 12 di marzo sulla formola : Unione alla ìuonarchia costituzio- nale del Re Vittorio Emanuele o Regno separato. Per capire l'audacia di Cavour, bisogna tener presente che Napoleone, aprendo la nuova sessione parlamentare il i'^ marzo, aveva apertamente condannato la politica an- nessionista del Piemonte, e aveva chiaramente alluso alla cessione di Nizza e Savoia. Vedendo di non poter rimuovere Cavour, Napoleone tornò ad insistere che questa cessione fosse stipulata con trattato, prima che le votazioni plebiscitarie nell'Italia avvenissero, temendo, forse non a torto, che, se tardava, l'abile ministro pie- montese, una volta conseguito l'intento, protestando o fomentando difficoltà diplomatiche, riuscisse a rimettere la questione all'arbitrato dell'Europa, che non sarebbe certo stato favorevole. Il governo francese avrebbe vo- luto che il Piemonte cedesse le due provincie d'un tratto, senza nemmeno consultare le popolazioni, della cui sorte si disponeva, e il parlamento; a questo si ri- fiutò recisamente Cavour, il quale aderì a un trattato segreto, rimanendo d'accordo che, quando fosse giunto ^62 CAPITOLO X. il tempo di dargli esecuzione, sarebbe stato sostituito da un altro stipulato nelle forme prescritte dal diritto internazionale per essere sottoposto all'approvazione del parlamento. Il trattato fu firmato dal Re il giorno 1 1 , controfirmato da Cavour il 12, proprio quando comin- ciavano a giungere le notizie del risultato dei plebisciti dell'Italia centrale, i quali temperarono la profonda amarezza con cui il Re e Cavour avevano accondisceso alla dura necessità di cedere quelle due provincie. Il 15 marzo furono accertati i resultati definitivi dei ple- bisciti che, alla quasi unanimità, avevano dichiarato es- sere volontà dei popoli di unirsi alla monarchia costi- tuzionale di Vittorio Emanuele; il 18 e il 19 marzo due regi decreti dichiararono le provincie dell'Emilia e della Toscana parte integrante del Regno, e il 25 marzo, in base alla legge elettorale sarda, furono convocati anche nelle nuove provincie i collegi elettorali per la nomina dei deputati al parlamento di Torino. Così le annes- sioni erano un fatto compiuto, per quanto potesse parere strano che si fosse accettato l'atto di annessione e si fos- sero ammessi i deputati e i senatori di quelle provincie a sedere in parlamento prima che questo, a norma dell'art. 5 dello Statuto, si fosse pronunziato in proposito. Ma era urgente uscire dal provvisorio e si sarebbe detto che Cavour avesse voluto precipitare l'andamento normale e legale delle cose per dimenticare e far dimenticare, nel trionfo della sua politica e nella dimostrazione della grandezza dei risultati che aveva saputo ottenere, il dolore d'aver dovuto subire le imposizioni della Fran- cia per Savoia e Nizza. In Europa da tutte le parti si levava un coro di lodi pel grande successo ottenuto dal Piemonte e special- CAPITOLO X. 363 niente l'Inghilterra ne fu entusiasta. Lord Palmerston, in un discorso al parlamento, rese omaggio sincero, e senza riserve, alla saviezza di cui avevano dato prova il Piemonte e i popoli dell'Italia centrale, si felicitò, in nome dell' Inghilterra e del suo governo, dei risultati ottenuti e dichiarò che Cavour era un grande uomo di Stato, degno dell'ammirazione di tutt' Europa e della gratitudine eterna degl'italiani. In questi elogi dell'il- lustre statista inglese entrava anche il compiacimento per lo scacco subito dall' Imperatore dei Francesi. Napo- leone serxtì questo scacco, se ne sarebbe dato pace, per- chè, in fondo, non aveva alcuna tenerezza né pei Duchi, né pel Granduca, né pel Papa, ma l'opinione pubblica francese, che ignorava il trattato del 12 marzo, si allarmò biasimando severamente la politica audace e senza ri- guardi adottata in Italia, e accusando l' Imperatore di essere di questa segretamente complice, tanto da sacri- ficarle gì' interessi della Francia. Per questo, e anche perché risorse in lui e nel suo governo il timore che l'abilità di Cavour riuscisse, coU'aiuto dell' Inghilterra e forse anche della Prussia e della Russia, ad eludere il trattato di cessione già stipulato, molto più che arri- vavano a Torino ogni giorno deputazioni dalla Savoia e da Nizza implorando da! Re e da Cavour che non si volessero abbandonare quelle provincie alla Francia, Na- poleone risolse di rompere ogni indugio e di esigere che al trattato segreto ne fosse sostituito uno pubblico, che potesse essere annunziato nel Moìiiteur per calmare l'opi- nione pubblica e anche l'opposizione del Corpo legisla- tivo. Il trattato del 12 marzo conteneva la clausola che le disposizioni sue sarebbero rimaste segrete fino a che Ldue Sovrani «d'un commun accord » non avessero giù- 364 CAPITOLO X. dicato opportuno di farne conoscere l'esistenza. Quindi Cavour rimase meravigliato dell'imperiosa richiesta che gli rivolse all'improvviso il governo imperiale; avrebbe preferito che si fosse aspettato a dopo l' apertura del parlamento, anche per non impressionare sinistramente il corpo elettorale che non s'era ancora riunito ; tutto fu inutile, dovette cedere. Mentre a Torino le deputa- zioni nizzarde commovevano il pubblico e la stampa, assicurando che mai la maggioranza di quelle popola- zioni avrebbe votato la unione alla Francia, e i giornali d'opposizione si scagliavano contro Cavour incolpan- dolo, con quel senso della verità che era loro caratteri- stica, d'aver fatto violenza al Re per vender Nizza alla Francia, mentre Fanti, ministro della guerra, protestava che Nizza era necessaria alla difesa del nuovo Regno, Cavour dovette avviare i negoziati pel trattato pub- blico di cessione. Cercò di salvar Nizza, facendo osser- vare che mai le popolazioni si sarebbero piegate ; non avendo potuto ottener nulla su questo punto, insistette perchè almeno il circondario di Nizza fosse neutraliz- zato, mostrò che esigere la cessione piena ed intera, non avrebbe giovato alla Francia, l'avrebbe resa im- popolare in Italia e, in compenso, avrebbe accresciuta l'influenza dell'Inghilterra; tutto fu inutile. Al Talleyrand, ministro di Francia a Torino, fu unito il Benedetti, di- rettore generale al ministero degli esteri, e insieme eb- bero ordine di imporre a Cavour la firma immediata del trattato. Benedetti, giunto il 22 marzo a Torino, si mo- strò irremovibile: « L'Empereur (egli disse) veut absolu- ment Nice et la Savoie lors méme qu'il aurait contre lui l'Europe toute entière. » Cavovu' propose che, al- meno, invece che affidare a commissioni tp.iste il com- CAPITOLO X. 365 pito di delimitare i nuovi confini, questi fossero segnati nel trattato, il che avrebbe reso più facile ottenere il consenso del parlamento, ma Benedetti sostenne che non v'era bisogno del parlamento ; Cavour allora ce- dette sul modo di delimitare i confini ma insistette per- chè s' inserisse nel trattato la clausola che pel suo Stato esso non avrebbe avuto esecuzione che dopo avuta l'ap- provazione delle Camere nelle forme statutarie. Così il sacrificio fu compiuto. James Hudson, ministro inglese a Torino, scrisse a Lord Russell che Cavour resistette fino all'ultimo e solo si arrese quando Benedetti, le- vando di tasca una lettera colle istruzioni private del- l' Imperatore, disse che, se non si firmava il trattato, egli aveva ordine di far ritirare le truppe francesi dalla Lombardia, ma non per farle ritornare in Francia, bensì per mandarle ad occupare Bologna e Firenze. Il trat- tato fu alfine sottoscritto il 24 marzo, e narra l'Ideville, che vi assistette, come, appena munito l'atto della sua firma, Cavour si alzasse e avvicinandosi al ministro fran- cese Talleyrand gli mormorasse all'orecchio : « Mainte- nant nous sommes complices, n'est-il pas vrai, baron?» È certo che la mente acuta del grande statista in- travvide subito tutto il partito che si poteva trarre da quel trattato, il quale era bensì una vittoria della Fran- cia, ma avvinceva sempre più l' Imperatore alla fortuna d'Italia, lo rendeva complice necessario di quanto si sarebbe osato per compiere 1' unità. Ma, ad ogni modo, questo fu il maggiore sacrifizio che Cavour facesse alla concretazione del suo ideale politico, ne ebbe e ri- portò un dolore vivissimo che mai seppe vincere e, fin- ché visse, nutrì la speranza che almeno Nizza potesse essere da lui ricongiunta alla patria comune. Egli che 366 CAPITOLO X. aveva saputo affrontare impavido le ire della plebe, le accuse, le calunnie, gì' insulti degli avversarli, si sentiva ferito dolorosamente quando gli si rinfacciava la ces- sione di Nizza. Appena riaperto il parlamento, mentre non era ancora spenta l'eco delle acclamazioni che ave- vano salutato il discorso del Re, mentre ancor durava l'esultanza per aver visto riuniti, per la prima volta nei secoli, i rappresentanti di tanta parte d' Italia, mentre risonavano ancora le lodi per la sua politica audace e sapiente, Cavour dovette subire gli attacchi di Garibaldi e degli altri deputati nizzardi ; si difese, riuscì a persua- dere il parlamento a non infirmare con decisioni preci- pitate il valore del trattato, parlò in nome dell'Italia, non ancor compiuta e di cui non bisognava compromettere le sorti con imprudenze, anche se generose, vinse, ma aveva le lagrime negli occhi e gli tremava la voce per- chè, se la sua ragione lo persuadeva che aveva compiuto un grande, per quanto triste, dovere, il suo cuore gli diceva che gli avversarli non avevano torto e parteci- pava al loro dolore e ai loro strazii. Massime il dolore di Garibaldi gli straziava l'animo; egli perdonò sempre all'eroe gli attacchi che gli rivolse, anche se sanguinosi e ingiusti, e quando questi rifiutò di stringergli la mano fu udito esclamare: «So che fra l'onorevole generale Garibaldi e me esiste un fatto che stabilisce un abisso fra noi due. Io ho creduto compiere un dovere dolo- roso, il più doloroso che abbia compiuto in vita mia, consigliando al Re e proponendo al parlamento la ces- sione di Nizza e della Savoia alla Francia. Al dolore che ho provato io, posso comprendere quello che ha dovuto provare il generale Garibaldi, e se egli non mi perdona questo fatto, io non gliene faccio un appunto. » CAPITOLO X. 367 La discussione alla Camera di questo trattato non av- venne in condizioni molto soddisfacenti. Cavour non potè ottenere la linea di frontiera che sperava, non potè ritardare la presentazione di esso al parlamento, come gli pareva opportuno per obbligare la Francia a non osteggiare l' impresa di Garibaldi in Sicilia, fu forzato dalle pressioni dell' Imperatore ad affrettarsi. Nel fatto, dopo il risultato del plebiscito dell' 11, 12 aprile favo- revole all'unione colla Francia, non era supponibile che il parlamento rifiutasse il suo voto, e le ragioni che ad- duceva Cavour per ritardare, perciò, erano facilmente confutabili. La discussione cominciò il 25 maggio e fu aspra; il Guerrazzi, specialmente, scrittore grande ma uomo tor- bido, eccessivamente appassionato, sempre malcontento degli altri e di sé, ingiusto apprezzatore degli uomini e delle cose e politico men che mediocre, fu violento e irruente, rammentando mal a proposito, per colpire Ca- vour, Lord Clarendon che, per aver ceduto Dunkerque alla Francia, fu costretto ad esulare. Rattazzi, pure op- positore, fu invece abilissimo, biasimò il Ministero per la forma e la sostanza del trattato, il quale non era ne- cessario per le annessioni, era in pura perdita perchè non conteneva alcuna garanzia né pel presente, né pel futuro d'Italia, e indeboliva la nostra frontiera. Poi, e qui mostrò la sua finezza, fattasi la domanda se con- veniva o no respingere il trattato stesso, disse che il parlamento non era più libero di decidere, perché il fatto era già consumato e concluse per l'astensione dal voto. Così colpiva Cavour, perchè non impediva l'attuazione del trattato, ma tentava, forse con buona speranza, di sgretolare la maggioranza ministeriale, la quale, se si 36S CAPITOLO X. sarebbe mantenuta compatta di fronte a una opposizione esplicita e dichiarata, poteva dividersi, almeno in parte, di fronte a un voto di astensione. Cavour prese a par- lare nella seduta del 26 maggio e le sue prime parole furono piene di amarezza, lamentando che alcuni ora- tori, specialmente il Guerrazzi, avessero usato, in una discussione così grave e dolorosa, il sarcasmo, l'ironia, il motteggio contro di lui che aveva il cuore lacerato dal dolore di aver dovuto assumere così grave respon- sabilità, facendo forza ai suoi sentimenti. Poi con uno slancio magnifico d'eloquenza investì il Guerrazzi a pro- posito del ricordo di Lord Clarendon : « Mi permetta l'onorevole Guerrazzi che io osservi che se il Conte di Clarendon a difesa di quella politica cotanto osteggiata dai suoi avversarli nel parlamento avesse potuto far va- lere parecchi milioni d' inglesi liberati dal dominio stra- niero, numerose contee aggiunte al dominio del suo signore, forse il parlamento non sarebbe stato cosi se- vero, forse Carlo II non sarebbe stato così ingrato verso il più fedele dei suoi servitori. I\Ia, o signori, poiché il deputato Guerrazzi mi voleva dettare una lezione di sto- ria, era suo dovere di compierla, doveva ricordarmi quali fossero gli avversarli di quel ministro, quali fos- sero coloro che ne promossero l'accusa, ne divisero le spoglie, ne ereditarono il potere. Egli allora vi avrebbe detto che avversaria del Conte di Clarendon fu quella famosa consorteria di uomini politici, non uniti fra loro da nessun antecedente, da nessuna conmnanza di prin- cipii, da nessuna idea politica, uniti solo dal più sfac- ciato egoismo ; di quegli uomini sorti da tutti i partiti e che professavano tutti i principii, che furono a vi- cenda puritani, presbiteriani, episcopali e perfino papisti ; CAPITOLO X. 369 di quegli uomini che un giorno furono repubblicani, un altro giorno realisti esaltati ; di quegli uomini demago- ghi in piazza, cortigiani nella reggia, tribuni nel par- lamento, fautori di reazione e di mezzi estremi nei con- sigli del Principe; di quegli uomini infine che hanno costituito quel Ministero che la severa storia stigmatizzò col nome di cubai. E allora io avrei potuto ricordare al deputato Guerrazzi che gì' inglesi onorano altamente come una gloria patria il nome del Conte di Clarendon, quando è posto a confronto dei suoi avversarli politici, di Clifford, di Arlington, di Buckingham, d'Akrley e di Lauderdale. Ora dopo aver compiuta la lezione storica che aveva principiata l'onorevole deputato Guerrazzi, lascio alla Camera, lascio al paese dedurne i pratici in- segnamenti che meglio fanno al caso nostro. » Dopo aver così conquistata l'approvazione della Ca- mera e atterrato (è la parola vera) il Guerrazzi, che non seppe che rispondere, Cavour venne a trattare la que- stione confutando principalmente il discorso di Rattazzi. Le sue argomentazioni si rivolgevano in due direzioni diverse. Da un lato, e qui stava la parte debole, mi- rava a dimostrare che il danno della cessione era mi- nimo, che quelle regioni non interessavano all'Italia, che, cedendole, non si ledeva il principio di nazionalità; dall'altro, e qui stava la parte forte, che la cessione era utile per il presente e per l'avvenire, perchè ga- rantiva gli acquisti fatti, ne prometteva dei maggiori, assicurando all'Italia l'appoggio e l'amicizia, non solo dell' Imperatore, ma della Francia che le era indispensa- bile. Chiese, come un sacrificio, il voto favorevole in nome della patria e fu esaudito, ma solo dopo che la discussione si fu prolungata per altri due giorni, e solo Cavour. 24 37° CAPITOLO X. dopo che egli fu costretto a spiegare che, se non vi era nel trattato la guarentigia esplicita per la stabilità delle annessioni decretate, questa dipendeva dal fatto che non era stata chiesta e che, anche se offerta, sarebbe stata rifiutata perchè offensiva della dignità nazionale, e che invece bastava avere la sicurezza che la Francia avrebbe fatto rispettare il diritto di non intervento in Italia. Egli, prima del voto, fece appello al patriot- tismo del parlamento perchè non lesinasse, né condizio- nasse, la sua approvazione, e fu, come dicemmo, ascol- tato. Il trattato fu approvato a grande maggioranza. Intanto Garibaldi conquistava la Sicilia e Cavour, forte della complicità necessaria di Napoleone III, dopo com- piuto il sacrifizio, si apprestava a concretare nei fatti l'ideale dell'unità italiana. V. Che fosse necessaria la conquista del mezzogiorno per stabilire e assicurare, non solo 1' unità, ma anche r indipendenza dell' Italia, era vecchia idea nel libera- lismo italiano e che ha le sue radici profonde nella no- stra storia più antica, certamente nella nostra storia me- dioevale. Era poi idea dominatrice nelle sètte carbonare e da esse passò, purificata e perfezionata, nella Giovine Ita- lia. Mazzini, colla spedizione dei fratelli Bandiera, la de- terminò nettamente e più nettamente ancora colla impresa di Pisacane. Anzi in questo egli credeva di distinguersi dai liberali-monarchici, che mai avrebbero, secondo lui, potuto superare la difìficoltà morale e materiale di distrug- gere la più antica e grande monarchia italiana. Quando CAPITOLO X. 371 poi la pace di Yillafranca e le annessioni susseguenti eb- bero costituito il Regno italiano, la questione della con- quista del mezzogiorno, e anche l'abolizione del potere temporale, acquistarono, per la forza delle cose, un ca- rattere d'urgente necessità. Se si fosse compiuto il pro- gramma di Plombières, cioè se Vittorio Emanuele avesse esteso il suo Stato fino alle Alpi Giulie e all'Isonzo, avrebbe potuto assorbire, se non nella forma, nel fatto il Regno dell'Italia centrale, ed esercitare sul Regno di Napoli una forza di attrazione per la quale, o si sarebbe venuti alla fusione, o si sarebbe operata una conquista, o si sarebbe fatta un'alleanza perpetua, press' a poco alla fusione o alla conquista equivalente. Ma quando fu co- stituito il Regno italiano colla Lombardia, il Piemonte e l'Italia centrale, mentre l'Austria rimaneva padrona della Venezia e, per di più, la Francia pretendeva e ot- teneva Nizza e la Savoia, questo Regno, sprovvisto delle sue frontiere naturali, le Alpi, con linee di confine tutte artificiali e politiche, non poteva avere alcuna sicurezza di esistenza se non si guarentiva verso il centro e il mezzogiorno della penisola, molto piìi che lo Stato pon- tificio e il Regno di Napoli, oltre che gli si erano sempre dimostrati ostili, avevano e rappresentavano principii in- compatibili colla sua costituzione e la sua ragion d'essere. Non potendo vivere in pace e in perfetto accordo con essi, doveva fatalmente mirare ad assorbirli. Così il pro- blema dell'unità sorgeva come conseguenza logica da Villafranca, e la cessione di Nizza e della Savoia ne rendeva più urgente la soluzione in senso affermativo, e così anche si spiegano le parole che, abbiamo visto, Cavour rivolse al ministro francese dopo firmato il trat- tato del 24 marzo. Questo dal punto di vista del go- 372 ' CAPITOLO X. verno del Re e dell' interesse esterno di consolidazione e di sicurezza del nuovo Stato. Ma v'erano altre con- siderazioni ugualmente importanti che collimavano alla stessa conclusione. I partiti rivoluzionarli, specialmente il mazziniano, avevano perduto importanza morale e se- guaci, perchè la politica di Cavour, del Re e del Pie- monte aveva persuasi gì' italiani che, seguendola, si sa- rebbe arrivati, senza disordini e lotte civili, agli stessi risultati che formavano sostanzialmente l'ideale dei ri- voluzionarli, ma, se il nuovo Regno rimaneva in quelle condizioni, le promesse erano mancate, i rivoluzionarli avevano ragione, Mazzini era nel vero quando diceva che mai Casa Savoia avrebbe potuto compiere l'impresa italiana. E infatti questo si ricominciò a dire, e Mazzini, che fino allora si era tenuto quieto, accennò a ripren- dere la sua libertà d'azione. Non potendo volgere sulla Venezia, dichiarò che avrebbe portata la rivoluzione nel mezzogiorno e nello Stato romano. Il pericolo era che gli elementi accesi, principalmente quelli che Cavour e Vittorio Emanuele avevano saputo conquistare, e cioè Garibaldi e i suoi aderenti, tornassero sotto la bandiera repubblicana, se la monarchia avesse titubato o si fosse mostrata restia ad adottare il principio unitario. Per tutte queste ragioni, cioè per necessità elemen- tari di vita del nuovo Stato, il Re, Cavour e il partito liberale monarchico era naturale che, per l'attuazione del principio unitario, mirassero alla conquista del mez- zogiorno, e questo abbiamo creduto di dover dire per rispondere a quelli che sostengono che l'unità fu otte- nuta contro la volontà del Re e di Cavour. Ma v'è di più. Vittorio Emanuele aveva lo spirito avventuroso e la sana e forte ambizione della sua Casa, aveva un prò- CAPITOLO X. 373 fondo sentimento d'italianità e un acuto senso politico; quindi era naturalmente predisposto ad ogni impresa che fosse conforme alle aspirazioni dell' Italia e confe- risse gloria a lui. Cavour poi, e lo abbiamo già detto, non aveva alcun legame o scrupolo che si attenesse ai vecchi programmi del neo-guelfismo e del federalismo, non aveva alcuna simpatia né pel Re di Napoli, né pel Papa sovrano temporale, non era mai stato anti-unita- rio, e dopo Villafranca aveva chiaramente accennato alla necessità di fare una politica rivoluzionaria, cioè di tro- vare un compenso alla mancata completa indipendenza, nell'estensione del Regno all' interno della penisola. Ri- pugnante dai Borboni, avverso ad una nuova dinastia che a quelli si sostituisse, era naturale che pensasse al- l'unione, nel medesimo modo che, dopo l'annessione delle Romagne, era naturale che arrivasse a concepire l'idea dell'abolizione del potere temporale. Per rispetto poi all'idea di rovesciare il trono di Napoli, tanto Vit- torio Emanuele che Cavour dovevano caldeggiarla, anche perché distraeva gli elementi accesi, e principalmente Garibaldi, dal passare il confine della Cattolica o dal buttarsi nella Venezia, mentre, invece, quando fosse operata l'unione con Napoli, riusciva più facile togliere ogni ragione di vita al potere temporale e si costituiva uno Stato in Italia così forte da poter tentare, con spe- ranza sicura di buon successo, quando le circostanze fossero propizie, 1' impresa di Venezia. Quindi era comune a tutti i liberali italiani, di qua- ; lunque partito, dai moderati ai repubblicani, da Maz- r zini al Re e Cavour, l'idea di abbattere il trono dei , Borboni, di distruggere il potere temporale, di costi- 1 tuire a unità 1' Italia. Ma se 1' idea era comune, i di£'- 374 CAPITOLO X. sensi erano sui mezzi di attuarla. Tutti convenendo nel concetto di cominciare l'azione dal Regno di Napoli, dovevano naturalmente dividersi a seconda della posi- zione e della responsabilità di ciascuno. Mazzini non aveva alcuna responsabilità, ribelle, proscritto, condan- nato nel capo, repubblicano, non era tenuto ad alcun riguardo, ma era anche quasi impotente perchè non po- teva contare su Garibaldi. Questi, e più quelli che a lui aderivano, potevano soli osare e, difatti, annodati rap- porti neir isola di Sicilia, vi suscitarono moti rivoluzio- narli e si apprestarono a soccorrerli con spedizioni d'armi e d'armati dal continente. Vittorio Emanuele, personal- mente, giovandosi del suo ascendente su Garibaldi e delle sue influenze sui garibaldini, intervenne, aiutò la spedizione, le forni i mezzi necessarii, si assicurò che non avrebbe inalberata bandiera repubblicana, ma mo- narchica; egli non aveva alcun obbligo verso il Re di Napoli, che non lo aveva mai aiutato, che anzi lo aveva osteggiato e insidiato, e quindi poteva combatterlo senza offendere menomamente il suo sentimento morale o la sua coscienza. Ma per Cavour le cose erano diverse. Anzi- tutto egli era responsabile : Garibaldi non avrebbe mai confessati i suoi rapporti col Re, quindi agiva a suo rischio e pericolo, e il Re non comprometteva lo Stato ; ma invece qualunque azione di Cavour involgeva la sua responsabilità e impegnava lo Stato. Ora in quanto alla sua responsabilità puramente personale, egli non era uomo da curarsene troppo, massime dopo aver do- vuto sottoscrivere il trattato di cessione di Nizza, ma, invece, non poteva non tenere gran conto della respon- sabilità politica che incombeva su di lui e dei doveri che aveva verso lo Stato di cui reggeva il governo. CAPITOLO X. 375 Egli aveva già, da tempo, raccolti attorno a sé i mi- gliori uomini del mezzogiorno ; il Lafarina, fondatore e anima della Società nazionale, era siciliano, aveva una fitta rete di informatori in tutto il Regno delle due Si- cilie, specialmente alla capitale e alla Corte, riceveva continuamente notizie e dava consigli e suggerimenti, si teneva pronto ad ogni azione, ma aveva, prima di decidersi a far saltare il trono dei Borboni, molte e gravi considerazioni da fare, molte questioni da studiare, molti dati ed elementi di fatto e morali di cui tener conto. An- zitutto, se era relativamente facile rovesciare il trono dei Borboni, era altrettanto facile impedirne la restaura- zione? La dinastia aveva profonde radici nel paese, e lo si era visto alla fine del secolo XVIII e al principio del secolo XIX. E poi era possibile togliere l'autono- mia politica a regioni che la possedevano da molti se- coli, che formavano uno Stato compatto tanto da costi- tuire come una subnazionalità? E se anche fosse stato possibile, era utile? Rovesciando il trono dei Borboni non si correva rischio di facilitare la risurrezione di quello di Murat? Come avrebbe potuto l'Italia opporsi vali- damente alla Francia, se questa l'avesse fermamente vo- luto? Nel caso che si fosse dovuto accettare questa so- stituzione, che cosa guadagnava l'Italia nel cambio? Poi, se il nuovo Regno s'impegnava nella conquista del mezzogiorno, faceva opera prettamente rivoluzionaria, perdeva le simpatie della Russia e della Prussia, sarebbe stato probabilmente osteggiato dalla Francia, né 1' In- ghilterra sarebbe certo andata incontro a una guerra per sostenerlo. Isolato, come avrebbe potuto resistere contro un improvviso attacco dell'Austria? Per queste ed altre ragioni, Cavour, pur pensando alla conquista 376 CAPITOLO X. del mezzogiorno, ed avendo già in mente di giovarsi perciò di Garibaldi, desiderava esser lasciato libero di scegliere il momento per ciò, non poneva ostacoli a che la spedizione fosse approntata, ma si opponeva a che partisse, prima che egli lo consentisse. Senonchè le cose erano troppo bene avviate, coli' aiuto del Re, perchè gli fosse dato di fermarle. Saputo nelle notte dal 30 aprile al 1° maggio che Garibaldi si apprestava a partire e ormai convinto che non si sarebbe deciso se non fosse stato sicuro dell'aiuto di Vittorio Emanuele, egli risolse di tentare uno sforzo presso il Re perchè consigliasse a Garibaldi di desistere dall' impresa che non aveva, stando alle notizie ultime giunte dalla Sicilia, probabilità di riu- scita e avrebbe compromesso inutilmente il governo del Re, massime di fronte alla Francia, al cui ministro a Torino erano state date assicurazioni in proposito. Giunto a Bologna ebbe un lungo colloquio con Vittorio Ema- nuele, conobbe gl'impegni che questo aveva assunto e si piegò, accettandone le conseguenze, come se avesse personalmente autorizzata la spedizione. Infatti questa potè effettuarsi coll'aiuto diretto e indiretto del governo e di Cavour, che la fece anche proteggere da lontano dalla squadra regia. Quindi se è vero che Cavour non pensò 1' impresa dei Mille, non si mostrò mai assolutamente avverso a tentarla, avrebbe voluto che fosse ritardata, rimandata a tempo più opportuno ; quando fu decisa non la im- pedì, anzi l'aiutò con ogni suo potere, compatibilmente colle esigenze politiche e diplomatiche. Gli sarebbe stato facile, oltre che impedirne la partenza, far mandare a picco i due bastimenti che portavano i garibaldini, e gli sarebbe anche stato facile far abortire l' impresa. CAPITOLO X. 377 quando l'avesse privata degli aiuti morali e materiali che, nel fatto, le prodigò per mezzo dei suoi agenti se- greti, dei consoli e delle navi sarde. Questa è la verità- vera, come è anche certo che la leggendaria impresa non avrebbe concluso coll'annessione e quindi coU'unità della patria, se Cavour, colla sua arte finissima, colla sua autorità, colla sua audacia, non avesse imposto al- l'Europa di riconoscere e legalizzare l'opera rivoluzio- naria di Garibaldi e dei suoi seguaci. Che Cavour fosse necessario alla riuscita dell' impresa, lo riconobbero molti garibaldini i quali divennero cavouriani ardenti, lo rico- nobbe Bertani stesso, il quale non credette alla riuscita, se non quando fu certo che Cavour, più o meno aper- tamente, la favoriva. Il grande statista stette in un'ansia mortale finché non seppe che Garibaldi era sbarcato felicemente in Si- cilia, temendo sempre che le fregate borboniche riuscis- sero a mandare a picco i suoi due bastimenti; quando ebbe la notizia che non era successo nulla di quanto te- meva, si rasserenò, e mostrò un'allegrezza che non s'era mai pii!i vista in lui dopo la cessione di Nizza. « Siamo di nuovo in alto mare, in mezzo alle burrasche (scriveva all'amico Cugia). Ma cosa farci? Finché l'Italia non sarà costituita, non si può pensare a riposare nella calma degli anni passati. » Non era facile il compito di Ca- vour in quel tempo e avrebbe fiaccato qualunque fibra che non avesse avuta la sua meravigliosa resistenza. Vi erano difficoltà interne gravissime di carattere parlamen- tare. La discussione in Senato del trattato di cessione di Nizza e Savoia era stata meno acerba, ma altret- tanto penosa e ampia che alla Camera dei deputati. Poi egli doveva sostenere alla Camera discussioni gravi 378 CAPITOLO X. su argomenti amministrativi e finanziarii, riguardanti l'assetto da dare al nuovo Regno ; e in ogni dibattito fa- ceva mostra di sé la preoccupazione per gli avvenimenti meridionali; quindi, oltre alle difficoltà inerenti agli ar- gomenti stessi, v'erano anche quelle che derivavano dalla necessità di schermirsi contro le domande, o insidiose o ingenue, dettate da ansie e da preoccupazioni legittime, e questo tanto più che egli sapeva come ogni sua pa- rola fosse pesata, vagliata all'interno e piìi all'estero, perchè, come disse uno dei suoi oppositori, l'onore- vole Macchi, « le moltitudini, use a concretare e a personificare ogni idea, furon tratte ad incarnare nel Presidente del Consiglio il concetto delle nazionali aspi- razioni, » e tutto si aspettava da lui e si cercava d'in- dovinare dalle sue espressioni e fin dall'atteggiamento del suo viso. Diplomaticamente, la situazione creata al Conte di Cavour dalla spedizione di Sicilia era abba- stanza intricata. La Russia e la Prussia, specialmente la prima, avevano vivamente protestato contro l'impresa di Garibaldi e ne ritenevano responsabile il governo di Vittorio Emanuele; ad esse si univano l'Austria e la Francia, però in forma molto più blanda, la prima per- chè intenta a curare le piaghe prodottele dalla guerra, la seconda perchè non poteva del tutto separarsi dal Regno che aveva contribuito a creare e dal quale aveva avuto, come pegno di gratitudine e ricompensa, Nizza e Savoia. Pur tuttavia nessun aiuto poteva Cavour aspet- tarsi, non che dall'Austria, neppure dalla Francia. L'In- ghilterra, invece, che aveva una vecchia ruggine coi Bor- boni di Napoli e aveva tutto l'interesse a che lo Stato italiano si fortificasse, purché non aggredisse l'Austria nella Venezia, appoggiava cordialmente Cavour, ma solo CAPITOLO X. 379 diplomaticamente, non effettivamente, per quanto l'opi- nione pubblica fosse addirittura entusiasta di Ga'ribaldi, di Vittorio Emanuele e anche di lui. Bisognava aiutare r impresa, ma non si poteva farlo in modo palese, per- chè sarebbe stato come indire una guerra di conquista contro il Re di Napoli che avrebbe potuto produrre complicazioni internazionali, da parte specialmente della Russia e della Prussia. D'altra parte gli aiuti a Gari- baldi dovevano essere, per quanto non palesi, molto efficaci, perchè la sua rovina, oltre che eccitare contro il governo l'opinione pubblica nel Regno che lo avrebbe ritenuto responsabile della sconfitta, poteva destare la reazione nel Regno stesso, incoraggiare il Re di Napoli e il Papa a tentare colle loro forze riunite un'impresa contro il nuovo Stato, e in questo caso potevasi sup- porre che l'Austria non mancherebbe di aiutarli. Ma, inoltre, un'altra grave preoccupazione teneva in pensiero Cavour. Garibaldi aveva francamente e leal- mente inalzata la bandiera regia ; il suo motto fatidico : Italia e Vittorio Eìiianuele lo separava nettamente da Mazzini, ma, indubbiamente, a determinare la spedi- zione dei Mille era intervenuto l'agitatore genovese e vi erano intransigenti repubblicani tra i suoi seguaci. Bisognava, quindi, impedire che questi, approfittando della sua buona fede e della sua irritazione contro Ca- vour, prendessero il sopravvento, e anche bisognava che, pur agendo in tutta libertà, Garibaldi si conside- rasse sempre sotto la direzione del Re, che doveva es- sere e rimanere il capo, il rappresentante, il dittatore vero dell'Italia. Ora, se solo ingannato, Garibaldi avrebbe potuto unirsi a Mazzini, dal quale lo divideva un'an- tipatia vivissima manifestatasi fin dal 1849 dentro le 380 CAPITOLO X. mura di Roma assediata, era invece supponibile che volesse assumere la direzione del movimento nazionale non contro il Re, ma sostituendosi al governo del Re, e quindi compromettendo il consolidamento dell'edificio non ancora compiuto. Come si vede la questione era molto intricata e difificile. Diplomaticamente Cavour si assicurò l'appoggio dell' Inghilterra per l'annessione del- l' isola di Sicilia quando fosse tutta conquistata da Ga- ribaldi, promettendole che non avrebbe ceduta nessun 'al- tra parte di territorio italiano alla Francia, non avrebbe aggredito l'Austria, e neppure direttamente fatti atti d'ostilità contro il Regno delle due Sicilie. Sicuro del- l'appoggio dell'Inghilterra, Cavour procedette senza ti- more. Le vittorie di Garibaldi, succedendosi precipito- samente, incussero un mortale spavento nella Corte di Napoli, che decise, benché a malincuore, di chiedere la mediazione all' imperatore Napoleone. Questi accettò a condizione che il Re Francesco II convenisse su que- ste basi: i' separazione della Sicilia da Napoli sotto un principe di Casa Borbone; 2 ■ concessione dello Statuto a Napoli; 3" alleanza col Piemonte. Cavour, interpellato se avrebbe aderito a negoziare in questi termini, non trovò difficoltà supponendo che era impossibile si approdasse a qualche cosa di concreto e riservando, per la prima clausola, il consenso dei sici- liani. Gl'inviati napoletani a Parigi resistettero a que- ste condizioni, che loro sembravano, ed erano realmente, umilianti, ma non poterono averne di migliori e dovet- tero consigliarne l'accettazione. Solo il 25 giugno la Corte di Napoli si piegò ad ammetterle e, immediata- mente, ne fu dato avviso con proclama al popolo napo- letano. Cavour cadde dalle nuvole nel sentir dall'amba- CAPITOLO X. 381 sciatore francese la notizia, insieme all'espressione del desiderio vivissimo del governo imperiale che fossero accettate, come base dei negoziati. Avvisò subito ai mezzi per trarsi d' impaccio. Rispose immediatamente al ministro francese che aveva date istruzioni al Villa- marina di richiamare l'attenzione del governo napole- tano su tre punti principali sui quali bisognava inten- dersi prima di aprire negoziati: i^ non esservi alleanza possibile finché durava la guerra civile in Sicilia, quindi il Re provveda a che senza grande effusione di sangue si ristabilisca l'ordine nell'isola; 2' che il Re dichiari quale sarà l'attitudine che assumerà di fronte all'Au- stria, essendo ovvio che, se fosse quale era stata nel passato, non poteva esservi accordo tra il suo governo e quello di Vittorio Emanuele ; 3" che si determini una linea di condotta comune verso Roma. Aggiunse che non aveva alcuna speranza nel rinsavimento della Corte di Napoli, e che gli pareva diffìcile potesse rinascere quella fiducia tra Re e popolo, la quale è la base essenziale d'ogni governo costituzionale e che da tanto tempo era spenta nel mezzogiorno. Più chiaramente spiegava il pensiero di Cavour un articolo comparso neW Opinione il 29 giugno, che, mentre faceva rilevare l' importanza dei cambiamenti imposti a Napoli dall'opinione pub- blica e dagli avvenimenti, esprinieva molta sfiducia nella Corte e nel Re. Cavour, persuaso che 1' unità fosse ne- cessaria all'Italia e vi fosse pericolo nel ritardarla, si- curo, come abbiamo detto, dell'Inghilterra e anche si- curo che le proteste della Francia non avrebbero mai condotto a una rottura, risolse di passar oltre e di giuo- care d'audacia. D'altra parte non era possibile che Ga- ribaldi si piegasse a rimettere la Sicilia ai Borboni altro 382 CAPITOLO X. che se fosse, non solo sconfitto, ma addirittura disfatto e ridotto all'impotenza. Quindi fece deliberare, in Con- siglio di ministri presieduto dal Re, che nessuna pres- sione si sarebbe fatta da Vittorio Emanuele per far ces- sare l'opera rivoluzionaria in Sicilia, né si sarebbero annodate trattative d'alleanza col Re di Napoli, se questo non rinunziava ad impiegare la forza per ridurre in ob- bedienza i siciliani. In altri termini si esigeva che Fran- cesco II rinunciasse alla Sicilia, e, conseguenza inevita- bile, era l'unione dell'isola al Regno italiano. Questa deliberazione fu mantenuta nonostante le pressioni in senso contrario della Francia, e i due inviati napoletani, il Manna e il Winspeare, giunti a Torino per negoziare l'alleanza, appresero che questa non era possibile se prima il loro Re non rinunciava alla Sicilia. Ne scris- sero al loro governo, il quale indugiò a rispondere perchè il generale Bosco aveva persuaso il Re che avrebbe sconfitto, e preso prigioniero, Garibaldi e ricon- quistata r isola. Invece il 20 luglio accadeva la batta- glia di Milazzo che era una clamorosa sconfitta del generale borbonico; allora Francesco II s'affrettò a te- legrafare che rinunciava alla Sicilia, cioè non si oppo- neva a che i siciliani disponessero liberamente delle loro sortì. Benché la situazione fosse cambiata, perchè il Re di Napoli rinunciava a ciò che non aveva più mezzo di riacquistare, Cavour non potè più schermirsi dall'en- trare in negoziati, e, acconsentendovi, si piegò a pregare il Re a scrivere a Garibaldi perché dimettesse ogni idea di passare lo stretto e di portare la guerra nel mezzo- giorno continentale. La lettera fu scritta, ma in termini tali che parve più incoraggiare che dissuadere il generale CAPITOLO X. 383 nel proposito di trarre a compimento l' impresa meravi- gliosa, e ciò perchè ormai appariva chiaro che nulla più poteva salvare la dinastia borbonica. L' Inghilterra era ormai convinta che fosse inevitabile 1' unione dell'Italia del sud coir Italia del nord, ma voleva esser sicura che non si ottenesse promettendo alla Francia altre cessioni territoriali, e non avesse l'efietto immediato di lanciare 10 Stato italiano contro l'Austria; essendo stata ingan- nata una volta a proposito di Nizza e Savoia, non volle esserlo una seconda, e perciò s' indirizzò nettamente al- l'Imperatore, chiedendogli dichiarasse che non pensava alla cessione della Sardegna o della Liguria, e che inoltre si unisse a lei per accertare il Gabinetto di Torino che non vi sarebbe stata opposizione a che le popolazioni del Regno di Napoli disponessero liberamente delle loro sorti, purché fosse preso formale impegno che non si sarebbe aggredita l'Austria nella Venezia. Il Thouvé- nel rifiutò di rispondere sulle ipotetiche cessioni terri- toriali e, in quanto all'impedire che fosse tentata qual- che impresa nel Veneto, disse che il miglior mezzo per allontanarne ogni probabilità era di proibire a Garibaldi di passare lo stretto. Perciò proponeva che i comandanti delle squadre inglese e francese nel Mediterraneo di- chiarassero a Garibaldi che gli era proibito di sbarcare nel continente, perchè vi si sarebbero opposti colla forza. 11 ministro inglese rifiutò di far ciò perchè sarebbe stato un atto d'intervento illegittimo; se la Francia l'avesse fatto da sola, l'Inghilterra avrebbe disapprovata la sua condotta e protestato contro di essa. Napoleone, allora, per vedere di scemare o togliere la diffidenza dell' Inghilterra, scrisse al Persigny, am- basciatore suo a Londra, che si disinteressava delle 384 CAPITOLO X. sorti dell' Italia meridionale. Cavour si persuase d'aver giudicato rettamente l'animo dell' Imperatore e indovi- nato il suo pensiero segreto, e si tenne sicuro di arri- vare all'unità senza altri ostacoli esterni. I negoziatori napoletani si videro, ed a ragione, perduti, tanto più che Garibaldi, indovinando il pensiero di Vittorio Ema- nuele, rispondeva di non potere accettare l' invito fat- togli di non passare nel continente. 'Cavour dichiarò che non aveva mezzi per piegare Garibaldi, quelli che erano in mano del governo e del Re, cioè i mezzi morali di persuasione e di consiglio, essendo già stati tutti inutilmente impiegati; perciò espresse ai plenipotenziari! borbonici il suo rammarico, e insieme la speranza che si presentasse un'altra occa- sione di riprendere i negoziati per la conciliazione, che ora erano resi inutili dal precipitoso svolgersi dei fatti. « Je n'ai pas voulu prendre sur moi de rompre les négociations. Celaaurait pu, entre autres graves con- séquences, amener peut-étre une rupture de nos rela- tions avec la Russie. » Poco dopo Garibaldi passava Io stretto, il mezzogiorno continentale, minato, per cosi dire, dalla propaganda cavouriana, insorgeva, la marina napoletana si ribellava, l'esercito si sfasciava e Fran- cesco II, espiando, oltre le sue, le colpe dei suoi ante- cessori, si rifugiava a Gaeta. La politica seguita da Cavour per rispetto alla Corte di Napoli e alla spedizione di Garibaldi fu aspramente, da molti storici, accusata di doppiezza, e anche quando si svolgeva, non fu approvata da parecchi liberali, tra i quali Massimo D'Azeglio. Nel fatto essa fu ben di- versa da quella antecedente che condusse alla guerra del 1859, ma, lo abbiamo già notato, furono le condi- CAPITOLO X. 3S5 zioni mutate che indussero Cavour a mutare. Egli si piegò alle circostanze, si preoccupò più del fine che dei mezzi, operò come aveva operato Pitt in rapporto al- l' Irlanda, quel Pitt che Cavour ammirava, ma vi fu co- stretto perchè si trovò in una di quelle condizioni nelle quali la morale politica non coincide, anzi urta, colla morale privata. Avrebbe dovuto dimettersi quando seppe che Garibaldi stava per partire per la Sicilia piuttosto che permetterne la spedizione ; se allora non lo avesse fatto, avrebbe dovuto dar ordine a Persano di inseguire colla squadra le navi dei nuovi argonauti, colarle a picco, far prigionieri i partenti, sottoporli a giudizio : questo gì' imponeva la morale privata, ma, anche che gli fosse stato possibile, e non lo era, così contenendosi avrebbe rovinata per sempre la causa italiana, avrebbe tradito il suo Re e il suo paese; la morale politica, quindi, gì' impose di passar oltre. Certamente suo dovere, se- condo i principii di pura morale, era o di astenersi da ogni aiuto alla spedizione quando fu sbarcata in Sicilia, o di dichiarare la guerra al Re di Napoli ; ma se la guerra era pericolosa e gli aiuti erano utili all' Italia, avrebbe mancato ai suoi doveri di statista se avesse prescelta la prima e negati i secondi. Certamente anche nei_ documenti diplomatici, nei discorsi ufficiali, scriveva e parlava in un modo e nei fatti agiva in un altro, certamente quando trattava coi legati borbonici l'alleanza col loro Re, sottomano la rendeva impossibile precipitando gli avvenimenti, e il suo rappresentante a Napoli si accordava coi liberali nemici del loro Sovrano, sobillava gli ufficiali di terra e di mare, corrompeva fino i cortigiani, fino i parenti di Francesco II, ed egli stesso, non solo permetteva, ma Cavour. 2s 386 CAPITOLO X. incoraggiava e partecipava in modo diretto a que- st'opera di corruzione; tutto ciò è brutto, è condan- nevole, è contrario ai principi! morali, ma se si fosse contenuto in modo diverso sarebbe stata possibile l'unità della patria? Evidentemente no, quindi il suo dovere di uomo politico gl'imponeva di contenersi in quel modo in cui si contenne. E poi era conforme alla morale man- tenere in piedi il trono dei Borboni, il cui governo era stato giustamente definito la negazione di Dio? Era sup- ponibile che Francesco II trattasse in buona fede un'al- leanza col Piemonte? Che in buona fede accettasse il tricolore italiano, osservasse la costituzione, riformasse lo Stato ? Non era evidente che soltanto la paura lo aveva persuaso a far mostra d'un rinsavimento, troppo tardo per essere sincero ? Che, passata la paura, sa- rebbe tornato a quei sistemi che erano nella tradizione della sua famiglia, della sua educazione, del suo Stato? E questo essendo certo, perchè si doveva, per scru- polo di lealtà, concorrere a rafforzare quel trono, quel Re e quello Stato? Perchè, sapendo che si tentava di ingannarlo, Cavour avrebbe dovuto rassegnarsi ad es- sere ingannato, invece che ingannare a sua volta? La verità è che lo statista ha l'obbligo di procurare, sopra tutto, l'utile, il bene del paese che gli ha affidato le sue sorti, che, nell'adempimento di quest'obbligo, deve cercare di servirsi sempre di mezzi che non con- trastino coi principii della morale; ma quando questo è impossibile, ed è posto nel bivio, o di non adempiere i suoi doveri di statista o di infrangere i principii mo- rali, deve adempiere i suoi doveri. Questo tanto più in tempo di rivoluzione, quando i rapporti giuridici tra Stato e cittadini e tra Stato e Stato sono infranti, CAPITOLO X. 387 quando si tratta di uscire dalla tempesta per entrare in porto. La storia non ha pietà per gli statisti inabili ma onesti, essi devono essere l'uno e l'altro; in ogni caso devono essere abili. Non è la dottrina del fine che giu- stifica i mezzi che deve prevalere, ma invece la dot- trina romana che legge suprema, cui tutto si deve pie- gare, è la salute dello Stato, cioè della patria, cui tutto si deve sacrificare. VI. In questo periodo della spedizione di Sicilia, della conquista dell'isola e del passaggio di Garibaldi sul continente, fino a che il dittatore glorioso abbandonò Napoli per tornare a Caprera, i dissidii tralui e Cavour si acuirono in modo pericoloso. Le cause e le responsabilità di questa discordia hanno dato luogo a polemiche appassionate, alcuni volendole tutte attribuire a Garibaldi, altri a Cavour. La verità è, come sempre o quasi sempre accade, nel mezzo. Da un lato Garibaldi aveva, massime dopo la cessione di Nizza, un'invincibile antipatia, quasi una ripugnanza per Cavour, la quale, in lui, veniva aumentata dalle suggestioni dei repubblicani e anche di quei democra- tici di sinistra, di cui abbiamo spesso parlato. Perciò qualunque provvedimento, qualunque misura, qualun- que consiglio che partisse, o paresse partire, da Cavour, lo trovava diffidente e mal disposto. Inoltre egli aveva l'opinione, mantenuta in lui da alcuni suoi consiglieri, che Cavour non volesse l'unità, che vi si opponesse con 388 CAPITOLO X. tutte le sue forze, che facesse, perciò, violenza al Re, e quindi pensava che a lui, Garibaldi, spettava di inter- pretare l'animo vero del Re, quindi, anche, di prose- guire la rivoluzione, portarla dall' isola nel continente, da Napoli a Roma, nel nome di Vittorio Emanuele, senza tener conto dei consigli, dei suggerimenti, degli ordini che gli potevano venire da Torino e specialmente da Cavour. Perciò era necessario che egli rimanesse dittatore, arbitro supremo delle provincie conquistate fino a che Vittorio Emanuele non potesse essere inco- ronato in Roma Re di tutta l' Italia. In questa opinione era fin da quando sbarcò a Marsala, e più fortemente si radicò quando i suoi successi meravigliosi lo porta- rono a Napoli. Ora, tutto questo non poteva essere ammesso da Cavour. Pienamente egli fidava nella lealtà di Garibaldi, ma non egualmente fidava nella sua finezza politica, credendo che potesse facilmente essere aggirato dai re- pubblicani. Egli esagerava, in buona fede, questo timore, perchè tratto, bisogna dirlo, in inganno dai suoi uomini di fiducia, principalmente dal Lafarina. Questi, patriota ardente, unitario vero, già mazziniano, poi convertito alla monarchia, portava nelle notizie, nei giudizii, nei sug- gerimenti a Cavour intorno alle cose di Sicilia, dopo che vi fu sbarcato Garibaldi, le sue preoccupazioni, i suoi odii, i suoi contrasti di siciliano, e spesso, perciò, se non diceva il falso, sformava o alterava il vero. Egli avrebbe voluto essere il consigliere di Garibaldi, il suo inspiratore ; non vi riusci, anzi fu guardato da que- sto con diffidenza, quasi fosse un sorvegliante e un intrigante molesto, e ciò lo irritò maggiormente e Io persuase a destare allarmi, a far vedere pericoli, che, CAPITOLO X. 389 se non erano del tutto infondati, non erano certo imminenti. Questa condotta del Lafarina suscitò ma- lintesi, aumentò i dissidii, e a poco a poco scavò un abisso tra Garibaldi e Cavour, incitando il primo ad atti che forse non avrebbe commessi, amareggiando e suscitando sospetti, forse eccessivi, nell'animo del se- condo. Ad ogni modo Cavour aveva perfettamente ra- gione di esigere che la direzione del movimento italiano non sfuggisse dalle mani del governo del Re, e quindi di deplorare e di opporsi a che Garibaldi si atteggiasse a dittatore indipendente, biasimasse la condotta del go- verno e anche, come fece a Napoli, si permettesse di scrivere pubblicamente al Re, consigliandolo a cambiare ministri. Bisognava assolutamente riprendere le redini con un atto di energia, bisognava che il Re in persona intervenisse, imponendosi a Garibaldi e a tutti. Di qui la repentina, fulminea risoluzione presa da Cavour di sconfinare dalla Cattolica, invadere e conquistare le Mar- che e l'Umbria, rispettando Roma e il suo territorio, penetrare nel Regno di Napoli con un esercito che avesse a capo il Re, e questi assumesse la dittatura fino allora esercitata da Garibaldi. Per quanto l'eroe dicesse e sostenesse che il mez- zogiorno continentale era ormai in sua mano, la verità era ben diversa, e quindi, anche per questa ragione, era necessario che l'esercito regio fosse incamminato su Napoli. I soldati rimasti fedeli alla causa borbonica e al Re, rinchiuso in Gaeta, si erano riannodati e for- mavano un esercito imponente, che poteva anche con- tare sulle simpatie delle popolazioni campagnole. I sol- dati erano valorosi e, eliminati gli inetti e i traditori, si poteva supporre che fossero ben guidati, e se Garibaldi 390 CAPITOLO X. fosse stato sconfitto, poteva prodursi una reazione pe- ricolosa e mutare la gloriosa impresa in dolorosa di- sfatta. E ciò non tenendo conto che delle possibili battaglie in campo aperto, che se si pensava che manca- vano a Garibaldi i parchi d'artiglieria e i servizii neces- sarii per gli assedii, mentre il nemico possedeva ancora le fortezze ben munite, una delle quali, Gaeta, quasi im- prendibile, appariva sempre più necessario l'aiuto d'un esercito regolare ad assicurare e garantire gli effetti delle vittorie dei volontaria Né, d'altra parte, mancavano gli argomenti per ir- rompere negli Stati del Papa. Pio IX aveva raccolto un buon nerbo di truppe, le aveva poste sotto il co- mando d'un generale francese, il Lamoricière, già re- pubblicano, ora bigotto e legittimista, sempre nemico a Napoleone, che con jattanza sfidava a guerra l'eser- cito piemontese, del quale, diceva, avrebbe avuto facil- mente ragione, perchè gl'italiani non sapevano battersi da veri soldati, e insultava il Re e il governo italiano, come barbari nemici della civiltà e della religione, mi- nacciando, alla prima occasione, di irrompere in Roma- gna. Poiché l'Imperatore aveva sempre dichiarato che non si riteneva obbligato che a garantire al Papa il pa- cifico possesso di Roma e del suo territorio, pensava Cavour che non si sarebbe opposto all' unione delle Mar- che e dell'Umbria, quando ciò fosse necessario per impedire alla rivoluzione capitanata da Garibaldi di ro- vesciarsi su Roma. Fu anche questa volta sicuro indo- vino. Deliberata l' impresa, i liberali delle due provincie pontificie furono eccitati a procacciarne il pretesto, su- scitando moti rivoluzionarli contro il governo pontificio. Questi infatti accaddero in varii luoghi, furono per ordine CAPITOLO X. 391 del Lamoricière ferocemente repressi; la ragione, più che il pretesto, era trovata, fu intimato al Papa il di- sarmo e il licenziamento immediato delle truppe rac- colte ; avutane risposta negativa, l'esercito regio, diviso in due corpi, invadeva simultaneamente le Marche e l'Umbria l'ii di settembre, e in sedici giorni le con- quistava, facendo prigioniero Lamoricière. Il Re, che aveva in vm proclama ai soldati, spiegato i suoi inten- dimenti e protestato che non era nemico né della reli- gione, né della Chiesa, né del Papa, la cui sede avrebbe rispettata, ma solo voleva distrutte quelle nuove com- pagnie di ventura, che opprimevano le popolazioni, ec- citavano rivolte, impedivano che in Italia si stabilisse l'ordine e cessasse la penisola di essere un centro di agitazioni rivoluzionarie che minacciavano la pace d' Eu- ropa, da Ancona assunse il comando dell'esercito, e, con un proclama ai soldati e un altro ai popoli delle due Si- cilie, si annunciava vindice e rappresentante dell'Italia, che doveva essere tutta degl' italiani, e affermava che egli avrebbe chiuso nella penisola l'èra delle rivoluzioni. Intanto a Napoli si facevano sempre più fitti gì' intrighi attorno a Garibaldi per mantenerlo ostile a Cavour e al governo piemontese, per impedirgli di consentire a un'annessione immediata per mezzo d'un plebiscito, e a questi intrighi partecipavano, non solo i garibaldini che contornavano il Generale, ma i repubblicani fede- ralisti, con Carlo Cattaneo, e i repubblicani unitarii con Mazzini ; Garibaldi vinceva sul campo al Volturno e a Capua, incatenando, col genio e l'eroismo, la fortuna che accennava a sfuggirgli, ma non sapeva vincere gl'in- trighi dei faziosi e dei politicanti che mettevano sé stessi, i loro odii e le loro ambizioni al disopra del- 392 CAPITOLO X. l'interesse supremo della patria. Fu lunga e dura la lotta in quell'animo generoso, e già si disperava della vittoria, quando Garibaldi, messo nell'alternativa o di ribellarsi al Re che egli aveva acclamato salvatore d' Ita- lia, messo della Provvidenza per fare unita la patria, o di cedere, magnanimamente cedette ; 1' 8 ottobre pro- mulgò il decreto che convocava i comizii popolari per il plebiscito sulla formula: «lì popolo vuole l'Italia una e indivisibile con Vittorio Emanuele re costituzio- nale e suoi legittimi discendenti, » mosse incontro a Vit- torio Emanuele, e trovatolo a Montecroce lo salutò gridando: «Viva il Re d'Italia!» L'Italia era fatta. VII. A proposito della spedizione nelle Marche e nell'Um- bria, fu detto che Cavour non vi si risolse, che dopo averne avuto il permesso da Napoleone. Ciò è inesatto, per non dire falso. Essa fu risoluta, fatta deliberare, pre- parata per un'immediata esecuzione, da Cavour, d'im- pulso proprio e assumendone ogni responsabilità. Bensì egli sapeva che Napoleone non poteva opporvisi reci- samente, per la complicità assunta colle audacie italiane esigendo la cessione di Nizza e Savoia, e perchè avrebbe, opponendovìsi, incoraggiata, quasi giustificata la rivo- luzione. Farini e Cialdini, inviati da Cavour presso di lui in Savoia, avevano l' incarico di dargliene avviso, non di chiedergliene il consenso. Certamente egli mosse ob- biezioni, che furono ribattute, espresse riserve e con- cluse dicendo che almeno si facesse presto, ma non per- mise ne implicitamente, né esplicitamente. Anche che CAPITOLO X. 393 avesse proibito, la spedizione avrebbe avuto luogo nel medesimo modo : Cavour era disposto, parato a tutto pur di riuscire. Né fu piccolo il rischio che correva. Egli, per fare la spedizione, dovette sguernire le fron- tiere verso l'Austria, ed era possibile che, se l'esercito avesse patito una sconfitta, l'Austria avesse tentata la ri- vincita. Ma doveva osare e osò, perchè il ritardo avrebbe condotto certamente a un disastro. Se Garibaldi non cedeva, se il Re non si fosse messo alla testa del suo esercito, se i borbonici avessero rialzato il capo in se- guito a una vittoria, 1' Italia ripiombava o nella rea- zione o nell'anarchia rivoluzionaria, e si sarebbe avve- rata la profezia di Mazzini che Cavour non sarebbe riuscito a fare l' Italia, ma invece avrebbe disfatto il Pie- monte. Mai la sua audacia fu più grande, perchè mai maggiore vide il pericolo che minacciava l'opera sua. E mai anche la sua azione fu più rivoluzionaria che in quest'occasione. La monarchia secolare di Casa Savoia s' unì colla rivoluzione, sotto l' impulso potente del suo genio ; Cavour non sarebbe riuscito in ciò se non avesse trovato un Re come Vittorio Emanuele, coscientemente audace e spregiudicato; ma questo non diminuisce la grandezza dell'opera di Cavour, bensì solamente spiega come potesse attuarsi. Egli capì questo, tanto che si affrettò a legalizzarla per mezzo del parlamento. Il suo squisito senso libe- rale lo persuase che bisognava al più presto uscire dallo stato rivoluzionario, rientrare nella legge e nell'ordine giuridico. Perciò, prima ancora che nelle Marche, nel- r Umbria e nelle provincie meridionali fossero fatti i plebisciti, egli chiese al parlamento che il governo fosse autorizzato ad accettarli. E ciò anche gli parve neces- 394 CAPITOLO X. sario per provocare il giudizio del parlamento sul suo dissenso con Garibaldi. Questi aveva detto che le annes- sioni non si dovevano fare, non si doveva, cioè, uscire dal provvisorio, fino a che Venezia e Roma non fossero ri- congiunte alla patria ; Cavour era d'opinione, invece, che non si potesse d'un tratto conquistare Venezia e occu- pare Roma, e urgesse chiudere 1' èra delle rivoluzioni e riordinare lo Stato : decidesse il parlamento tra i due. Questo il motivo principale che lo spinse a presentare la legge accennata e a farla discutere con sollecitudine, questo il senso della relazione con cui l'accompagnò, e del discorso che pronunciò dinanzi alla Camera r II ottobre del 1860. In questo egli insistette princi- palmente sul dissenso tra il Ministero e Garibaldi, al cui patriottismo e ai cui grandi servigi rese omaggio, pur di- chiarando che era un cittadino come gli altri al quale non era lecito sovrapporsi alle leggi e alla costituzione. Gari- baldi, egli disse, aveva intimato al Ministero di dimettersi, questa intimazione doveva esser respinta, ma era dovere del governo d' invocare il giudizio del parlamento. Se questo disapprova la politica del Ministero, vi sarà crisi ministeriale, ma regolare secondo i principii costituzio- nali; se l'approva, il generale Garibaldi dovrà inchinarsi al voto della rappresentanza nazionale. Dopo ciò re- spinse il sospetto che le annessioni nascondessero il pro- posito o l'impegno di altre cessioni territoriali alla Fran- cia, per averne il consenso. Dichiarò che l'annessione anzi renderebbe impossibile ogni domanda di questo ge- nere, perchè, fatta a una nazione di 22 milioni di abi- tanti, attirerebbe una risposta degna dei discendenti di Pier Capponi, Per rispetto a Roma e a Venezia, egli ebbe parole precise per quanto prudenti. Non è oppor- CAPITOLO X. 395 tuno, né onesto andare a Roma finché è occupata da truppe francesi, ma vi si deve tendere sempre, non ri- nunciarvi mai, perché la città eterna sulla quale venti- cinque secoli di storia hanno accumulato ogni genere di gloria deve diventare la splendida capitale del Regno italico. Quando? Come? Non si può precisare; la que- stione di Roma non è di quelle che si sciolgono colla sola spada ; anche le forze morali devono concorrervi ; specialmente la libertà. Quando sarà radicata la con- vinzione che la libertà é favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso, la gran maggioranza dei cat- tolici « illuminati e sinceri riconoscerà che il pontefice augusto che sta a capo della nostra religione, può eser- citare in modo molto più libero, molto più indipendente il suo sublime ufficio, custodito dall'amore, dal rispetto di 22 milioni d' italiani, che difeso da venticinquemila baionette. » Per rispetto a Venezia, dichiarò che non si poteva rompere guerra all'Austria, perchè non eravamo ordinati e non lo voleva 1' Europa. E, checché dicano al- cuni, aggiunse, non é possibile andar contro all'opinione generale, bisogna quindi cambiare questa opinione, la quale ora è contraria perchè si crede che non siamo abili a costituirci in nazione libera e indipendente, e quindi ci crede impotenti a compiere da soli l' impresa. Costi- tuiamoci, proviamo che questo giudizio é errato e l'opi- nione cambierà. Si crede anche che sia possibile che l'Austria con un savio governo si affezioni la Venezia ; l'esperimento fallirà e con esso cadrà un altro pregiudi- zio. Quando sarà riconosciuto impossibile all'Austria reggere la Venezia altro che con un sistema di com- pressione, non solo la Francia, ma l' Inghilterra e la Germania rifiuteranno di esser complici del suo supplizio 396 CAPITOLO X. e allora « saremo alla vigilia della liberazione di quella illustre città. Come questa avrà da effettuarsi, se colle armi o coi negoziati, la Provvidenza sola lo deciderà.» Questo il discorso di Cavour che persuase la Camera in modo che la legge proposta fu votata con 296 voti favorevoli e soli cinque o sei contrarli. Eguale votazione riportò in Senato, dove però Cavour ebbe da difendere la sua politica da attacchi mossigli dal Brignole-Sale, che la dichiarò rivoluzionaria e antireligiosa, e da Massimo D'Azeglio, il quale, pur dichiarando che avrebbe votata la legge, riservava ogni giudizio sulla moralità della condotta seguita e sulle conseguenze dell'unione che gli pareva immatura. Per quanto confortato e rinvigorito dalle vittorie in parlamento, Cavour aveva da superare gravi difficoltà nelle Provincie meridionali. I borbonici erano sconfitti, ridotti, assediati in Gaeta; ma il brigan- taggio, favorito da essi, fioriva; nelle città, i partiti si dilaniavano, i partigiani di Garibaldi si agitavano, per quanto non incoraggiati da questo che nobilmente, senza accettare alcuna ricompensa, s'era ritirato a Caprera; gli elementi torbidi che le rivoluzioni portano sempre a galla minacciavano il ristabilimento dell'ordine, 1' as- sestamento regolare dell'amministrazione nelle provincie riusciva quasi impossibile; si erano votati con entusiasmo i plebisciti, si acclamava il Re, ma non si facevano che scarsi e mal sicuri progressi nel rendere proficua, fe- conda di buoni effetti l'annessione. E di ciò Cavour si accorava, sforzandosi di portarvi rimedio, senza sempre riuscirvi. A queste difficoltà s'aggiungeva l'ostinazione di Napoleone nel lasciare la sua flotta a guardia del golfo di Gaeta per impedire 1' investimento della for- tezza dalla parte del mare ; il che mandava in lungo CAPITOLO X. 397 l'assedio e manteneva vive le speranze dei borbonici dentro e fuori la fortezza, concorrendo così a prolun- gare le cause del malessere nel mezzogiorno e a ritar- dare l'opera di riordinamento di esso. Riesce difficile capire quali fossero i motivi veri di questa ostinazione di Napoleone, ad ogni modo molto si adoprò Cavour a vincerla e alfine vi riuscì. Appena partita la flotta fran- cese, l'assedio, vigorosamente condotto, costrinse in po- chi giorni la piazza alla resa, che fu stabilita lasciando libero il Re di partire per Roma, come infatti fece. Poco dopo, gli altri punti fortificati occupati dai borbonici dovettero cedere, e così sparì ogni vestigio della signoria dei Borboni in Italia, e cadde per sempre il trono di Carlo III. Le elezioni al parlamento indette pel 27 gennaio del 1861 segnarono un trionfo per la politica di Cavour in tutta la penisola liberata, né valsero gl'intrighi dei partigiani dei governi caduti, le agitazioni e le invet- tive mazziniane, e di quelli che sfruttavano il nome di Garibaldi e i risentimenti dell'eroe contro il grande statista. Gli avversarii di questo vennero da per tutto sconfitti, solo pochi si salvarono, quasi nessuno dei piii accesi. Il giorno iS febbraio fu inaugurata solennemente la prima legislatura dell' Italia riunita ; a presidente della Camera, su proposta spontanea del Ministero, fu eletto Urbano Rattazzi, volendo con ciò significare che ormai doveva considerarsi cessato ogni dissidio fra i liberali, che avrebbero proceduto concordi nell'opera di conso- lidamento e completamento del maestoso edificio della nuova Italia. Pur troppo la concordia auspicata e che sarebbe stata tanto necessaria poco durò, ma di ciò non dobbiamo occuparci. 398 CAPITOLO X. L'Italia, meno Roma e Venezia, era unita in un solo Stato, ma le mancava la consacrazione ufficiale. Le grandi potenze straniere, meno l'Inghilterra, ave- vano ritirati i loro ambasciatori presso Vittorio Ema- nuele, come protesta contro la politica seguita nell' Ita- lia meridionale e verso il Papa; se v'era ragione per credere che la Francia unicamente in apparenza osteg- giasse il nuovo assetto dell'Italia, non uguale fiducia si poteva avere nelle idee della Russia e della Prussia. L' unico modo per uscire da questa condizione penosa era di affrettare la costituzione legale del nuovo Regno, così si sarebbe creato una Stato di fatto, che non po- teva tardare a divenire anche Stato di diritto. Si sareb- bero eccitate, provocate nuove proteste dall'Austria, dai principi spodestati, dal Papa, ma ad ogni modo si usciva dall'incertezza. Perciò Cavour presentò il 21 feb- braio al Senato un progetto di legge pel quale Vittorio Emanuele assumeva per sé e pei suoi successori il ti- tolo di Re d'Italia. Si discusse se doveva conservare il numero II che era indicato dall'ordine di successione della dinastia sabauda, se si doveva chiamare Re d' Ita- lia o Re degli Italiani, come, dopo, se era opportuno mantenere la frase per grazia di Dio accanto a quella che affermava la volontà nazionale. Cavour, bene inter- pretando il pensiero di Vittorio Emanuele che voleva innestato il suo diritto dinastico nel nuovo diritto creato dalla rivoluzione, non accettò modificazioni e special- mente insistette sulla frase Re d'Italia come quella che dichiarava più apertamente il concetto dell'unità della patria. La legge proposta fu votata all' unanimità e così il più grande fatto storico dei tempi moderni, 1' unità d'Italia, entrò nell'ordine legale. Cavour, che era col CAPITOLO X. 399 Re il vero trionfatore, rivendicò, e ne aveva ben diritto, la parte che aveva avuta nell' opera gloriosa. « Tutti gli italiani, egli disse, hanno avuto parte nel gran dramma del nostro risorgimento, ma mi sia pur lecito il dirlo e proclamarlo con profonda convinzione, negli ultimi avvenimenti l'iniziativa fu presa dal governo del Re. Fu il governo del Re che prese l'iniziativa della campagna di Crimea, fu il governo del Re che prese l'iniziativa di proclamare il diritto d'Italia nel Con- gresso di Parigi, fu il governo del Re che prese l' ini- ziativa dei grandi atti del 1859, in virtù dei quali l'Ita- lia si è costituita. » Chi poteva dargli torto, chi poteva non convenire che non era vanto superbo il suo, ma giusta e doverosa constatazione di fatti veri e innega- bili? E questo tanto più che egli ne traeva la conse- guenza che al governo spettava di continuare in quella politica « a cui è dovuto in gran parte quanto s'è com- piuto, e si dovrà quanto rimane da compiersi. » Vili. Ma la proclamazione del Regno d'Italia includeva il concetto che tutte le terre italiane ne facessero parte. Ora se questo non era contestato, né contestabile, per rispetto alle terre ancora soggette all'Austria nel nord della penisola, se le stesse potenze, le quali si oppo- nevano alla ripresa della guerra per l'affrancazione della Venezia, non negavano la legittimità delle aspirazioni italiane, per Roma le cose erano diverse. Anzitutto vi era la garanzia della Francia a protezione del Papa, imposta a Napoleone da riguardi politici verso il clero 400 CAPITOLO X. e i clericali francesi, non da un suo sentimento perso- nale; poi v'era l'opinione comune in Europa che fosse necessaria, per la libertà del sommo Pontefice, la sua sovranità temporale, e questa opinione non era solo dei cattolici oltramontani, come si diceva in Francia, ma anche di parecchi spregiudicati in materia religiosa, di molti anche non cattolici. Nel fatto, astraendo dai clericali e dai cattolici veramente e profondamente pa- pisti, si voleva il Papa sovrano temporale perchè non si trovasse sotto la soggezione immediata di quel qualun- que sovrano che imperasse in Roma, e perchè, avendo un dominio piccolo, mal determinato, era soggetto, an- che nella sua azione spirituale, alle influenze degli Stati che si contendevano la supremazia in Europa. Quindi, non perchè fosse libero si voleva il Papa sovrano tem- porale, ma perchè non fosse soggetto all' influenza d' un solo Stato, pur rimanendo soggetto a quella di tutti. Ma poiché il governo papale, anche quando i costumi della Corte di Roma furono migliorati e i Pontefici non diedero più al mondo cattolico lo scandalo di una cor- ruzione politica e religiosa ammorbante, era fondamen- talmente cattivo, refrattario ad ogni miglioramento o progresso, e i popoli male vi si adattavano e con fre- quenti ribellioni, congiure, ardimenti e delitti manife- stavano il loro abborrimento del dominio teocratico, da un lato le potenze europee cercarono in varie occasioni e modi dì persuadere alla Corte di Roma riforme, al- meno amministrative, efficaci a dirimere il malcontento senza mai riuscirvi, dall'altro l'Austria e la Francia do- vettero tenere occupata la prima le provincie, la seconda la capitale con loro truppe per impedire che il trono temporale si sfasciasse sotto i colpi dei popoli soggetti. CAPITOLO X. 401 Fallito il tentativo generoso, ma assurdo, del neo-gue!- fismo, ricaduto Pio IX nelle braccia della reazione euro- pea, le cose si aggravarono e noi abbiamo visto che uno degli argomenti più forti usati da Cavour per pro- vare che la condizione d' Italia era contraria ad ogni principio, non solo di progresso, ma di umanità civile, veniva tratto appunto dallo Stato romano. Avvenuta la rivoluzione del 1859, il governo pontificio perdette la Romagna, e, per quanto sorgessero ostacoli all'annes- sione di questa al Piemonte, fu da tutti riconosciuto impossibile che quella regione tornasse sotto il dominio del Papa, tanto era radicato il convincimento che quello era il pessimo tra i governi. E neppure fu possibile im- pedire, per le stesse ragioni, l'annessione delle Marche e dell' Umbria ; quindi il fatto solo che era stata 1' Eu- ropa, o volente o nolente, costretta ad ammettere che, per le migliori e più popolose sue Provincie, il dominio temporale, una volta caduto, non poteva più essere re- staurato, veniva a infirmare la legittimità e la ragion d'essere dello Stato stesso nelle provincie che ancora gli rimanevano. Perciò anche l'abolizione completa del potere temporale, idea vecchia nella storia d' Europa, tentata da Napoleone I, discussa nello stesso Congresso di Vienna, invocata dai pensatori di tutto il mondo ci- vile, affermata col sangue da mille martiri gloriosa- mente ribelli, parzialmente attuata nei fatti dalla rivo- luzione italiana trionfante, doveva fatalmente imporsi quando fu costituito il Regno d'Italia. Questo capì Ca- vour, e ammise anche Vittorio Emanuele. Cavour, che si è voluto dipingere come uno statista freddo, inaccessibile alle suggestioni della fantasia e del cuore, privo di ideali, specialmente di ideali italiani, Cavour. 26 402 CAPITOLO X. solamente pronto ad accogliere i suggerimenti dell'inte- resse politico, era invece infiammato, pervaso dall' ideale radioso che usciva sfolgorante da tutta la nostra sto- ria, che era stato affermato nei secoli dai nostri pen- satori e dai nostri poeti ; egli intese tutta la grandezza di Roma, intese che essa era necessaria all'Italia, che la rivoluzione italiana fatalmente non sarebbe compiuta che quando la eterna città fosse la capitale dell' Italia risorta. In ciò il pensiero suo coincideva perfettamente con quello di Mazzini e di Garibaldi, ed errano coloro che questo negano. D'altra parte, anche nel rapporto pratico politico, il Regno doveva necessariam.ente mirare a Roma. Non si poteva governare l' Italia da Torino, né da alcun'al- tra grande città italiana. Torino o qualunqu' altra città non potevano essere che capitali provvisorie, non mai definitive, perchè avrebbero eccitata la gelosia di quelle ugualmente illustri e grandi, che fossero state escluse. Invece dinanzi a Roma tutte le competizioni, le gelosie, le rivalità cessavano, perchè essa era la capitale desi- gnata dalla storia, che nel suo nome solo affermava e consolidava il principio dell'unità. Inoltre, sempre nel rapporto politico, l' Italia non poteva essere sicura fin- ché nel bel mezzo della penisola vivesse uno Stato pic- colo per territorio, ma il cui Sovrano aveva un'immensa autorità morale, uno Stato impotente a reggersi da sé, e quindi sempre bisognoso di essere puntellato dallo straniero, e che allo straniero, nemico d' Italia, offriva il mezzo di separarla nelle sue due parti sbarcando nel suo territorio un esercito. Per di più, rispetto alla Francia, come avrebbe potuto il Regno d'Italia essere da questa indipendente, quando in Roma s' inalzava la bandiera CAPITOLO X. 403 francese, e a Civitavecchia potevano impunemente sbar- care truppe di quella nazione? Quindi, anche senza inspirarsi agli alti ideali che pur aveva e manifestava apertamente, Cavour doveva pensare che l'opera sua non era compiuta, pur pre- scindendo dall'acquisto di Venezia, finché Roma non fosse resa italiana. Ma come riuscirvi? Qui stava la difficoltà. Non si poteva ricorrere alla forza materiale, finché nella città eterna fosse un presidio francese ; una guerra colla Francia non era possibile ; quindi bi- sognava persuadere l'Imperatore a ritirare le sue truppe, ma questo, per la pressione del clero e del partito cle- ricale di cui abbisognava per sostenersi sul trono, e per l'impegno d'onore che aveva assunto, non poteva ordinare il ritiro finché non fosse garantito contro ogni assalto esterno il territorio pontificio, o fino a che non avesse acconsentito il Papa stesso a rinunciare al po- tere temporale, e della necessità di questo non fossero più persuasi i cattolici del mondo. Su questi elementi morali e di fatto della questione romana si fondu il pensiero di Cavour per risolverla. Mentre si doveva dal parlamento italiano affermare so- lennemente il diritto dell' Italia su Roma e la volontà che divenisse di questa la capitale, bisognava anche fissare, determinare, le basi sulle quali questo diritto e questa volontà si dovevano concretare. Di qui l'idea e il principio della libertà della Chiesa, determinati nella celebre formula : libera Chiesa in libero Stato. Quando l' Italia avesse abbandonato quel regime giu- risdizionalista col quale gli Stati cattolici, la Francia stessa, tenevano soggetta la Chiesa, e che avevano adot- tato l'Austria e gli Stati italiani spariti, malgrado le 404 CAPITOLO X. proteste del Pontefice, di fronte all' unità, quando la Chiesa non solo fosse stata in Italia pienamente libera nell'esercizio della sua missione spirituale, ma anche indipendente dallo Stato nella sua amministrazione e nel suo reggimento interno, come potevano i cattolici del mondo dire che allo Stato italiano doveva essere impedito d'entrare in Roma, perchè empio, nemico della Chiesa e della religione? Come potevano gli Stati esteri opporsi all'occupazione di Roma, allegando il pretesto che il possesso di questa era necessario al Pontefice per il libero esercizio del suo ministero spirituale, quando que- sto ministero, per le leggi interne del Regno, si svolgeva in Italia con molta maggiore libertà di quella che essi gli consentissero nei loro territorii ? A che scopo e con quale utilità impedire all' Italia l'occupazione di Roma, mantenere nella penisola un fomite continuo di rivolu- zione, impedirne il consolidamento? Dichiarando e ap- plicando la libertà della Chiesa, si venivano a togliere alla causa del potere temporale quegli elementi morali, sentimentali, religiosi che fino allora ne avevano reso impossibile la caduta, si conquistava l'opinione pubblica illuminata e liberale, si rendeva necessaria la partenza del presidio francese da Roma, il cui mantenimento non avrebbe più potuto spiegarsi che coli' intenzione mani- festa di non permettere all' Italia il compimento della sua unità e di tenerla in perpetua soggezione. Tolto così l'aiuto esterno al potere temporale, lasciato alle sole sue forze, lo Stato pontificio, dopo le annessioni della Romagna, delle Marche e dell'Umbria, non aveva le condizioni né economiche, né politiche, né morali per reggersi, quindi, quando, oltre alla libertà nel reg- gimento della Chiesa, fosse garantita al Papa la piena CAPITOLO X. 405 indipendenza nell'esercizio del potere spirituale e lo si fosse dall' Italia mantenuto nel suo grado eccelso e gli si fossero dati i mezzi, anche economici, per ciò, per- chè il Papa stesso non avrebbe rinunziato a quell' ul- timo residuo di dominio temporale, sempre incerto, sempre minacciato dalla rivoluzione esterna e dal mal- contento delle popolazioni? Il Papa doveva capire che quel piccolo dominio temporale gli sarebbe stato sempre insidiato dall'Italia : non era meglio per lui cedere di buon grado quello che a lungo non avrebbe potuto ritenere? Egli avrebbe cambiato un potere mal certo, esposto a continue e implacabili ostilità, che lo obbligava a im- piegare mezzi di governo ripugnanti alla sua divina missione in terra, con una grandissima autorità morale, con un'ampia libertà nell'esercizio di questa missione, sarebbe stato benedetto, avrebbe amicato alla Chiesa tanti che da lei, appunto per la questione del potere temporale, si erano staccati, avrebbe, insomma, guada- gnato molto, tutto, facendo la rinunzia, mentre poteva molto, se non tutto, perdere se si ostinava nel rifiuto. E anche che avesse potuto contare sempre sull'aiuto d' un presidio straniero, era impossibile non vedesse che come sovrano temporale questa protezione lo umi- liava e come sovrano spirituale lo metteva, se non in soggezione del protettore, certo in una posizione non degna verso di esso, lui Padre di tutti i fedeli e che tutti doveva egualmente considerare e amare. Per tutti questi motivi, che abbiamo brevemente espo- sti, Cavour pensò che, proclamando la libertà della Chiesa, offrendo al .Sommo Pontefice ogni maggiore garanzia, per la indipendenza del suo potere spirituale, sarebbe riuscito a togliere ogni ragion d'essere al presidio fran- 4o6 CAPITOLO X. cese in Roma, e, probabilmente, a indurre il Papa a ri- nunziare spontaneamente al possesso temporale di Roma. E in tal senso avviò trattative colla Curia romana per mezzo di agenti fidati, mirò a intendersi coli' Impera- tore, fece esplicite dichiarazioni alla Camera. Perciò alcuni si sono creduti autorizzati a dichiarare che, nella mente di Cavour, la libertà della Chiesa non era che un espediente politico da lui creduto idoneo a vincere le difficoltà che si frapponevano all'acquisto di Roma, altri, invece, hanno sostenuto che egli, in quel- l'occasione, non fece che esporre e proclamare una dot- trina che era profondamente radicata in lui, e che avrebbe in ogni modo applicata, qualunque si fossero per essere le risposte della Curia romana. Anche qui la verità sta nel mezzo. Cavour non era né un filosofo, né un dot- trinario, né un professore, era uno statista, quindi i principii che enunciava, potevano avere radice in con- vincimenti dottrinali o teorici, ma non sarebbero stati da lui enunciati senza la persuasione che politicamente erano opportuni od utili ; in questo senso, la dichiara- zione della libertà della Chiesa fu un espediente politico, non volgare, non empirico, fondato su convincimenti profondi, finché si vuole, ma sempre espediente. Però, anche è certo, che aveva troppo squisito il senso della libertà, era troppo uomo moderno per non capire che molti di quegli arnesi giurisdizionalisti, di cui si pote- vano giovare, e s'erano giovati. Luigi XIV, Giuseppe II, Pietro Leopoldo, il Tannucci e il Rombai, che Napo- leone aveva diseppelliti e rimessi a nuovo nel concor- dato, ripugnavano colle condizioni stesse della vita mo- derna, e perciò non si perdeva nulla a rinunciarvi. Quindi si può dire che era, per ciò solo, predisposto alla dot- CAPITOLO X. 407 trina della libertà della Chiesa. Ma non bisogna andare troppo in là nelle deduzioni e nelle conseguenze. Anzi- tutto quei suoi scritti e quei suoi discorsi anteriori al 1860 che comunemente si citano a prova del suo convinci- mento favorevole alla dottrina della libertà della Chiesa, riflettono principalmente i privilegii, di cui godevano la Chiesa e la religione nel vecchio Piemonte, la pro- tezione speciale, di cui queste erano investite, con offesa della libertà civile di coscienza, di pensiero e di culto, non l'atteggiamento giuridico dello Stato verso l'ente, l'organismo della Chiesa, e quindi non si può trarre da essi alcuna conseguenza nel senso della dottrina, di cui si fece poi banditore, massime quando si voglia andare al di là dei limiti nei quali abbiamo visto che doveva giudicare il sistema giurisdizionalista. Inoltre non biso- gna dimenticare che i suoi progetti di concordato, le sue trattative implicavano sempre il consenso del Papa; era un proprio e vero contratto che mirava a fare col Pontefice sulla base del do ut des ; queste trattative fu- rono troncate dalla morte, quindi è sempre molto az- zardato volere indovinare quel che avrebbe fatto, a tale proposito, il Conte di Cavour, quando si fosse convinto che il Papa era veramente irremovibile nel suo non pos- sumus. E anche non basta dire che reputava antiquati, inefficaci, in contrasto colle condizioni della vita mo- derna, molti istituti del giurisdizionalismo, per essere autorizzati a concludere che ne avrebbe fatto sempre, e in ogni circostanza, getto ; Cavour, ripetiamo, era uno statista, non un dottrinario, e gli statisti veri e grandi, di regola, non gettano le armi, quando appaiono inu- tili, le ripongono nell'arsenale, piuttosto che cederle senza compenso o spezzarle. In somma si può dire che 4o8 CAPITOLO X, per Cavour la dichiarazione della libertà della Chiesa fu, in senso nobile e alto, un espediente politico, il quale, in una certa misura, rispondeva ai suoi convin- cimenti teorici, ma non si può andare più in là, non si può, senza pericolo di incorrere in errore, cercare d'in- dovinare quello che avrebbe fatto se avesse vissuto e do- vuto entrare in Roma a colpi di cannone. Certamente, anche questo bisogna dire, egli aveva, come Gioberti, come Rosmini, e altri grandi pensatori, la profonda con- vinzione che l'Italia risorta, distruggendo il potere tem- porale, avrebbe indotta, quando che sia, una profonda riforma nella Chiesa e nei suoi rapporti colla società moderna, e non solo in Italia, ma in Europa e nel mondo, e che lo spirito di libertà avrebbe pervasa la Chiesa, rinnovandola e abilitandola ad accordarsi colle nuove tendenze e i nuovi ordinamenti sociali. I suoi ultimi grandi discorsi alle Camere riflettono appunto la questione romana e contengono nettamente l'enunciazione del suo pensiero in proposito. Egli stesso provocò r interpellanza che gli rivolse uno dei suoi amici politici più fidi, il deputato Audinot, intorno alle trat- tative che si sapevano annodate dal governo colla Corte di Roma e alla polìtica che questo intendeva seguire, essendo, per rispetto a Roma, dall'occupazione francese permanentemente offeso il principio del non intervento. Era uscito proprio in quei giorni un opuscolo di Mas- simo D'Azeglio, nel quale si sosteneva che bisognava rinunciare a Roma che- solo un classicismo retorico po- teva credere necessaria all' Italia, e proponeva di traspor- tare addirittura la capitale a Firenze. L' autorità del- l'uomo faceva ritenere che le sue idee fossero comuni a molti del ceto politico piemontese e autorizzavano, i CAPITOLO X. 409 clericali da un lato, i repubblicani dall'altro, a dichia- rare e persuadere che il governo e il Re non avrebbero mai potuto occupare Roma. Del resto, fino al 20 set- tembre del 1870, Mazzini sostenne fermamente che la monarchia mai sarebbe entrata in Roma, e solo dopo quel giorno si rassegnò ad ammettere che, poiché v'era entrata, vi sarebbe rimasta per parecchie generazioni. Urgeva quindi che Cavour avesse modo di dichiarare gl'intendimenti del governo del Re, di qui l'interpel- lanza di Audinot e il discorso suo in risposta a que- sta, pronunciato il 25 marzo del 1861. Egli cominciò dal dichiarare che la questione romana era la più grave e importante che fosse mai stata sottoposta al parlamento d'un popolo libero, perchè non solo era di vitale impor- tanza per r Italia, ma la sua influenza si estendeva su tutto il mondo, e la sua soluzione interessava tutti, oltre che dal punto di vista politico, anche da quello morale e religioso. Però, se è difficile il parlarne, sarebbe pericoloso il tacerne, sarebbe segno, non di prudenza, ma di pusillani- mità. Roma dev'essere la capitale d'Italia. « Perchè noi abbiamo il diritto, anzi il dovere, di chiedere, d' insi- stere perchè Roma sia riunita all'Italia? Perchè senza Roma capitale l' Italia non si può costituire. » E dopo aver detto che solo con Roma capitale si potevano far cessare i dissensi e cementare 1' unione tra le varie parti dell' Italia, deplorò, con evidente allusione a Massimo D'Azeglio, che uomini d'alto valore di ciò non si mo- strassero persuasi. « In Roma concorrono tutte le cir- costanze storiche, intellettuali, morali che devono deter- minare le condizioni della capitale d'un grande Stato.... Tutta la storia di Roma dal tempo dei Cesari al giorno 4IO CAPITOLO X. d'oggi è la storia d' una città la cui importanza si estende infinitamente al di là del suo territorio, d'una città, cioè, destinata ad essere la capitale d'un grande Stato. » Bisogna che cessi ogni discussione in proposito perchè il governo del Re possa proclamare questa necessità di Roma capitale di fronte alle potenze estere. Poi venne a parlare del sacrificio che con ciò si chiedeva a Torino e che Torino avrebbe volentieri sopportato pel bene dell'Italia; dopo ciò prese a considerare i modi e le condizioni per render possibile l'acquisto di Roma. « Noi dobbiamo andare a Roma, ma a due condizioni ; cioè, noi dobbiamo andarvi di concerto colla Francia; inoltre senza che la riunione di questa città al resto d' Italia possa essere interpretata dalla gran massa dei cattolici d'Italia, e fuori d'Italia, come il segnale della servitù della Chiesa. » Per rispetto alla prima condizione os- servò che era impossibile lottare colla Francia, che an- che se fosse stato possibile ce ne saremmo dovuti aste- nere per non fare atto d' ingratitudine mostruosa, e i popoli scontano l' ingratitudine, e lo provò coli' esempio dell'Austria che dovette pentirsi nel 1859 amaramente d'essere stata ingrata colla Russia ; a parte ciò, quando fu chiesto r aiuto dell' Imperatore, questo non nascose i suoi impegni con Roma; il suo aiuto, nonostante, fu accettato, sarebbe assurdo protestare e agire contro im- pegni che allora furono ammessi. Non si deve credere per ciò, proseguì, che la soluzione della questione romana sia impossibile; quando si avveri la seconda condizione, la prima non offrirà grandi ostacoli. « Se noi giungiamo a persuadere la gran massa dei cattolici che l'unione di Roma all'Italia può farsi senza che la Chiesa cessi d'essere indipendente, credo che il problema sarà quasi CAPITOLO X. 411 sciolto. » Molti credono che, trasportata in Roma la ca- pitale del Regno, il Papa perderebbe molto in dignità e in indipendenza, cioè che il capo del cattolicismo sa- rebbe ridotto alla carica di « grande elemosiniere o cap- pellano maggiore. Se questi timori fossero fondati, se la caduta del potere temporale dovesse trar seco neces- sariamente questa conseguenza, io non esiterei a dire che la riunione di Roma allo Stato d' Italia sarebbe fa- tale, non solo al cattolicismo, ma anche all' Italia, giac- ché, o signori, io non so concepire maggiore sventura per un popolo colto che di vedere riuniti in una sola mano, in mano dei suoi governanti, il potere civile e il potere religioso. » Detto ciò, venne ad esaminare la questione se veramente il potere temporale assicurava al Pontefice una efìettiva indipendenza e provò con una finissima analisi storica, che nell'età moderna era vero proprio il contrario ; riferendosi alla Romagna, alle Mar- che e all'Umbria dimostrò che, dopo che furono sot- tratte al dominio papale, in quelle regioni si era svolto con maggior forza il sentimento religioso, che fino il partito clericale, più liberamente e con minori contrasti di prima, si agitava, e che perciò si doveva ritenere che, non potendo il Papa mantenere il suo dominio che colla forza, non poteva essere realmente indipendente. Vi è, concluse, un assoluto antagonismo tra la Santa Sede e le popolazioni. Alcuni vorrebbero conservato il dominio temporale col sussidio di armi straniere, quand'anche non potesse mantenersi che condannando i sudditi a una dura e perpetua servitù. Ma questo è argomento che più che a cristiani si converrebbe a quelli che cre- devano necessarii i sacrifizii umani per propiziarsi la di- vinità. Rispondendo poi a coloro che pensavano potere 412 CAPITOLO X. il Pontefice concedere quelle riforme che valessero a conciliarlo coi popoli sui quali imperava, provò che ciò era impossibile, perchè se il Papa può tollerare in molti paesi certe istituzioni di libertà, mancherebbe al suo do- vere se le promulgasse nel suo dominio diretto. E con- fortò la sua asserzione anche qui con esempii storici, principalmente tratti dalle discussioni del Congresso di Parigi. Non potendo essere rimediato lo stato d'anta- gonismo tra la popolazione e il governo, il potere tem- porale non è una garanzia d'indipendenza pel Pontefice. Ma è anche certo che una vera garanzia potrà trovare il Papa, quando, abbandonata la potestà temporale, « avrà sancita una pace duratura coli' Italia sul terreno della libertà. » — « Noi riteniamo che l'indipendenza del Pontefice, la sua dignità e 1' indipendenza della Chiesa possono tutelarsi mercè la separazione dei due poteri, mercè la proclamazione del principio di libertà appli- cato lealmente, largamente nei rapporti della società ci- vile colla religione. » E non solo la sua indipendenza verrà garantita, ma la sua autorità sarà estesa perchè cadranno i vincoli dei concordati e dei patti da cui è oggi per necessità inceppata. « Tutte quelle armi di cui deve munirsi il potere civile in Italia e fuori diverranno inutili quando il Pontefice sarà ristretto al potere spiri- tuale. » Ma come si può assicurare questa separazione, questa libertà della Chiesa? «A parer mio, la Chiesa troverà garanzie potenti nelle condizioni stesse del po- polo che aspira all'onore di conservare in mezzo a sé il sommo capo della società cattolica. I principii di li- bertà da me accennati debbono essere inscritti in modo formale nel nostro Statuto, debbono far parte integrante del patto fondamentale del nuovo Regno d' Italia. » E, CAPITOLO X. 413 dopo aver detto che suprema garanzia pel Papa è anche il sentimento cattoUco del popolo italiano che non vuole, ne volle mai, distrutta la religione, m.a solo il potere temporale, soggiunse che non v'era da disperare, per riuscire a segnare la pace col Papa, nemmeno della buona volontà del Papa stesso e dichiarò che, anche se ciò non si avverasse, l' Italia entrata in Roma, in qua- lunque modo, o volente o nolente il Pontefice, dovrà proclamare il principio della separazione, attuare la li- bertà per indurre « la gran maggioranza dei cattolici a far cadere su coloro cui spetta la responsabilità delle conseguenze della lotta fatale che il Pontefice volesse impegnare contro la nazione in mezzo alla quale esso risiede. » Fini augurando che questo non accada, che le fibre italiane vibrino ancora nell'animo di Pio IX, e « così sarà dato alla stessa generazione di aver risusci- tato una nazione, e d'aver fatto cosa più grande, più sublime ancora, cosa la di cui influenza è incalcolabile, d'avere, cioè, riconciliato il papato coli 'autorità civile, d'aver firmata la pace fra la Chiesa e lo Stato, fra lo spirito di religione e i grandi principii di libertà. » In questo discorso v'è un accenno, come s'è visto, alla piena libertà da concedersi alla Chiesa in qualunque modo avvenisse l'occupazione di Roma, e ciò sembra contraddire a quello che noi abbiamo detto sopra, ma, se ben si guarda, il ragionamento di Cavour in questa parte è in forma puramente ipotetica, mentre tutto il discorso è improntato all' idea di piegare il Papa alla rinuncia del potere temporale e al concetto di colpire l'opinione pubblica coli' enunciare quel programma di libertà, e perciò non ci pare infirmi le nostre asserzioni, massime se si tien conto che Cavour parlava come uomo poli- 414 CAPITOLO X. tico, anzi come ministro responsabile d'un grande Stato e nelle proposte concrete si mostrava meno largo che nei discorsi. Nel discorso che pronunciò sul medesimo argomento il 27 marzo, infatti, non accenna più alla concessione in ogni caso di una piena libertà alla Chiesa, o, per meglio dire, vi accenna in una forma generale, e non la nomina affatto nel discorso al Senato. Il che, secondo noi, appunto conferma la nostra opinione, che, cioè, Cavour sperasse, profferendo ampia, intera libertà alla Chiesa, abolendo tutti gl'istituti giurisdizionalisti, di indurre il Papa alla rinuncia spontanea del potere temporale ; che fosse fondamentalmente contrario alle esagerazioni antiquate di quel sistema, favorevole per convincimento profondo alla libertà ; ma che si esagera quando si sostiene che, entrato in Roma a colpi di can- none, dì fronte alle scomuniche e alle insìdie papali, alla sollevazione del clero, all'incitamento alla ribellione che partiva da tutti i pulpiti, quando la diplomazia pon- tificia era amica dei nostri nemici, e nemica dei nostri amici e subordinava gl'interessi religiosi all'interesse politico di danneggiare l' Italia, quando si sostiene, dico, che in queste condizioni avrebbe disarmato del tutto lo Stato, rinunciando a tutti i diritti di carattere giurisdi- zionalista. Piuttosto, si può domandare, proclamando il prin- cipio della piena libertà e indipendenza della Chiesa, Cavour prevenne, indovinò, come è proprio degli alti intelletti, quale sarebbe stato nel futuro l'assetto dei rapporti tra la Chiesa e lo Stato, Vubi consistam della loro pacifica convivenza? Quando si prescinda dalle con- tingenze di fatto, quando sollevandoci al disopra delle lotte e dei dissensi presenti, vogliamo considerare quale CAPITOLO X. 415 sarà l'assetto futuro della società, noi possiamo dire che, se la religione cattolica è destinata a durare, la Chiesa dovrà adattarsi alle nuove condizioni sociali, accettare, in tutto e per tutto, la libertà negli utili e nei pericoli, mescolarsi, penetrare in tutta la vita moderna, piegan- dosi alle sue esigenze, fare che la religione, piti che fre- nare, regoli il progresso ; e quindi quanto minori sa- ranno gl'impacci e i vincoli che la tengono stretta allo Stato, tanto più franca, sincera ed efficace sarà la sua azione, che si mostrerà non in contrasto, ma integra- trice di quella dello Stato. In questo senso Cavour in- travvide il futuro. E, inoltre, anche si può dire che Ca- vour segnò, determinò, il modo unico col quale l' Italia poteva completare la sua unità in Roma capitale. Qua- lunque giudizio si voglia fare sul valore giuridico e po- litico della dottrina della libertà della Chiesa, è certo che essa disarmò le diffidenze, vinse i pregiudizii, con- ciliò all' idea dell'abolizione del potere temporale gli spiriti di quei cattolici che erano anche liberali. Essa, insieme al principio della garanzia della sovranità spi- rituale, a poco a poco tolse il carattere internazionale alla questione romana, aprì moralmente all' Italia le porte di Roma. Cavour non vide il giorno del trionfo, che dalla sua morte fu ritardato, ma certo quando le truppe italiane coli' acquiescenza, se non col consenso, del- l'Europa entrarono in Roma, quando pacificamente vi si insediò la capitale d' Italia, fu sentito e capito da- gl' italiani e dagli stranieri, in ogni luogo dove uomini si rallegravano o si dolevano di quel gran fatto, che esso non si sarebbe così facilmente compiuto se Ca- vour non avesse, prima di morire, lanciato dalla tri- buna del parlamento, coli' audacia cosciente del genio, 4l6 CAPITOLO X. il principio della libertà della Chiesa, se non lo avesse imposto, quasi come articolo di vangelo politico, alla nuova Italia. IX. Alla questione romana Cavour dedicò principalmente gli ultimi suoi mesi di vita, e incessante era la sua atti- vità su di essa a Roma e a Parigi, pareva che gli pre- messe di venire presto a una conclusione, e forse, se avesse vissuto, l' Italia non avrebbe dovuto aspettare la guerra del 1870 per raggiungerla. Certo non si sa- rebbe avuto né lo strazio di Aspromonte né la ver- gogna di Mentana. E, oltre che a Roma, egli pen- sava a Venezia, e, pur dichiarando che non avrebbe aggredito, né lasciato, dall'interno del Regno, aggredire l'Austria, preparava in Europa quell'ambiente morale contrario a questa, su cui faceva gran conto, si asteneva da provocazioni, ma, come aveva già fatto in Lombar- dia, nei Ducati, in Romagna, disciplinava, riuniva in- torno alla sua politica i liberali di quella regione, e, per mezzo degli emigrati e dei suoi agenti, li confor- tava e li manteneva in quella attitudine verso l'Austria di resistenza passiva che non dava pretesto a repres- sioni violente, ma irritava il governo di Vienna, lo iso- lava, e gì' impediva di abbandonare quel sistema com- pressivo, che lo rendeva odioso al popolo. E, oltre a ciò, la sua mente vasta e potente si portava s;i tutti ; nuovi e gravi problemi della vita italiana: la fusione morale delle popolazioni politicamente riunite, la cura dei mali del mezzogiorno, il suo risanamento sociale ed economico, le riforme nei codici e nell'amministra- CAPITOLO X. 417 zione, la trasformazione dell'esercito da piemontese in italiano, assorbendo gli eserciti regionali, i volontarii, gli elementi migliori che avevano servito i passati go- verni, l'apertura di strade, la costruzione di ferrovie, l'assetto finanziario del nuovo Stato, il riordinamento dell' istruzione, perfino la legislazione sociale che mi- gliorasse e assicurasse le condizioni degli operai, impe- dendo ad essi di cadere nelle mani dei partiti estremi ; a tutto egli pensava, nulla gli sfuggiva, capiva la gra- vità immensa del compito che doveva adempiere, ma non ne era spaventato. Si era scelto collaboratori in- telligenti e degni di lui chiamandoli nel Ministero, affi- dando a loro le più alte cariche pubbliche nelle Pro- vincie specialmente nel mezzogiorno, ricorreva a tutti gli uomini di buona volontà, senza badare se gli fossero stati o gli fossero amici o avversarli, ma egli era sem- pre il capo, egli vedeva, capiva, studiava tutto, nulla gli sfuggiva, era il vero primo ministro che non fiacca le energie, né lo spirito d'iniziativa dei suoi collabo- ratori, ma li disciplina, li sorveglia, e imprime al loro lavoro queir indirizzo unico che è 1' ideale e anche la difficoltà somma del governo parlamentare. Il suo lavoro era immenso, continuo, senza un mo- mento di riposo, la sua fibra, per quanto prodigiosa- mente forte, doveva finire per esserne vinta. Egli sentiva la stanchezza fisica, ma non la curava, perchè la mente, sempre pronta e sveglia e potente, lo abilitava a vin- cerla ; queste vittorie, però, non solo dovevano abbre- viargli di qualche anno la vita, ma precipitarne la morte. Per compiere l'opera immane che s'era prefisso e che sentiva necessaria, avrebbe voluto avere concordi con sé tutti gl'italiani, meno i rivoluzionarli irriducibili Cavour. 27 4l8 CAPITOLO X. e i partigiani dei governi cessati clie non curava, perchè era certo che avrebbe saputo sempre domarh ; avrebbe almeno voluto che tutti i buoni, tutti quelli che pensa- vano più alla patria che a sé stessi, si astenessero dal pro- vocare discordie e dissensi, e, pur discutendo, non s' in- giuriassero e calunniassero a vicenda. Pur troppo questo suo vivissimo desiderio, che per l' Italia era una neces- sità, non fu esaudito, ed egli stesso sentì, e ne fu pro- fondamente, mortalmente ferito, il morso dell'ingiuria calunniosa. A proposito del trattamento da farsi all'esercito me- ridionale riunito da Garibaldi, scoppiò la tempesta. Molto probabilmente il Fanti, ministro della guerra, non usò, in questo difficile aftare, né tutta l'accortezza, né tutto lo spirito di conciliazione che sarebbero stati necessari!, certamente le pretese, non di Garibaldi, ma dei garibaldini, in ispecie di quelli che meno avevano osato e combattuto, erano eccessive ; ad ogni modo, i nemici di Cavour, aiutati dai repubblicani, seppero sfrut- tare l'animo generoso dell'eroe, sempre mal disposto verso il grande ministro, dipingendogli l' infelice stato cui il governo voleva ridotti i suoi commilitoni, per- suadendolo che il Ministero desiderava disfarsi dei ga- ribaldini perchè non si curava né di Venezia né di Roma ; e tanto seppero fare, con quelle arti sottili che sono proprie dei settarii, che indussero Garibaldi a pub- blicare una lettera, nella quale erano aspramente cen- surati il governo e la maggioranza che lo sosteneva, e a recarsi a Torino per interpellare, come deputato, il Ministero sul trattamento fatto ai garibaldini e sulla sua politica. Era evidente che i partiti estremi mira- vano a giovarsi dell'immensa popolarità dell'eroe, er- CAPITOLO X. 419 gendolo sopra il governo e il parlamento, e anche con- tro il Re. Cavour e la maggioranza, a parare il colpo, che avrebbe ferito, più che il governo, le istituzioni dell'Italia, si accordarono ; Bettino Ricasolì presentò un' interpellanza e, con quell'austera eloquenza che sa- peva attingere dalla severità della sua anima puritana, ammonì, senza nominarlo, Garibaldi che a nessuno è le- cito sovrapporsi alla legge, per quanto grandi siano i ser- vizi che abbia reso alla patria. « Il liberatore dell' Italia è il Re e gì' italiani tutti hanno lavorato sotto questo duce magnanimo a questa liberazione ; non e' è né primo, né ultimo cittadino. Quegli il quale ha avuto la sorte di compire il suo dovere in una piìi larga sfera d'azione, d'onde una maggiore utilità alla patria ne venisse, e l'abbia veramente compito, ha un dovere più grande ancora, quello, cioè, di ringraziare Iddio che gli abbia concesso questo privilegio prezioso, che a pochi cittadini é dato di poter dire : Servii bene la patria, ho intieramente compiuto il debito mìo. » Que- ste parole rinfrancarono e assicurarono la maggioranza, scossero gli animi degli oppositori in buona fede, com- mossero Cavour, ebbero un' eco immensa nel paese, ma non riuscirono a persuadere Garibaldi. II quale entrato il 18 aprile nella Camera, accolto da applausi, dal suo banco di deputato, investì furiosamente il' governo e specialmente Cavour, accusandolo dì aver fatto di tutto per mandare a male la spedizione dei Mille, di non averla aiutata, di avere accettata solo all'ultimo mo- mento r unità che aveva sempre prima osteggiata, e infine ora, col trattamento iniquo fatto ai conquistatori del mezzogiorno, di eccitare una guerra fratricida. Que- ste parole, ingiuste, false e che mai avrebbero dovuto 420 CAPITOLO X. uscire dalla bocca d'un uomo come Garibaldi, susci- tarono un tumulto indescrivibile; Cavour, acceso in viso, colla voce tremante per l'indignazione, si levò per raccogliere la sfida e rispondere come l'assalto in- generoso e tracotante meritava. Fu un momento terri- bile : se Cavour parlava come aveva in animo di fare e come ne avrebbe avuto il diritto, la maggioranza infe- rocita lo avrebbe seguito, pronta a qualunque estremo; sarebbe scoppiato nel parlamento, non un tumulto pas- seggiero, ma la discordia più profonda e insanabile, e, davvero, questa, propagandosi nel paese, avrebbe po- tuto destare la guerra fratricida. Si sarebbe rotta irre- missibilmente quella concordia tra Re e popolo cui era dovuta la fortuna d' Italia. Nino Bixio vide il pericolo, colle lagrime negli occhi, egli, l'uomo fierissimo che non piangeva mai, si gettò tra i contendenti, pregò, egli che era uso al comando e a imporre l'obbedienza, che in nome dell' Italia, cui ambedue erano necessarii, sì dimenticassero le parole pronunziate da Garibaldi; il suo appello fu inteso da Cavour, il quale, quando fu ri- presa la seduta, facendosi una forza eroica per vincere sé stesso, rispose calmo, almeno in apparenza, e cosi il dibattito fu ricondotto nelle proporzioni d'ogni altra discussione parlamentare. Pochi giorni dopo, per ade- rire a un desiderio del Re, i due grandi avversarli che i tristi avevano voluto divenissero nemici, s'incontra- rono nel palazzo reale, si riconciliarono, non divennero amici, ma sparì ogni asprezza tra loro. La Camera, intanto, esauriva la discussione e vo- tava un ordine del giorno di fiducia nel governo. La tempesta era superata, ma la sua impressione non si cancellò dall'animo dì Cavour, che ne era stato e ne CAPITOLO X. 421 rimase sempre, nei pochi giorni che trascorsero prima della sua morte, profondamente amareggiato. Non ri- spondendo a Garibaldi, non ritorcendo 1' ingiuria atroce e calunniosa rivoltagli, egli fece il maggiore dei sacri- ficii alla patria, e mai fu più grande che in quel mo- mento terribile. Il lavoro intenso e continuo, la perenne tensione mentale nella quale viveva, avevano logorata la sa- lute di Cavour, che, dal suo ritorno al potere nel gen- naio del 1S60, non aveva, si può dire, più preso un momento di riposo. Dormiva pochissimo, mangiava affrettato, non si distraeva dall'occupazione politica che tutto lo possedeva. Era già indebolito quando scoppiò la contesa con Garibaldi, la forza che dovette fare su sé stesso, il dolore acutissimo che provò nel sentirsi così ingiustamente e ferocemente attaccato, ebbero una funesta ripercussione sul suo fisico : si può dire che dopo quel giorno non si sentì più bene. Non fu la sfu- riata di Garibaldi che ne produsse la morte, come fu detto, ma concorse indubbiamente ad accelerare la ca- tastrofe, perchè minore era la resistenza che presentò ad essa il suo organismo ormai troppo debole, e reso dal lavoro troppo impressionabile. Mentre i suoi famigliari si accorgevano del suo deperimento, egli lo negava ; consigliato a prendersi qualche giorno di riposo, ad an- dare in Svizzera o a Leri, rispose che vi sarebbe an- dato più avanti, che allora non poteva, e proseguì in- defessamente con attività febbrile il suo lavoro, quasi presago che s'approssimava la fine della sua vita mortale. 422 CAPITOLO X. Il 29 maggio 1861 si sentì male, ebbe qualche segno di febbre, si coricò, nella notte ebbe forti vomiti, fu chia- mato il medico che ordinò salassi successivi per domare la febbre che diveniva sempre più forte. Il 31 la febbre era scomparsa. Egli, disprezzando i consigli del medico, ne approfittò per ricevere i ministri, tener consiglio e lavorare tutta la mattina coi suoi segretarii. Diceva che non aveva tempo d'essere ammalato, che il parlamento e il paese avevano bisogno di lui. Nella serata fu ri- preso da febbre e da delirio che, meno rari intervalli, non lo lasciarono più fino al momento della morte. Nel delirio, come quando tornava in sé, non parlava che dell'Italia, di ciò che si era fatto, di ciò che rimaneva a fare, della questione romana, del mezzogiorno, del prestito che si doveva contrarre per assestare il bilan- cio ; quell'anima ardente, dibattendosi colla morte, non pensava che all' Italia che era stata sempre la luce del suo pensiero, la fiamma del suo cuore, all' Italia che aveva tratta dal sepolcro secolare, per la quale aveva consumata la vita. Cattolico convinto, volle morire coi conforti della religione che non aveva mai offeso, anche quando aveva dovuto combattere gli esosi privilegii del clero, abolire le congregazioni e le confraternite inutili e dannose, anche quando aveva mirato a distruggere il dominio temporale; e i conforti religiosi gli furono apprestati da un pio frate che ebbe poi a patire, per ciò, non piccole noie dalla crudele intransigenza della curia romana. Al pio frate affermò la sua fede nel prin- cipio della libertà della Chiesa, e furono le parole: li- bera Chiesa in libero Stato che pronunziò già presso a morte, e con queste e col nome d'Italia sulle labbra se- renamente spirò alle 6 e tre quarti del mattino del 6 giù- CAPITOLO X. 423 gno, mentre tutto il popolo di Torino si assiepava at- torno al suo palazzo, ansioso di avere notizie di lui che ognuno riconosceva come il Nume tutelare della nuova Italia. Non mai morte fu pianta da tutto un popolo come quella di Cavour. Dalla reggia all' umile casa del po- vero, tutti ne furono dolorosamente colpiti. Parve che la fortuna d'Italia s'oscurasse, quando egli venne a mancare, parve che sull' Italia incombesse novamente la servitù e 1' abiezione. Ciò non fu perchè la virtù del Re, del parlamento e del popolo impedì tanta iattura, ma anche perchè egli aveva segnata la via dritta, la via vera da seguire, aveva educato tutti alla libertà, aveva imposto r Italia nuova all' Europa, in modo che le forze avverse non riuscirono a rovinarla. Ma certo il cam- mino per giungere al completamento dell'unità fu, dalla sua morte, reso più lungo e penoso, perchè venne a mancare all' Italia lo statista di genio, che tutti rispet- tavano, la cui autorità da tutti era riconosciuta, e, prin- cipalmente, quando egli fu morto, mancò all'Italia quella superba, ma sicura e cosciente, fiducia nel governo e nella propria fortuna che fino allora l'aveva abilitata a superare le prove più dure, ad essere paziente e audace nello stesso tempo, a sapere volere fortemente e a sa- pere virilmente, senza debolezza o fiacchezza, attendere le occasioni propizie. E mancò alle istituzioni libere della nuova Italia la sua azione moderatrice e vivifica- trice. Egli aveva disciplinato il parlamento subalpino, lo aveva piegato a determinare, a legalizzare un'opera rivoluzionaria e, nello stesso tempo, a condurre a termine riforme civili, amministrative, economiche gravissime, le quali da sole sarebbero bastate a formare la gloria 424 CAPITOLO X. d'uno statista e d'un' assemblea. Avrebbe, vivendo, esercitata la stessa influenza sul parlamento italiano, avrebbe temperato gli attriti, i contrasti, le animosità, avrebbe conciliato i nuovi elementi coi vecchi, persuaso a tutti una lotta feconda di idee, impedito che la vita parlamentare s' immiserisse e si perdesse in gare e in competizioni personali, o in piccoli dissidii d'interessi parziali. Sopra tutto avrebbe tenuto alto il prestigio delle istituzioni libere. Perchè nessuno meglio di Cavour capì e sentì che il sistema parlamentare, più d'ogni altra forma 0 sistema di governo, ha bisogno di essere elevato ne- gl' intendimenti e nelle ambizioni. La gara del potere in sé è misera cosa, avvilisce gli uomini e gì' istituti e corrompe e inquina tutta la vita pubblica, quando non sia vivificata e nobilitata dall' idea del dovere politico, dal concetto che il potere è mezzo, non fine a sé stesso, mezzo per attuare certe idee, che si credono utili e buone, per servire efficacemente il paese. Egli, che aveva altissimo il senso del dovere politico, lo avrebbe impo- sto coU'esempio, persuaso, trasfuso colla parola, col- l'azione continua educatrice; avrebbe impedito che si oscurasse e a poco a poco si smarrisse come poi è, pur- troppo, quasi accaduto del tutto. La sua perdita fu pianta in Italia, ma destò un senso profondo di rammarico, di dolore anzi, in tutta Europa. 1 liberali piansero in lui perduto l'uomo politico che più aveva il senso, il concetto, l'idea della libertà, che più aveva provato col fatto come, nella libertà e per la libertà, si potesse osare qualunque riforma, compiere qualunque cambiamento, concretare, nei termini possi- bili, qualunque rivoluzione. Gli statisti sentirono che colla sua morte era mancata una forza moderatrice e CAPITOLO X. 425 incitatrice, nel consorzio internazionale, che avrebbe sa- puto e potuto conciliare gì' interessi, impedire i con- flitti, esplicare sempre un'azione umana e civile. Ministro dirigente d'una grande nazione, egli avrebbe esercitato in tutto il mondo un'influenza favorevole al progresso e alla civiltà, la quale, mentre avrebbe collocata in un grado eminente di maestosa potenza l'Italia, l'avrebbe anche fatta amare, stimare e rispettare da tutti i popoli. Cavour è il più grande statista dell'Europa moderna, perchè è quello che con minori mezzi ha saputo otte- nere più grandi risultati. In lui l'audacia accorta e pru- dente di Richelieu, la potenza fascinatrice della parola, la genialità delle idee di Pitt, il senso umano e civile di Gladstone, la vastità dei concetti, la forza morale per attuarli, superando ogni ostacolo, di Bismark. Più grande di tutti, perchè più completo, più armonicamente equi- librato di tutti. Egli è l'uomo politico più idealista che abbia mai avuto il mondo ; in lui la freddezza cal- colatrice dello statista si univa all'entusiasmo dell'apo- stolo, all'audacia del tribuno, al coraggio del cospira- tore e del ribelle. Quando si sarà perduta la nozione esatta degli avvenimenti e delle date, egli apparirà ai posteri come l'uomo provvidenziale destinato ad attuare le idee dei precursori, specialmente di Mazzini, a con- cretare nei fatti, coU'animo e il cuore degno di loro, le loro aspirazioni, le loro speranze, la fede per cui i pre- cursori e i martiri hanno pensato, scritto e sofferto, né al- cuno crederà che l'apostolo infaticato e sublime dell'unità e lo statista che seppe attuarla fossero discordi e nemici. Nel fatto Mazzini è uomo di altra età ; solo da un popolo complesso nella sua vita come l'italiano potevano uscire contemporaneamente Mazzini, Cavour, Vittorio Emanuele 426 CAPITOLO X. e Garibaldi. E il popolo nostro, in pochi anni, in loro e per loro, potè compiere l'opera che un altro popolo avrebbe tratta a compimento solo in parecchi secoli. Vi furono con- trasti, vi fu anche inimicizia tra loro, ma insieme concor- sero a creare il maestoso edifizio della nuova Italia. Il pensiero dell'apostolo, ravvolto nelle nebbie dell'utopia, si trasfuse sereno e limpido nello statista, passò nell'eroe che riassumeva e rappresentava il popolo, fu inteso dal Re, e lo statista, l'eroe e il Re insieme lo attuarono. Chi fu più grande ? Tutti insieme cooperarono all'opera meravigliosa, a tutti si deve eguale gratitudine; tutti furono egualmente grandi. Ma ricordino gl'italiani che, fra tutti, Cavour fu quello che ebbe più intera, più si- cura la comprensione della libertà nelle sue varie espli- cazioni, che più intese e capì la vita moderna, che più ne intuì i problemi morali e sociali, e pensino che solo inspirandosi ai suoi insegnamenti e ai suoi esempii, po- tranno conservare la libertà e fare nelle forme di essa grande e potente la patria. NOTA. Le citazioni dei discorsi sono state ricavate dal volume di Ar- TOM e Blanc : // Conte di Cavour in Parlamento, Firenze, Bar- bèra, 1868, e dagli Atti ufficiali del Parlamento italiano. Le citazioni degli scritti sono state ricavate dall'edizione che ne ho procurata io : Scritti del Conte di Cavour novamente raccolti e pubblicati, Bologna, Zanichelli, 1892. Le citazioni delle lettere sono state prese principalmente dalla raccolta pubblicata dal Chiala in 6 volumi, edita dalla Ditta Roux a Torino, e dalle altre raccolte che sono state, insieme e dopo questa, pubblicate. D. Z. Fine, INDICE. Capitolo I Pag. I » II 20 » HI 35 » IV 52 » V 68 » VI 91 » VII 165 » Vili 234 » IX 269 » X 336 N^NÌr/